Ipse dixit, i residui del fotografico, febbraio 1999

La militanza dell’ingenuo? [part. III]

Leggere l’immagine è come esaminare da troppo vicino la trama di un edificio. Spesso a manrovescio. Per poi staccare. E quindi riaccostare. In un continuo movimento, anche muscolare, di avanti e indietro, o meglio, di indietro in avanti. Movimento durante il quale si ha consapevolezza e si dà vertigine dello spazio e del tempo in cui esso avviene e dei sensi in atto che lo fermano. Questo processo diciamo ottico-visuale, incantatorio com’è proprio della sua caratteristica istantanea, a intervalli mettendo a fuoco e mandando fuori fuoco (offrendoci di volta in volta primi piani della stessa superficie del tessuto del mondo e campi lunghi dell’insieme della concatenazione infinita) ci conduce – contemporaneamente – alla qualità necessaria di trovarsi dentro e fuori dalle icone fluttuanti.

Fra i tanti confronti che sono stati fatti, forse alcuni un po’ pretestuosi o addirittura eccessivi, si potrebbe ancora osare un parallelo fra foto e realtà, ovvero fra verità e finzione, realtà e rappresentazione. Se la saggezza popolare afferma che il denaro non aiuta a conquistare la felicità, ma almeno a neutralizzare la monotonia della vita e a sopportarne le asperità, così l’immagine (quanto l’immagine dell’immagine di arte e di una cosa) – ovvero la legittimazione dell’immagine personale, che oggi passa attraverso uno scatto fotografico, come la denarocrazia iconica – non dona la felicità. Attraverso l’auto-istantanea gli artisti coltivano l’illusione di essere (così come le persone comuni) presenti, riconosciuti, più liberi, più felici, più virtuali; in uno spazio sociale indefinito, che può essere il regno della foto, una dittatura, un impero. Liberi, felici ed uguali nella diversità ritrattistica, nella fattispecie del sistema iconico stabilito da una macchina fotografica, che fa fatica a strutturare un segno.

L’immagine è l’araba fenice che assicura a chi possiede identità e libertà, sicurezza anagrafica e benessere di tutela dei dati della conoscenza di se stessi, la conformazione strumentale della strategia del credulone. Come un novello Faust, il fotografo patteggia con l’anima e promette tutto ciò grazie al riconoscimento, per poi non ottenerne né per sé e né per gli altri. Perché la fotografia nella sua ingenuità fugge a qualunque tentativo di costruirsi in un riconoscimento definitivo, rapportarsi a paradigmi già noti, contrapporsi ad un sistema. Riconoscere l’a-segnicità della fotografia, non significa rinunciare a spiegarla, ma compararla se mai a parametri come la concretezza del sociale, l’inattendibilità dell’invenzione pura, in breve a tutti quei fenomeni che non permeano la vita sociale, ne costituiscono la rappresentazione formale. La logica dell’ingenuo la chiama Angelo Shlomo Tirreno, senza intaccarne l’essenza che forse rimane per sempre un mistero.

Il regno dell’immanenza sociale, la fotografia, che si maschera nel segno di una simulazione trascendente, si spegne nella virtualità della fantasia e dell’utopia senza speranza. È vero, come afferma ancora Angelo Shlomo Tirreno, che la fotografia è una forma machinica generalista, ormai, che risale all’unico sistema di indici universalizzabili, che assorbe pertanto tutti gli altri, ma è vero altresì che non è un sistema solo di indici, di apparenze, di simulacri. L’indice della foto un tempo apparteneva ad un’anima delle cose e delle persone, conferiva loro una indicalità che ne trascendeva la materialità, la sublimava in una sorta di metafisica della realtà, faceva del soggetto umano, delle cose, degli oggetti e del sistema dell’immagine, l’universale e viceversa. La fotografia assume una dimensione salvifica che si concretizza di volta in volta del sacro-sociale, del moderno, della tradizione in crisi, nel mito del benessere e della felicità. Categorie mediali che, come l’edonismo iconico, il culto del corpo esposto, la prevalenza di una traccia di paesaggio, divengono le vere forme di aggregazione societale. Una logica di società che mette in gioco immagini e persone, o meglio le personalità, con maschere diverse. Scrive Angelo Shlomo Tirreno: “la fotografia è anche una di quegli specchi con i quali le persone, illudendosi di abbandonare ciò che è esteriore al dominio della collettività, vogliono salvare il massimo grado di libertà interiore”.

Quindi, il ruolo principale spetta al fruitore, nel porsi delle domande sulla natura dell’immagine e sull’origine dell’informazione. Il fruitore oggi più che mai è divenuto strumento partecipante (partecipazionale secondo l’arte relazionale) nell’indagine storica, artistica, sociale e politica; semmai: è necessario che prenda consapevolezza del suo essere critico e del suo potere di fare critica.

