Quando i casi della vita ti pongono di fronte ad un oggetto qualsiasi in forma di opera d’arte, ti guardi intorno cercando negli altri uno sguardo estetico di complicità. Ma la curiosità per l’importante rinvenimento di un oggetto dell’esperienza collettiva, come opera d’arte, è puntualmente razionalizzato, poiché si trovano sempre le tracce di una semiotica collettiva, la meraviglia di una medialità totalmente tradotta, la profondità di una testimonianza sociale e l’ambiguità di una mediazione tra un valore d’uso e un valore di scambio. Spesso mi sprona anche una domanda: “Chi è e che cos’è oggi il motore dell’opera d’arte? Come facciamo a definire quell’oggetto transitivo un oggetto macchinico, tra estetica della politica e politica estetica? Cos’è, se è un’opera d’arte?”. Ogni volta che pongo queste domande a me stesso o ad un altro collega, siamo presi dal panico. Per noi che recepiamo gli eventi artistici non solo attraverso la mediazione culturale, ma lungo i canali di una misteriosa “sistematica mediale” (i cruciverba della comunicazione artistica), non è stato facile arrivare a dare una forma il più possibile razionale all’universo artistico contemporaneo, in cui la materia più diffusa dell’arte è il gioco dell’inganno, la menzogna icastica, l’inconcluso concettuale, il fuorviante, il complesso, l’opaco, il dilettantesco che sfiora lo snobismo e via di seguito. Spesso temiamo che descrivendo l’enigma in cui si trovano le arti contemporanee, dobbiamo – per forza di cose – ricorrere proprio a quelle mediazioni semantiche che, alla fine, opacizzano la chiarezza più che svelarla. Di solito giornalisti, osservatori della kulturindustrie (industria culturale) o del verwaltete welt (il mondo amministrato)credono di raggiungere precisione e imparzialità, ponendosi in orbita geostatica nell’oggetto della loro arrogante semplificazione, sottolineando la loro totale non appartenenza all’ambiente e all’oggetto che analizzano. Noi invece, quelli della art.comm (Castelvecchi, Roma, 2002), senza girarci intorno, partiamo da dentro il contesto semiotico di comprensione e di incomprensione dell’arte contemporanea. Lo osserviamo, cerchiamo di viverlo e tentiamo di trovare la consapevolezza attiva del dialogo, lontani dall’attacco dei suoi molti nemici, che sono schierati sia fra i detentori del comprensibile che fra i fustigatori dell’incomprensibile. Diceva Edoardo Sanguineti: “La nozione di chiarezza, per nostra disgrazia, pare essere intrinsecamente e fatalmente oscura.”. Secondo il credo dei divulgazionisti, che ormai governano la nostra estetica, tutte le cose che ci circondano non possono che ricadere necessariamente in uno dei settori contrapposti: o comprensibile o incomprensibile, o divulgativo o elitario, o enunciativo, o oscuro, insomma la verwaltete welt, il mondo amministrato secondo T. W. Adorno, ma anche M. Horkheimer, si condivide tramite un gioco di supposizioni della tredicesima lettera dell’alfabeto italiano che starebbe a difendere un dubbio semiaperto sull’altrimenti; sennò, “oppure invece”! In sostanza, il finale di spiegazione delle arti contemporanee è dato proprio dall’uso concettuale delle “o”: quando o coordina due soggetti, il valore può essere sia al singolare (questa o quella per me pari sono), sia al plurale (finestre o balconi che aprono sulla strada). In effetti, all’origine di questo desiderio di ripartizione non c’è alcuna buona fede: per il mondo amministrato, è innaturale scegliere e catalogare le cose secondo la propria sensibilità ideologica e farla passare per una sensibilità oggettiva.
