L’accessorio che ferisce

Allorché si parla di crisi dell’arte si parla in realtà della crisi dei corpi e, indirettamente, la crisi dei corpi tatuati è uno dei fenomeni più grevi e arrischiati del mondo moderno. Oggi è indubbiamente più importante curare il bios ammalato che immaginare l’arte del futuro. Allora la creazione di tatuaggi è una disubbidienza alla differenza del soggetto parlato, un’agitazione al rapporto con gli altri per la ricerca del turbamento, della ferita; ribellione che costa apologia, come è noto, più che la solitudine, rischio di non essere compresi, di rimanere con il dubbio e l’angoscia di una castrazione, di una impotenza, di un’insania. La sfida del tatuatore diviene sfida al pensiero verbale del tatuato e al linguaggio accessibile: se si legge il confronto tra il pensiero verbale e il caos interiore, che scopre le cose bizzarre mediante definizioni di corpi e fantasie perverse irrealizzabili, si concretizza che si corre il rischio di non scoprire nulla, ma di inventarsi dalla Grazia del Corpo Glorioso l’immagine del raccapriccio, ponendo nella realtà del proprio corpo cose che non ci sono mai state! Il simbolo del tatuaggio, stilizzazione fatale di una integra realtà perduta, è oggetto della ricerca (così in Crimes of the future di David Cronenberg) ed è, insieme, impulso alla prassi critica generale: dovere di un approfondimento futuro e intemerato è ancora e sempre sollecitare le ragioni primordiali dei nuovi testimoni esemplari del pompierismo inesausto, fino ai recenti ed ambigui orizzonti trans.umanistici.

N.B.: A Milano, per confermare la febbre diffusa da tatuaggio, arriva la nuova edizione di Tatuami, con 180 artisti da tutto il mondo. Tra loro Silvia Brigatti, che racconta gli inizi “e le prove sulle cotenne di maiale”. Ci sarà Gabriele Anakin, famoso su Youtube con la serie Talk-Ink, dove intervista personaggi da Guè Pequeno a Tananai, mentre li tempesta con l’ago. Ci sarà Valentino Russo, specializzato in tatuaggi realistici che incide sulla pelle le stelle della Serie A, arriveranno artisti dal Sud America e dal Giappone. E tra gli oltre 180 ospiti dell’edizione 11 di Tatuami (Hotel Crowne Plaza Linate, via Adenauer 3, San Donato, sabato dalle 11 alle 22 e domenica dalle 11 alle 20, 15 euro).

1. La pratica del tatuaggio si è incentrata, tradizionalmente, sulla dialettica tra “semi.simbolico” e superfluo: l’ornamento risponde ad un determinato scopo e fa tutt’uno con il consumo del corpo; oppure ha un valore semplicemente pigmentale e, di conseguenza, costituisce un elemento aggiuntivo, estrinseco, decorativo, banale, taumaturgico (tatuaturgico), provocatorio, limitatamente all’alienazione ideologica «necessaria all’artificio», come direbbe J. Rykwert (in Necessità dell’artificio, Mondadori, Milano, 1995). Ma qual è il significato aggressivo, totalizzante, alienante, persecutorio dell’accessorio e fino a che punto ciò che si aggiunge al nostro corpo può essere realmente considerato ammissione all’accessorio? Ingresso al segno artificiale o divenire, nel momento in cui si in-corpora alla forma dei corpi? Inamovibile e imprescindibile: ferita ferale della vita e del soggetto, della sua stessa essenza, entità che emerge dalla sua immagine riscontrata o ricostruita? Il tatuaggio ha una funzione psicologica che corrisponde alla messa in opera di un insieme di dispositivi anatomici e fisiologici e che si prolunga in graffi, punture, tracce, ferite per costituirsi in sistema: in un complesso esercizio d’insieme, caratteristico, tra tutte le specie di fisiografia apologetica, della sola specie corporale. Il tatuaggio è il sistema di espressione corporale di questa o quella comunità.

