Alberto Navilli: Come è nato questo progetto e quale grado di rapporto sussiste tra le due mostre?
Marco Scotini: Entrambe le esposizioni sono organizzate nel quadro della Presidenza francese del Consiglio dell’Unione Europea. Diciamo che si tratta di una scelta a monte, per cui la mostra Vita Nova al MAMAC – curata da Valerie Da Costa – si focalizza sull’arte italiana dagli anni Sessanta fino al 1975. L’esposizione Le Futur Derrière Nous, presso Villa Arson e curata da me, avrebbe dovuto coprire la scena artistica italiana post anni Settanta fino ad oggi. Ma così non è stato. Ho deciso di lasciare il decennio degli anni Ottanta come un gap – uno spazio vuoto, una lacuna temporale – cominciando il percorso di Le Futur DerrièreNous dagli anni Novanta, il tempo in cui emerge la mia stessa generazione. Da questa scelta deriva il sottotitolo “L’arte italiana dopo gli anni ’90: i contemporanei di fronte al passato”. Ma questa frase chiarisce un altro aspetto, un ulteriore elemento di raccordo tra le due mostre a Nizza. Il fatto che artisti di tre generazioni diverse si confronteranno sulla grande anticipazione degli anni Settanta e sulla rimozione che ne hanno operato la cultura e la politica italiana.
A.N.: Tutto parte con Identité italienne. L’art en Italie depuis1959 curata da Germano Celant e tenutasi al Centre Pompidou di Parigi nel 1981. Cosa è successo in questi decenni di silenzio? Ha ancora senso parlare di identità artistica italiana?
M.S.: In realtà nel sistema dell’arte, non solo italiana, quella mostra è rimasta un punto di riferimento. Nonostante presentasse molte contraddizioni e fosse già un segno dei tempi mutati. In quella esposizione parigina c’è uno straordinario catalogo che è un’eredità diretta della forza archivistica degli anni Settanta, mentre la mostra è una riduzione a pochi casi artistici, all’interno di un format che rappresenta bene quel decennio di reazione e che coincide con gli anni ’80. Retrospettivamente, comunque, non ci sono stati capitoli altrettanto importanti sulla scena artistica italiana. Dopo quaranta anni, dobbiamo per forza rifarci a quel capitolo, non solo perché nuovamente siamo in Francia. Le FuturDerrière Nous non cerca di proporre nessuna idea di identità culturale (molti artisti presenti fanno parte della nostra diaspora). Addirittura il carattere comune fra i venti artisti (o gruppi artistici) presenti in mostra non è la conferma di un’appartenenza culturale e neppure l’effetto della sedimentazione – più o meno lenta – di un tempo che si è sviluppato per continuità: è piuttosto una frattura temporale, un mancato incontro con la storia, una sorta di trauma sociale e culturale. Tale scena artistica si definisce nello spaesamento operato dalla rimozione ufficiale dell’ondata rivoluzionaria e creativa dei Settanta.
A.N.: Nei sessant’anni di arte italiana che interessano le due mostre, sono dunque gli anni Ottanta ad interromperne la progressione cronologica. Da cosa deriva e cosa segnala questa discontinuità? Verifica, per citare Okwui Enwezor, che alla mancanza temporale coincide una mancanza culturale?
M. S.: Quando a Enwezor fu chiesto perché si fosse limitato alla scelta di tre artisti italiani per la sua Biennale di Venezia del 2015, la sua risposta fu più o meno: “Perché gli artisti italiani non sanno parlare del presente”. Credo che Okwi avesse ragione. In compenso, noi abbiamo scelto una via più radicale per parlare di oggi, partendo proprio dalla constatazione che viviamo il tempo di una rimozione, di una interdizione. Per questo nella mostra a Villa Arson ogni sala espositiva parla due lingue: quella del presente e quella dei Settanta, inestricabilmente.
A.N.: Il paradigma teorico della mostra si allinea al pensiero radicale italiano, ovvero quel pensiero derivante da una realtà discambio di attrezzi culturali tra Italia e Francia. Quale contributo riserva questa connessione?
M.S.: L’intera mostra è costruita sui paradigmi che quel pensiero ha elaborato nella officina Italia del 1970, con i grandi sviluppi che esso ha avuto negli ultimi decenni. Non è un semplice caso che autori come Negri, Virno, Federici, Lazzarato, Marazzi, Agamben, Bifo abbiano avuto una audience internazionale a partire dagli anni Novanta, con l’ascesa dei movimenti “No Global”. Non è neppure un caso che il rapporto di quella generazione con Foucault, Deleuze, Guattari, Lotringer, Alliez sia stato così intenso.
A.N.: Le Futur Derrière Nous rappresenta la volontà di esposizione dei trent’anni più prossimi della storia dell’arte contemporanea italiana. Quali artisti verranno accolti a Villa Arson?