Ipse dixit, trascendenze 1999

Secondo lo scenario predominante, stiamo attualmente subendo una trasformazione rivoluzionaria nella cultura dell’immagine. Si pensa dunque che l’immagine possa accrescere la nostra conoscenza e consapevolezza del mondo; che essa possa aumentare la nostra gamma di esperienze e di ingenuità, piaceri e fantasie; che essa possa creare nuove forme di socialità e collegare nuovi tipi di comunità; che essa possa offrirci sicurezza e protezione dai pericoli del mondo; e, infine, che possa decidere tra ampliamento percettivo e anestesia, fotografia ed economia, estetica e realtà, sguardo fotografico e seconda coscienza, ingrandimento e rimpicciolimento spazio-temporale, clichè e desiderio di realizzazione, derealizzazione di rispecchiamento e chance politica, filosofia della riproduzione e libertà, illusione e simulazione. Ed è proprio questo ultimo punto ad essere fondamentale nella creazione di questo nuovo ordine culturale ed esistenziale, purtroppo in realtà illusorio e utopistico: quello che rende psichicamente irresistibili le tecnologie è la loro capacità di fornire sicurezza e protezione contro il mondo terrificante. Esse ci somministrano i mezzi per distanziarci da ciò che provoca paura nel mondo e in noi stessi. Si individuerebbe, così, una logica della razionalizzazione, rivolta a liberare gli uomini dalla paura e a stabilire la loro sovranità. In questa prospettiva lo sviluppo tecnologico può essere considerato come un progetto di rafforzamento del potere umano, che comprende l’affermazione del dominio e controllo razionale sopra un tecno-spazio ordinato. La paura dell’ignoto è quella che affligge di più le persone ingenue e attraverso la tecnologia questa paura può essere affrontata. 

Il vedere, nonostante la sua ingenuità, ha sempre fornito un mezzo particolarmente importante di difesa contro ciò che è sconosciuto, al di fuori e oltre (la maggior parte delle culture ha attribuito alle immagini poteri speciali e di protezione). La vista mediata tecnologicamente si è sviluppata come la modalità moderna di porre distanza attorno a noi stessi, di ritirarci e isolarci dalla terrorizzante immediatezza del mondo del contatto e della creduloneria. Le nuove tecnologie, dunque, in una prospettiva attualistica, permettono maggiore distacco e sganciamento dal mondo, ma anche maggiore illusione e ingenuità. La vista diventa separata dall’esperienza, se è sempliciotta, rimane bonacciona, e il mondo assume una qualità di derealizzazione. Si assiste, allora, ad un processo di incessante dissociazione dall’esperienza empirica.

Nuova immagine e cultura dell’informazione vengono associate ad una rinnovata fiducia per fornire, pretestuosamente, soluzioni tecnologiche ai problemi della cultura e dell’esistenza umana. Le nuove tecnologie hanno rivitalizzato le aspirazioni utopistiche nei confronti del moderno progetto di razionalizzazione tecnologica. Questo spirito progressista e utopistico, frantumando qualsiasi progetto politico, si articola verso il resoconto comune in cui la cybercultura sembra aprire nuovi orizzonti di espressione e di immaginazione creativa. Qualsiasi cosa appare possibile nella nuova realtà, compresa l’ingenua illusione della realizzazione e del riconoscimento, è poi l’assoluta antitesi del mondo reale: il potenziale che la tecnologia di realtà virtuale ha di liberarci dalle costrizioni del tempo e dello spazio fa appello a un’ispirazione umana di immanenza. Vogliamo sperimentare altre condizioni di vita senza alcuna minaccia reale di pericolo. Vogliamo essere onnipotenti, essere in grado di cambiare aspetto e forma secondo la nostra volontà. La realtà virtuale ci assicura che lo possiamo, che possiamo raggiungere il sole senza fondere le nostre ali. La spinta che deriva da tali tecnologie pervade sempre di più gli ambiti delle nostre esistenze e porta con sé un’evoluzione fisica e mentale, incalzata da continui e incessanti sviluppi di ingenuità. Lo stesso tessuto sociale, impregnato di progresso informatico, ha visto negli ultimi anni una vera e propria trasformazione delle «strategie ingenue». Sono cambiati gli schemi mentali, i linguaggi, le modalità di comunicazione. Stabilità e solidità sono concetti sventrati e messi da parte in favore di un riadattamento continuo dell’occhio spontaneo: velocità e facilità nello smontare e rimontare. Nulla di fisso, ma tutto in movimento. Personalmente credo che l’invenzione del nuovo tecnologico sia stata così incredibilmente incontenibile e veloce, da non dare il tempo di redigere le “vere istruzioni per l’uso”.