L’esercizio del tatuaggio produce a lungo andare una specie di deposito sedimentario dell’essere (“dasein che diviene design”), che acquista valore estetico e s’impone al corpo individuale sotto forma di identikit e di vestiario, o immagine di riconoscimento. Il tatuaggio indica «il confessionale» come appare nell’espressione corporale. Non più funzione psicologica, né realtà sociale, ma affermazione della body painting morale e metafisica. Il tatuaggio e il suo torturatore sono degli operatori astratti; condizioni della possibilità della body graphic che li incarna, assumendoli per farli passare alla nuova carne e al nuovo stato fisiologico. Col tatuaggio esistono solo segni enigmatici, cioè capaci di una simbolicità silenziosa, che incute timore e che si situano al di qua e al di là dell’orizzonte della ferita. Vi è, dunque, una gerarchia di gradi di significato del semplice simbolo fisiografico, che si stilizza in vestiario per l’impostazione di un senso sociale, sino all’enunciazione umana effettiva e carica di ritornelli particolari, messagerie di valori. Il tatuaggio ha un suo potere, un suo peso, una sua materialità. Qualsiasi cosa io faccia o dica o avverta o pensi o sogni è iscritta in un ordine segnico, che preesiste al mio fare, al mio dire, al mio avvertire, al mio pensare, e si da nel silenzio del tatuatore che ha agito su di me. Non solo l’oggetto del dire, del fare, del sentire è determinato, individuato, costruito segnicamente secondo sistemi dati di significazione, ma lo è anche la protoferita, il suo stesso essere marchio, messa a fuoco, traccia silenziosa che disturba il dialogo. Non solo mi dico «Io» accettando l’ordine grammaticale della prima persona, ma anche perché mi dico tatuato, mi dico corpo dell’oggetto inciso – parlando, agendo, immaginando – essere soggetto del tatuaggio; in questa tale fisiografia, in questo tale travestimento, in questa tale nuova relazione tra l’ago e la sfera pubblica, riesco a contenere qualsiasi orgien mysterien theater, qualsiasi rituale S/foggiante.

2. Come si capirà dal titolo, ho lavorato e sto attualmente lavorando sulla memoria della perdita e sui fenomeni ad essa strettamente correlati: la ferita volontaria, il corpo tatuato, la formazione psicologica e cutanea della fiction, l’esibizione della maschera, la catastrofe segnica della propria essenza, che quando subentra l’ago del tatuatore si può dire anche assenza, sparizione del corpo.

Io credo, anzi sono convinto, che ogni lavoro nasca innanzitutto da qualche problema personale (il che non esclude motivazioni parallele, naturalmente), e sia fortemente condizionato dal dolore delle micro-violenze, dal meravigliarsi cioè di fronte al verificarsi o al ripetersi di un certo ritornello di ferite. Senza questa constatazione forte, senza questa verifica sul corpo dei propri affetti, sulla e nella violenza delle proprie affezioni, è mia convinzione che non vi possano essere “buone lettere”! Questo almeno all’inizio. Poi – come succede con il tempo dilazionato, sperimentato da Paul Celan e Ingeborg Bachmann – la sofferenza si fa liquida, si diluisce e si va di conserva! 

Bene, io prima di tutto intendo partecipare le mie micro-sofferenze: patimenti su un fenomeno apparentemente così familiare come la memoria semiologica del dolore, prima forma di confronto naturale con la violenza silenziosa del tatuaggio. Naturalmente, lo stupirsi di fronte all’ambiguità della violenza subliminale è luogo comune, specie nei suoi rapporti con l’identità subliminale. C’è una bella frase scritta da un amico parigino che secondo me – rende molto bene lo strano rapporto tra la “memoria dell’autentico” da una parte e la sua identità riprodotta dall’altra. Una filosofia con cui, in un certo senso, cerca di dare corpo a questa “diluizione o aggressione d’identità”, ricostruendola attraverso il ricordo, e, con molto stupore, scopre quando ciò sia difficile soprattutto se il confronto è con la filiazione tatuata (la tatuotofagia): “Ricordo – Angelo scrive – che, da bambino, amavo dondolarmi sull’altalena a corpo nudo, e ricordo la sensazione dell’aria che mi sferzava il corpo libero, la cute giovane e originaria. Io ricordo chi sconfisse Napoleone a Waterloo, e ricordo che sette per nove fa sessantatre. Non ho mai dimenticato come si maneggia una racchetta da tennis (Roger Federer as Religious Experience, 2006); e ricordo – anzi, lo sento nella debolezza delle gambe e nel senso di nausea nel mio stomaco – il terrore che provai quando il mio capitano mi scelse, durante il servizio militare, come volontario nella mia prima perlustrazione di tatuaggi e tatuatori. Io ricordo la festa quando ho inciso il primo disco – la musica, gli amici, il cibo, il vino; ma (ahimè) non riesco a ricordare la faccia tatuata del mio più caro amico che è morto un anno fa. Vi sono – Angelo conclude – ogni sorta di memorie, ed esse mi pervadono e mi turbano ogni volta che emergono tatuaggi e ferite, tracce di violenza e di auto-sedizione gratuita”.