Il torto della verwaltete welt nasce quando la sensibilità strumentale viene agita nell’imposizione del pregiudizio estetico. Artisti, giornalisti, uffici stampa, agenti della comunicazione, che accettano e praticano questo atteggiamento manicheista, rinunciano a giudicare o almeno a comprendere un’opera d’arte in base alla rispondenza con il proprio gusto e si dedicano totalmente al regime ideologico che sottende il canone imposto. Nel 99% dei casi, quel canone è chiamato stile o tendenza artistica, ma nei fatti esso non conclude, non accetta, o si rifiuta di accettare, una posizione di dialogo. Insomma, chi accetta il pregiudizio ideologico della chiarezza della verwaltete welt, delega a terzi la formazione del proprio gusto. Il pregiudizio estetico possiede una forza di inquinamento, che in questo momento investe l’ideologia della destra, del centro e della sinistra e serve a far perdere le speranze a chi voglia combatterlo: di fronte a un soggetto militarizzato dall’estetica del Capitale che applica questo imbroglio, la ragione o la semiotica (che poi sarebbe una logica dell’espressione) delle arti non è riuscita a scamparla. Il pregiudizio dell’antidialogo è come un torrente impetuoso, inarrestabile che, con la sua forza ideologica amministrata, cerca di convogliare a valle, tra i rifiuti, il consenso strumentale di ogni essere pensante. Ed ecco che, nelle sponde di questo limite ideologico dell’arte, avviene la trasformazione redatta da J. Lotman sul Dialogo e l’Asimmetria artistica: “I grandi stili si presentano come messaggi testuali compatti che le componenti dinamiche della cultura si scambiano nell’atto di comunicazione interna. Il cambiamento alternato del movimento verso il mondo denotativo o verso la struttura semiotica immanente produce il secondo aspetto del processo: lo scambio di stimoli con la realtà extraculturale. Ma così come gli stimoli esterni, per diventare fatti della coscienza umana individuale devono passare attraverso il sistema nervoso centrale dell’uomo e trasformarsi secondo le leggi del suo linguaggio, gli stimoli extra-culturali, entrando nel sistema culturale, vengono trasformati in base alle leggi del linguaggio del sistema. Si produce così un torrente di informazioni in continuo autosviluppo ovvero lo sviluppo dinamico della cultura” (in La semiosfera. La simmetria e il dialogo nelle strutture pensanti, a cura di S. Silvestroni e F.Seddu, La Nave di Teseo, Milano, 2022, p.81). Attraverso le parole di Lotman, siamo disposti a scoprire ciò che si cela fra comprensione e incomprensione dell’arte. Possiamo restare lì e continuare a chiamarci osservatori, ascetici e al di fuori di qualsiasi dogma ideologico. Possiamo gettarci in quel turbinio dell’arte moderna e farci trasportare dai limiti e dalle infinitudini della sua forma, misurando il consenso collettivo totale e il delirio esistenzialistico dettato da un profondo egoismo cieco e auraticamente incomprensibile. O infine, ed è ciò che vi invito a fare, possiamo sì gettarci nel dialogo, ma trasformati in soggetti autonomi e autovalorizzati (oi dialogoi), dove dobbiamo essere pronti a risalire la complessità del conflitto culturale ribollente di boria e di ignoranza, di cognizione e di limiti stessi della medialità artistica, dobbiamo raggiungere le fonti e renderle contraddittoriamente palesi.
Che la funzione mediale sia elemento costitutivo della produzione artistica fu sostenuto tra gli altri dall’estetica borghese (Shaftesbury) e Alexander Gerard in Inghilterra, da Lessing in Germania e, in Italia, da Francesco Algarotti. Ma come si può intendere esattamente questa formula? È qualcosa che allude alla libertà dell’arte professata dai writers o dai muralisti per adibire solo una parvenza di verità dell’arte dettata dai suoi limiti formali, consentendole di indulgere alla propria pratica esecutiva, o esprimere l’idea che il solo modo per applicare la medialità artistica pubblica, site specific, è quello di istituire inganni che seducono e trasmettono il messaggio delle (o dalle) nostre periferie metropolitane? Per questi ed altri motivi il rapporto verità-inganno nell’arte del Murales appare assai controverso! Finchè esisterà una “luccicante” convenzione – che continuerà ad ideologizzare le forme per “banalmente esporsi e “finirla lì”, nonostante il ruolo dell’autocritico-automobile – essa è perfettamente uguale agli ideologi della verwaltete welt, ossia a quei ricercatissimi e snob-lestofanti che applicano un falso racconto, creano, usano e sfruttano la menzogna storica della creatività manierista, senza però rendersene assolutamente conto.