M.S.: In tre sezioni tematiche, la mostra raccoglie venti artisti o gruppi artistici che in questi anni hanno lavorato su questa archeologia del passato recente. Nelle sale si incontrano temi e riposizionamenti di figure chiave di quel decennio che hanno inaugurato nuovi modi di pensare, di dire, di essere: dalla riforma psichiatrica di Franco Basaglia (Stefano Graziani), a Carla Lonzicon la sua teoria femminista (Claire Fontaine e Chiara Fumai), dall’anarchico Pinelli (Francesco Arena) al gruppo di liberazione sessuale Fuori (Irene Dionisio), da Nanni Balestrini (Danilo Correale e Claire Fontaine) e il Gruppo ’63 (Luca Vitone) al cinema radicale di Alberto Grifi (Alice Guareschi), dall’Enzo Mari più politico (Celine Condorelli) al compositore concettuale Giuseppe Chiari (Massimo Bartolini), dagli Autonomi (Rossella Biscotti) ai fondatori del Centro per la sperimentazione e la ricerca teatrale di Pontedera (Rä di Martino). A questa sezione dal carattere più archeologico e dal titolo “Divenire Ex” si intreccia un’altra, “Esercizi di esodo”, più ampiamente dedicata a temi come il rifiuto del lavoro (Danilo Correale), il passaggio al lavoro postfordista (Marie Cool & Fabio Balducci), la controinformazione (Stefano Serretta e Francesco Jodice), la pedagogia non autoritaria (Adelita Husni-Bey), e molto altro. Ad entrambi succede l’ulteriore sezione “Vogliamo ancora tutto”(Alterazioni Video, Bert Theis, Paolo Cirio, Stalker), dove, se un recupero è in atto, è proprio quello delle pratiche in ambito urbanistico, ecologista, mediattivista, in parallelo con il movimento anti-globalizzazione.
A.N.: La mostra non si svolge in una sede neutra: Villa Arson rappresenta un capolavoro brutalista di Michel Marot. È previsto un dialogo allestitivo tra la mostra e la preesistenza architettonica?
M.S.: Se lavori a Villa Arson non puoi evitare la straordinaria architettura brutalista di Marot. Tra l’altro c’è una coincidenza perfetta tra gli anni che investighiamo e l’apertura di Villa Arson alla fine dei Sessanta. La stessa apertura è varata da un’occupazione di giovani artisti francesi di cui abbiamo trovato materiali fotografici in archivio. Tuttavia al centro del lavoro di Stalker c’è proprio il Corviale, il complesso residenziale progettato da Mario Fiorentino nel 1975 e situato nella periferia sud-ovest di Roma. Per la sua lunghezza di un chilometro è detto “Il serpentone” e accoglie 4500 abitanti. Siamo ancora di fronte ad un’architettura in stile brutalista ma che, nel suo essere un’utopia, raccoglie molte contraddizioni.
A.N.: “Il futuro alle spalle” ci fa capire che il tempo è un problema complesso. Scriveva Lina Bo Bardi: “Il tempo non è lineare, è un meraviglioso groviglio dove, in qualsiasi momento, possiamo scegliere punti e inventare soluzioni”. Da dove deriva iltitolo della mostra e che soluzioni troveremo in ciascuna delle suetre sezioni?
M.S.: Le tre sezioni tematiche non sono concepite come corpi distinti ma si sovrappongono e stratificano tra loro, seguendo un progetto di mutua interconnessione e interdipendenza. Lo stesso accade alla temporalità che vi viene messa in forma. Sono convinto che questa mostra è un ulteriore contributo alla fuoriuscita del tempo lineare della storia, per il quale una cosa succede dopo l’altra. Non credo sia possibile separare la propria biografia personale dal tempo sociale e dal tempo politico-culturale. Vorrei farti un esempio. L’ingresso della mostra è una soglia concettuale e temporale. Una gigantografia fotografica in bianco/nero di Uliano Lucas ritrae un sit-in a Piazzale Loreto del 1971. Sopra questa, isolata, campeggia una Carta Atopica di Luca Vitone del 1992. Venti anni separano i due lavori ma lo scarto tra le due immagini non potrebbe essere più forte. Al pieno sociale dell’immagine di Lucas fa da contraltare il vuoto della mappa di Vitone, in cui anche i toponimi sono cancellati. Al di là del contenuto, Carta Atopica (la stessa in mostra a Nizza) apriva la mia mostra “Empowerment. Cantiere Italia”, che ho aperto a Villa Croce nel 2004 e Sit-In apriva la mostra “L’Inarchiviabile. Italia anni Settanta” che ho aperto nel 2016 a FM Centro Arte Contemporanea di Milano.
A.N. : Dopo queste riflessioni sul futuro alle spalle, come credi si configurerà il futuro davanti a noi?
M.S.: Come sai, sono uno dei più irriducibili sostenitori dell’inesistenza del futuro. Il nostro paradigma temporale non è più modernista. Questo ce lo hanno insegnato proprio gli anni Settanta con l’avvento della moltitudine contemporanea. Non possiamo più pensare un prima e un dopo ma solo un virtuale e un attuale. L’intera mia attività curatoriale, da oltre venti anni, è tutta focalizzata a mettere in luce questo virtuale, i fantasmi, il potenziale di questa latenza onnipresente. La memoria non appartiene alla nostra facoltà di ricordare ma è la stessa nostra vita. Ciascuno di noi è un archivio, malgrado se stesso.