Questo gioco mnemonico con cui accediamo alla nostra identità, ma anche all’identità dei nostri affetti (di cui peraltro possediamo fortissima e certissima intuizione) è spesso, come in questo caso, assai deludente e sediziosa. Apparentemente crediamo sia sufficiente riportare a galla quanto pensiamo essenziale per comporre il mosaico della nostra identità familiare originaria, ma quando c’è di mezzo un tatuaggio c’è qualcosa che non riconosciamo. Poi, quando questo paesaggio naturale è oggettivato dall’esperienza di corpi tatuati – i corpi dei propri affetti, proprio lì sotto i nostri occhi – ci rendiamo conto, sempre con infinito stupore, che non di mosaico si tratta, bensì di turbamenti, di micro-violenze silenziose. Un materiale cutaneo indubbiamente sconvolto (e di questo ne abbiamo assoluta certezza), ma molto lontano dal poterci dare sollievo, un’arte innaturale che si è imposta sulla condizione della nostra memoria biologica, sull’espansione del nostro essere volontario. Non c’è simmetria tra la realtà profondamente sentita della nostra conservazione segnica e il fatto che siamo assolutamente sicuri di poter oggettivare, a nostro piacimento, la nostra originarietà naturale e la realtà concreta della costruzione filiata, la simmetria affettiva della prole. Il termine “simmetria” ha nel linguaggio comune il significato di giusto mezzo, con misura (in greco), e perciò anche di rapporto armonioso, giusto rapporto tra le parti; in questo senso è adoperato nella creazione artistica fin dall’antichità ed è legato al senso del bello. Un’esposizione molto ampia e approfondita della simmetria nell’arte, nella natura e nella matematica, con bei disegni e suggestive figure, si trova in un interessante libro del matematico tedesco Hermann Weil (“Symmetry”. Princeton University Press, 1952.). Nel libro è svolta in modo esauriente la teoria del doppio simmetrico e l’applicazione alla classificazione dei cristalli, ma la lettura di questa parte sottende anche gli affetti, richiede molta profondità per la comprensione dell’argomento, ma anche molta empatia per avvicinarsi a quelle forme che tendono a non essere tatuate (violentate dall’a.simmetrico), che hanno bisogno di mantenere la loro semplice lucentezza. La simmetria, nella scienza, nell’arte e nella natura, non si limita alla riflessione speculare, è prova definitiva della non supplementarietà del libero corpo. In senso lato, si parla di liberi corpi anche nel caso della traslazione e della rotazione. Il confronto simmetrico si ha quando una figura è spostata parallelamente a se stessa (in linea di principio indefinitamente), come in certi corpi e superfici organiche, anche se nel confronto rimane intraducibile, fedele alla propria originarietà. Non sembri del tutto strano e casuale il nostro accostamento tra le idee di Hermann Weil e la conservazione del corpo. Inoltre bisogna aggiungere che Weil, nella sua introduzione alla simmetria, percepisce la «poetica dei liberi corpi» come finale sincretismo di saturata liberazione dello spazio. Il volto simmetrico si genera da sé, come l’ombra che si espande dalla propria coscienza, ed è la stessa ombra che corre orfana nell’ultimo lembo del proprio corpo libero (pensiamo pure alle parole di Erwin Panofsky dedicate ad Albrecht Dürer; 1943/67). Il reticolo simmetrico della propria natura, tra dimensione antropologica e linee della natura, si fa oggettuale per una rinuncia alla contaminazione, per indolenza assoluta all’asimmetrico aggiunto. Questa situazione organica e, insieme, squisitamente poetica di Weil è stata intuita dalla filosofia umanistica. Una coincidenza con l’alchimia del proprio «essere liberi», del verbo alle origini di se stessi, è un meccanismo di difesa. La particolare bellezza dell’incisione, nel caso di Albrecht Dürer, consiste nel paesaggio, un panorama-studio che l’artista riportò probabilmente dall’Italia, per potersi servire dello schizzo pieno di forza ancora in rapporto ai corpi. Con tali saggi, l’arte dureriana raggiunge alte vette. Il segno del bulino è lieve e intenso, il tratteggio possiede grande ricchezza formale e tonale ed anche nelle ombre, per l’allineamento parallelo dei tratti, è di una chiarezza cristallina. Le tavole del Dürer hanno una morbida lucentezza di tono, che dà alla superficie una bellezza corporale, organica.