Nel periodo in cui l’arte “extramedia” sembra essersi arrestata ad una stanca e poco convincente “snervatura del dialogo”, germoglia una vera e propria foresta curatoriale dalla quale il trash non riesce a districarsi! Il problema non è la scomparsa o l’esistenza universale dell’arte e del suo sistema, come ribadisce qualche opportunismo trash, il problema è che non facciamo nulla per criticare radicalmente il sistema politico dell’arte e i suoi apologeti, lasciando spazio solo all’ideologia dell’arte del mondo amministrato, quello che si presenta inverosimile e che ha bisogno di incomprensioni, di difficoltà irrisolte e di saperi sbiaditi. Ai critici d’arte ideologici piacciono le cose facili, semplici, basse e dirette, fino a giustificarle con la spiegazione più contraddittoria del «volgar eloquio» inconsapevole. Ai giovani giornalisti d’arte, che raccolgono le banalità dell’autocritico-automobile, piace il catastrofismo fracassone: affrontare la cedevolezza dello spettacolo malinconico, attraversare l’insalata post-moderna mal condita, le polpette avvelenate radical-chic, far incontrare l’incomprensibile con l’enigmatico e in quel momento pensare a Enrico Crispolti che in un libro oscuro come l’Erotismo dell’Arte Astratta (e altre schede per una iconologia dell’arte astratta) si accingeva ad andare contro l’idealismo richiamandosi ad una “empiricità iconica dell’informale” (in sostanza una iconicità non corrisposta dalle opere; Celebes, Trapani, 1976). Insomma, ai cinici archivisti del ‘900 piaceva e piace fare tante cose con la critica, che le menti più ideologiche adorano e traducono in established (si veda inoltre presso Quodlibet la pubblicazione di alcuni pezzi dell’Archivio Crispolti con testi dedicati a: Anni Settanta / The Seventies, Aspetti dell’arte contemporanea in Italia / Aspects of Contemporary Art in Italy, Macerata/Roma, 2021). I nuovi trend cronistici non vogliono, dunque, apparire mai come affettazione di un gusto confusionario. Se un giovane divulgatore dice che gli piace guardare con emozione l’opera più diretta ed icastica della storia contemporanea, perché aspira a diventarne apologo, la confusione che questo pensiero pompa, le urla campionate di contesti sociologici disumani che provoca, i giri tanto banali da cadere nel campo gravitazionale del pianeta intermediale che riecheggiano, sono scuderie di contraddizione che “fanno” e agiscono da sole, per un turbamento autoreferenziale, potremmo dire quasi autoerotico!
Sistema dell’arte è espressione impropria, così come può esserla “l’arte contemporanea”. Si tratta di locuzioni generiche, di possibili traduzioni di visioni, quindi etichette transitive che hanno bisogno di confrontarsi con una forma. Il sistema dell’arte così come l’anti-sistema non sono, in realtà, né una teoria né una scienza, bensì l’insieme di cognizioni che già possediamo e non in merito al processo del dialogo a cui si riferisce Lotman. Arte e sistema dell’arte sono, dunque, due dimensioni diverse e, tuttavia, assolutamente complementari, di pari dignità, l’una ancella dell’altra, unite e incarnate nell’ideologia della società dove viviamo e affrontiamo l’impresa del dar voce alle verità fondamentali del dialogo: verità, estetica, allegoria, logica, linguistica. Il rapporto tra arte e sistema o anti-sistema attiene alla verità politica e fattuale e può essere effettivamente resa soltanto se colta dal lettore: tale è il fine ultimo della comprensione e della medialità, autentica arma contro i poteri infiniti dell’Inganno, la mistificazione, l’ignoranza e la reticenza, contro la difesa ideologica del semplicismo coatto, almeno dal tempo del trash determinato.