L’organicità intatuabile di Dürer si sostiene ad un motivo etico, alla fede nell’onnipresenza del Divino nella natura; «poiché veramente la natura s’infiltra nell’arte, chi può strapparla la possiede”, così suona una sua frase spesso citata. Egli stesso durante la vita si affaticò a strappare alla natura il suo segreto. Con fervore appassionato e con fedele devozione, egli la cercò e la serie quasi innumerevole delle sue opere testimonia il nostalgico desiderio di sollevare il velo che la natura ha calato sull’esistenza, rimanendo nella materia e nell’immanenza dell’incisione. Dührer non venne mai mai meno a questo proposito. Ma dubbi, incertezze o debolezze influenzarono la sua opera, stando nello spazio dell’incisione e della sua concreta simmetria. La linea seguita a vita fu pur sempre l’unica grande meta, che gli oscillava davanti agli occhi. Fedele compimento dei segni, potenza lavorativa mai vacillante, fermezza nel piccolo incisorio come nel grande pittorico, trasporto indistruttibile del sublime del segno.

Ma sia il processo di accettazione del tatuaggio, sia il processo di rifiuto si evolvono attraverso uno stadio critico caratteristico, uno stadio nel quale «non conosco e al tempo stesso sono consapevole»: concepire o misurare, insomma, implica passare, irreversibilmente, da un prima a un dopo, cogliendo l’attimo fuggente della difficoltà tatuatoria. Questo stadio critico, in cui la simmetria si infrange, è essenzialmente ambivalente (mi riferisco alla psicologia). E la rottura della simmetria e l’ambiguità, spesso, assurgono al ruolo di valori culturali elusivi e dolorosi.

La memoria dell’originario subisce uno scollamento simmetrico, il corpo vissuto di uno dei nostri affetti ci ha fatto un brutto scherzo, ha messo in discussione quanto avremmo voluto facesse carnalmente parte della nostra preservazione di identità e di ontologia: tenersi liberi dal tatuarsi, tenersi fuori dall’accettare il surplus delle pratiche di ferita sul “corpo dell’altro da noi” … E allora, per analogia e per estensione di pathos familiare, ci domandiamo quanti di questi corpi originari – per un gioco di incomprensioni e di turbamenti che ci sfugge – ieri fummo costretti a cancellare e domani cancelleremo ancora, dimenticare per ricordare a memoria, direbbe il poeta. Quanto di quella pelle, di quella cute, di quella epidermide, di quel candore, di quella libertà condivisa del corpo e della mente che non vorremmo mai seppellire, sono di fatto doppiamente sepolte, perché consegnate più o meno volontariamente all’assimilazione di una cute scorticata, ferita, aggredita. D’altronde noi sappiamo anche che l’oblio indotto non è in alcun modo amnesia ferita, semplice dileggio infranto. L’oblio, qui, è un meccanismo di difesa, è il rifiuto dell’imposizione artificiale, il ritorno del blocco del passato sull’anima libera del puro affetto. Si perché cos’è un corpo libero, un corpo naturale se non un puro e semplice affetto? Ci saranno anche persone che, avendo avuto un corpo tatuato, vogliono spiegare la vita a chi un corpo tatuato non ce l’ha. Ma la maggior parte degli “intatuabili” cerca sommessamente una sola cosa: solidarietà e autovalorizzazione.

Il tatuaggio inscrive l’individuo all’interno di una rete di relazioni che coinvolge non solo i suoi simili, ma anche il suo stesso ambiente naturale. Non si tratta del racconto costruito da Greenaway dove facendo riferimento al genere letterario che si pensa inventato proprio da Sei, lo Zuihitsu (tradotto in italiano con seguire il pennello; ovvero brevi narrazioni, fotografie di momenti intimi che tralasciano la vita al di fuori del narratore a favore di quella interiore) è il tinteggio che dà forma all’opera (e così in The pillow book è l’occhio del regista a delineare il film). In quel caso, le inquadrature fisse lasciano scorrere la vita di Nagiko (Vivian Wu), protagonista del racconto, che attraverso la scrittura cerca il compimento della sua anima tormentata dalla figura del padre, nel tatuaggio, con la tecnica detta tebori, i giapponesi usano sottili aghi metallici e pigmenti di molti colori per intervenire in maniera invasiva sul corpo. Il tatuaggio è eseguito tramite una macchinetta elettrica cui sono fissati degli aghi in numero vario secondo l’effetto desiderato. Qualunque sia la tecnica e la pratica rituale del tatuaggio, il dolore è comunque assicurato. Il gesto del tatuaggio è, infatti, un’impresa crudele, così dolorosa che in molte popolazioni oceaniche, per coprire le grida degli iniziati si batte il tamburo per tutto il tempo dell’operazione. Tutta questa sofferenza fisica, tradotta nel rituale estetico diffuso del contemporaneo, assume una particolare valenza simbolica. Il dolore che provoca la pratica del tatuaggio è il prezzo da pagare per un’iscrizione che, in modo definitivo, diventa una marchiatura permanente, una traccia indelebile, una verità del nostro tatuaggio, l’unica a noi accessibile e l’unica di cui l’Io, come è noto, si è vantato di possedere, cioè il sapere di non sapere. Perché, come ci trascrivono continuamente anche i tatuatori, persino i più nobili sensi del corpo, la vista e la cute, non hanno niente di preciso né di sicuro. Ed è l’inconsapevolezza di quest’unica traccia, la condizione del dialogo con gli altri. È proprio per il dolore provocato che, in molte società tradizionali, le marchiature cutanee accompagnano i riti iniziatici. Marcano il passaggio da un universo sociale a un altro durante il quale i giovani devono dare prova di essere forti nel sopportare la sofferenza per essere ammessi tra gli adulti. La traccia corporea è la sigla del loro coraggio. Che se l’arto, malgrado il suo poter essere ingannato dai sensi del tatuare, è, come la misura di tutte le cose – del loro essere così e del loro non essere così -, non lo è nel suo isolamento di tatuato rispetto agli altri, né tanto meno contando illusoriamente nel raccoglimento della sua tatuotamaturgia, ma nell’esperienza che appartiene irrimediabilmente ad altri. E gli stessi nostri tatuaggi non sono effettivamente nostri: li abbiamo presi da altri e restano sempre semi-altrui, per quanto possano esprimere i nostri segni indelebili e le nostre intenzioni. Si sentono in essi altri tatuaggi, con cui la nostra caparbietà ritualistica dialoga. Il linguaggio del segno grottesco, interdetto dalla cultura ufficiale, una volta che si instaura la separazione fra ideologia ufficiale – funzionale al mantenimento dell’ordine costituito e del potere della classe dominante – e ideologia non ufficiale, è ricco di termini e di espressioni che si riferiscono alle parti del tatuaggio con cui maggiormente si instaurano rapporti di interdipendenza e compromissione con il mondo e gli altri segni tatuati. Il linguaggio del tatuaggio grottesco, che si ritrova presso tutti i rituali e in tutte le forme di assimilazione societarie, si riferisce sempre non a un soggetto stravagante, che si ritrova presso tutte le pianificazioni, ma alla connessione di soggetti con altri soggetti, in un rapporto almeno birituale.

3. La pratica più comune per tatuare è ad ago, un aculeo fintamente morigerato attraverso il quale s’introducedell’inchiosto nella pelle. Ad oggi vi sono due tipi di tracce nel corpo: c’è la traccia che affiora da dentro e c’è invece la traccia che viene applicata al corpo dall’esterno, qualcosa di superficiale, proprio, nel senso che interessa soltanto la superficie, privo di significato, di alcun senso, se non l’espressione di questa voglia di normativa, che mantiene però una differenza fondamentale rispetto al tatuaggio storico: anche allora si trattava di parole, ricorrenti e fissate in un codice, ma esse nella loro combinazione tentavano di rappresentare una storia completa. Se l’iscrizione corporea nelle società tradizionali imprime sulla pelle dell’iniziato una consuetudine condivisa dall’intera società tramite il tatuatore, da noi le marchiature traducono, invece, un’esigenza del tutto individualistica e narcisistica. Per molti soggetti giovani occidentali il tatuaggio è una pratica per affermare ed esibire una differenza, per rivendicare la loro presenza al mondo come individui unici.