Per comprendere meglio la portata di questo problema, è utile riflettere, solo per un breve istante, sulla relazione tra l’azione del ‘comunicare’ e l’azione dell’‘informare’. Comunicare (dal latino cum-munus) significa possedere modi di fare, attività, beni simbolici assieme ad altre persone, in un dibattito circolare di dono reciproco, attraverso un vincolo sentimentale, che parte dai corpi e dalla prossimità fisica. Tenere al corrente, far sapere significa invece dare profilo, inviare secondo certe direttive; l’informazione, al contrario del frastuono, è ciò che riduce l’incertezza tra decisioni pensabili. La medialità, proprio perché coinvolge il fisico nella sua interezza, sede di emozioni, di idee, di sensazioni, di sentimenti, ha una prosperità semantica, che l’informazione non possiede, e richiede complessi sistemi per intenderne i contenuti. Basti pensare a come, nelle diverse istruzioni, le pose (la fotogenia per il cinema) assumano una particolare abilità a seconda delle intelaiature culturali all’interno delle quali si sviluppano. Se in Occidente per dire ‘sì’ tiriamo la testa in basso e in alto, in alcuni centri abitati asiatici gli individui spingono la testa a sinistra e a destra (come facciamo noi per dire ‘no’), facendo nascere, in chi non conosce le pratiche espressive locali, un certo caos e spesso dei malintesi nocivi.
Nel corso dell’evoluzione antropologica, il soggetto pensante ha sviluppato enormemente la dimensione mediale, tramite attività molteplici che si intrecciano con quel sistema delle emozioni che rendono la persona così diversa dalla macchina. La medialità è, quindi, un evento tanto più mobile, «arterato», composito, indefinibile, rispetto all’informazione, quanto algoritmico, macchinico e articolato dalla costruzione espressiva. Essa appartiene alla profondità analogica dell’agire e aderisce alla sfera dei contenuti: possiamo dire che la medialità può contenere l’informazione, ma non sempre, anzi sempre più raramente, l’informazione è in grado di trasportare una corposità espressiva.Tutto ciò ha un forte impatto nell’attuale scenario, dominato da un’evoluzione tecnologica che sta premiando il ‘Dato Confuso’, l’opacità aberrante, lo spettacolo stolto, la disinformazione e il semplicismo, a sfavore della medialità come evento complesso che caratterizza la profondità umana e il mondo delle visioni. Il lavoro del giornalismo semplificatorio si focalizza in particolare sulla divulgazione raggirata, che sembra personificare la vittoria della verità semplice: non il ‘semplice’ di Gianni Celati, ma un unicum alla ricerca di “credulandia”, che si sviluppa grazie a una svolta del degrado antropologico, a cui si accompagna la supremazia dei dispositivi digitali (come elementi ordinatori della società dell’informazione), divenuti strumenti per la pubblicità e il dominio finanziario e ai quali anche l’espressione si va assoggettando. Le polemiche banali su chi sarebbe l’autore oggi, ci mettono in guardia rispetto a questo scenario e lo fanno interrogando con la stessa banalità di eventi che parrebbero non avere niente in comune. In ognuno di questi c’è un aspetto che si ricollega alla strategia di fondo della scrittura tracotante: la boria del giornalismo tuttofare rintraccia i fili sottili sottesi a un impianto concettuale, che a volte privilegia il mondo della pura menzogna (insistenza dell’originalità, forza, pulsione, cultura), a volte quello dei dati del “caso montato” (i valori concreti del mercato, gli indicatori economici, la certificazione, la quantità). Il condizionamento varia a seconda del periodo storico in cui gli avvenimenti accadono e anche in virtù delle aree geografiche (Occidente-Oriente), che diventano sede di modelli estetici che affondano le proprie radici nei diversi intrecci economici e ideologici che hanno contraddistinto il sud e il nord, l’est e l’ovest del mondo. Di fronte all’inganno divulgazionista, che lo scrittore da best seller rintraccia nello scenario dei media nuovi o tradizionali, si staglia un invito depresso a rivedere le «domande del lavoro artistico»: un appello all’arte come “riequilibrio alla reale edulcorazione del mondo rappresentato in modo fallace”; un invito all’arte concettuale, quel che rimane delle avanguardie, di compiere quasi un prodigio, “di recuperare l’armonia forte del mimo attraverso la costruzione di emozioni raffinate e forti come risposta alla porcheria computazionale che le nuove provocazioni cognitive, le nuove necessità di classe ci propongono nel mondo; una richiesta all’arte di esprimere quella “pianificazione estetica nel rappresentare il dramma comunitario o individualistico che superi lo squallore della loro stessa recita”.