Il distacco simbolico dai propri genitori con la presa di possesso del loro corpo, per farne una cosa propria, si tradurrebbe visivamente in qualcosa di inciso in modo intimo e inalienabile sulla loro pelle. In altre parole, a differenza delle società tribali, il tatuaggio moderno sarebbe un modo per tattilizzare l’anima, esasperando la Scultura per ciechi di Brancusi, o il finto seno di gomma, deposto su un velluto nero, da Marcel Duchamp, nella mostra Le surrealisme en 1947, organizzata alla Galerie Maeght di Parigi. Il momento di estetizzazione del sé nell’adolescenza si configura, infatti, come il campo di battaglia di un’identità pompieristica in via di costruzione, durante la quale il corpo diviene un mezzo di espressione simbolica. Nell’indecisione del mondo, il tatuaggio è definitivo, è incisivo e perentorio. È un evento che marca, fissa, stabilizza il senso una volta e per tutte. Sarebbe un segno di identità iscritto sulla pelle in un istante di dubbio che si pone come una nuova certezza, come un nuovo accertamento della distanza tra il sé e il proprio super-Ego. 

Ripercorrere in modo trasversale, a partire dallo sguardo dei liberi corpi, l’intera storia estetica e contro estetica, poiché col farsi tatuaggio vengono toccate molte questioni fondative del panorama fisiografico, vuol dire acquisire strumenti critici per interpretare l’inattualità de La Grazia nel mondo di oggi con le sue forme naturali , le sue aggiunte e i suoi artifici, le sue mode e contro-mode, con i suoi optionals e contro-optionals, frutto di una ricerca antiestetica sempre più agguerrita e sempre più apologetica nei confronti dell’ideologia dominante. La ferita del corpo è la sua infelicità, e la ferita è sempre infelice: o è infelice, o è senza vita. Il percorso del libero corpo non è dunque verso una felicità straordinaria, ma verso l’infelicità comune della contraddizione, non esasperatamente astratta e acutamente disintegrata. Sono gradi e sfumature che toccano la storia del farsi tatuare: qualcosa dell’oggetto passa nel soggetto, e così del male passa nel bene e del falso nel vero, qualcosa di alienato penetra la grafica accogliente del soggetto, attraverso confini meno definiti di quanto vorrebbe la moralità della farsa societaria, simbolo della scissione, banco di prova del dittatoriale amoralismo tatuatore. Ma qualcosa dell’oggetto non passa nel soggetto, in quanto il tatuaggio attraversa gli opposti e li rende senza risolverli. Né realismo né idealismo, comunque: la puntura al soggetto cade nell’autoviolentarsi dello spirito, che già si nutre di un’intima contraddittorietà. Qualcosa resta sempre fuori, cioè provoca  interiorità o esteriorità del tatuaggio stesso e dello stesso corpo, ovvero del fuori, a prescindere dall’idealità o realtà della vita. Il passaggio che mitiga la disintegrazione identitaria è della superficie, è della cute, è del pigmento sulla superficie del corpo che si indirizza verso il profondo, senza che la superficie sia più superficiale, opposta al corpo tatuato che si vede, che rimane, che resta nell’apologia dello sconvolto, del turbamento, della ferita storica, la ferita bodyzzata, quella che indugia a mito. La profondità è della superficie che si ispessisce; ricca di simboli, di segni, di tracce scavate nel solco della carne, piena di se stessa, si fa come quella che non può negare se stessa. L’apparire diviene realtà, l’esperienza non diviene sapere, il vissuto non smette di incedere nella lesione, l’errare alienante non si arresta. La coscienza perde profondità, non segno; perde l’angustia compulsiva ed esclusiva della relazione ribelle, difensiva o reattiva, verso l’«arterità». La superficialità della corporeità è assenza di risonanza, oscillazione prevedibile dei moti psichici; che riceve silenziosità dall’allargarsi dell’orizzonte dell’alienazione. Il percorso rende profonda la trasparenza della ferita in quanto mantiene ciò che è oltrepassato attraverso il corpo: la risonanza del tatuaggio è nell’eco del tatuatore o tatuatrice, nell’accessorio che diviene pagina aperta e incomprensibile, caos tra vero e falso. L’oltrepassato non è giudicato né allontanato, ma topografizzato, messo in conflitto con se stesso. L’incoscienza diviene pienezza dello spirito nell’estendersi e rilassarsi del segno conflittuale e ecchimosico.