L’arte dunque viene invocata come una possibile via d’uscita «dall’ideologia dell’incomprensione» e in modo puramente strumentale, l’arte che incarna la particolarità del mondo dei modelli, che si fa medialità, testimonianza di un agire e di un pensare che non si impigliano nelle reti delle logiche del mercato, l’arte che nasce dalla ricerca di una verità che l’esuberanza dell’informazione tende a nascondere, l’arte che, da sempre, è ricerca, testimonianza, viene costretta ad essere sciorinata come appianamento dell’ideologema liberale. La risposta a questi quesiti si legge tra le righe del nostro stesso discorso, laddove si mette in evidenza l’uso distorto dei media, l’uso improprio dei dati e delle informazioni ai quali siamo continuamente soggetti e, al contempo, si festeggia la potenza delle idee che l’arte e la ricerca hanno saputo pronunciare nel corso della storia. Oggi, siamo di fronte a un uso scorretto del semplicismo e questo non potrà che deteriorare quella tensione al progetto, che da sempre spinge lo sperimentatore verso la ricerca di una comprensione articolata.
Il presupposto che sta alla base di tutto il teorema dell’inquinamento mediatico è questo: vi sono creatori che confondono le carte e vi sono i loro emulatori dagli esiti più o meno polizieschi. La trascrizione del bugiardo è una terza fase, molto replicante e immateriale, che sta tra i due contrari: il semplice e il complesso. Il creatore del semplice (il falsario dell’ingenuo) è un imbroglione più attivista del mago della complessità, ma anch’egli è un lestofante, benché succeduto alla sua stessa missione. È mosso sola dalla tecnica dell’involontario e non ha spirito di apparizione. La sua attività è tesa soltanto a recitare l’irrecitabile, a cercare di ripetere il successo dello snob, del diverso già affermato. Non desidera districarsi nell’orgoglio dell’autenticità, ma nel savoir faire dell’imbonitore.
L’attore semplicistico è totalmente diverso dal contraffattore. Egli non vuole complessizzare anonimamente un prodotto di successo: vuole fare di più, vuole venire alla luce, diventare celebre, sostituirsi all’orizzonte pedagogico, imporre il suo sistema educativo, la sua versione del prodotto divulgato, sperando di annientare qualsiasi significato sensibile. E quanto un semplificazionista sia identificabile, lo dimostra il fatto che non si sceglie un prodotto, ma il vezzo di un’opera, la cognizione di una profondità. Ma quando in uno degli stupendi scaffali delle Fondazioni per l’Arte Contemporanea si acquista un vasetto di crema pittorica come metafora della trascendenza, dell’Europa in Fiamme, quando ancora una volta – grazie a mentori di Tosatti – si mettono insieme John Dewey ed Herbert Marcuse, il massimalismo ha di nuovo colpito la rivelazione: Now/here, proprio così, la veduta della mostra dell’artista-presidente, Pirelli Hangar-Bicocca (Milano, 2023) avviene come imperativo ideologico del potere che si fa strada. Facile, a questo punto, capire che se il cordoglio del sistema è un’imposizione strategica, non lo è esteticamente; Gian Maria Tosatti e la pittura “post-informe” è gratificato due volte: per lo spessore economico della sua merce e perché ritiene di aver acquistato qualcosa che, a grandi linee, assomiglia alla Parodia della Menzogna. Insomma, sono tutti contenti: il mentore letterario, che sogna di soppiantare le grandi spettacolarità di Anselm Kiefer; l’acquirente massimalista, che è certo di stare nel campo delle giuste stringhe di inquinamento; l’attore dell’incerto, cioè quel visitatore sparuto, che ha dovuto compiere un interessante “esame relazionale”, tra prodotti scaduti e inutili provocazioni da favola. L’attore leviatano, intanto, ha svuotato la spiegazione di qualsiasi semplicità, ricavandone alla fine anche due stupende giustificazioni avventizie.