Ipse dixit, trascesi 1999

Secondo alcuni l’intera questione è descritta dalla metafora della medialità, ovvero lo status della condizione umana comunicativo-moderna, che attribuisce alle proprietà dello «stato semiotico» la capacità di descrivere il nostro contemporaneo in tutte le sue forme. La teoria esposta dal Medialismo tenta di generare una sorta di equazione universale, che poi il “punto di osservazione complesso” applica all’immagine per riuscire a descrivere il fenomeno sociologico contemporaneo. Questa teoria, infatti, oltre a descrivere le dinamiche generali della modernità, tenta di condurre una ricerca anche in ambiti più specifici.

Spesso con toni drammatici, il Medialismo ci descrive non tanto come, in un momento di grande cambiamento, una società si fortifica, quanto come essa, che affonda le basi sulla costante aspettativa di un “possibile mediamorfismo”, si emancipi dall’ingenuità comunicazionale. Non accettando più una solidità, ovvero la creazione di una cosa concepita per essere durevole ed eterna, l’occhio critico cerca di rivedere tutto in maniera ipermediale, in modo da incalzare la falsità di un solido futuro, puntando quindi verso la possibilità di cambiare e riconnotare qualsiasi cosa. I mediali sono soggetti ad un continuo mutamento di forma. Tramite questa visione, è facilmente possibile individuare nella società tutta una serie di fattori, che hanno mutato la loro composizione proprio per andare incontro alla nuova morfologia del nostro secolo.

L’analisi dei dati e l’utilizzo di algoritmi complessi sono gli strumenti con i quali si tenta, in tutti i modi, di capire e manipolare desideri, comportamenti e libagioni. Oggi i sorvegliati collaborano attivamente con le ingenuità dei sorveglianti: è proprio questa collaborazione, volontaria e calorosa, la grande risorsa sfruttata dai professionisti del controllo. Rischiano di essere vittime di un tale sistema, le forme non omologate di produzione mediale: di linguaggio, di comportamento, d’informazione.

Attraverso la nostra aumentata capacità di ricostruire il mondo coi prodotti della mente, siamo sul punto di riedificare il nostro concetto di realtà e il nostro approccio ad essa: sembra che possa concretizzarsi l’ingenuità del teletrasporto! Il mondo naturale, materico, verrà sempre di più sostituito con quello effimero e virtuale, considerato superiore al primo. L’esistenza umana verrà sempre di più trascinata entro lo spazio della superficie, dell’immagine, e riguarderà una realtà che non si può toccare, ma allo stesso tempo non può toccarci.

Questa spinta all’ordine è espressione del desiderio di sfuggire alle manchevolezze e al disordine della materia fisica. Viene di nuovo messa in evidenza la logica della trascendenza e il potenziale delle nuove tecnologie dell’immagine nella realizzazione di un ordine ideale. Se prima i desideri e i sogni utopici avevano fondamenti religiosi e si perdevano in un orizzonte indefinito, oggi, grazie alle nuove tecnologie, essi si avvicinano agli spazi reali del “qui” ed “ora”. Nella fase successiva del suo sviluppo storico, l’utopia si è trasformata in “fantascienza dello schietto” e poi in “scienza applicata”, dove il sogno è pervenuto alla realtà virtuale del cyberspazio. In questo modo, la “cultura probabile”, “ipotetica (virtuale)” è diventata una realtà. I sogni possono essere trasformati in materialità fotografiche. Coi prodotti della mente siamo ora in grado di rifare il mondo. Con lo sviluppo delle nuove tecnologie siamo pervenuti al momento storico in cui possiamo realizzare le nostre aspirazioni visionarie per migliorare la condizione umana. Il mondo virtuale, distante e intoccabile, è concepito come un mondo alternativo, più conforme ai nostri desideri e sogni, potenzialmente sostituibile alla realtà limitata. In questo mondo virtuale potremmo soddisfare l’antico sogno della trascendenza: il desiderio di essere qualcosa che non siamo. È un luogo senza essere luogo, di possibilità e di immaterialità, un momento fuori dal tempo, la verità di una finzione; in questo luogo gli esseri umani possono essere finalmente liberi dalle oppressioni della materia. La realtà virtuale costituisce il tentativo più ambizioso e assoluto per sostituire un ordine, immaginario o utopistico, al disordine percepito delle effettività presenti, contingenti. Sarebbe, dunque, un’apparente risposta al caos del post-moderno, una fuga dalla realtà o il nuovo proselitismo degli ingenui? La tecnologia, infatti, vive e finge di vivere il tema della condizione post-moderna, l’esperienza della dissoluzione e della frammentazione del soggetto. La condizione continua dell’unità e coerenza dell’io personale viene ritenuta ideologica, ingannevole e nostalgica. Si tratta di una questione di rifiuto o di incapacità a venire a patti con una condizione esistenziale ben precisa, una non volontà di confrontarsi e mediare con le difficoltà e la delusione, una riluttanza a riconoscere e ad accettare i limiti e le costrizioni delle situazioni reali, di quelle situazioni che ci appaiono attraverso un processo fotografico assimilato. La trascendenza simulata può essere considerata in senso assoluto la negazione della stessa realtà umana. Attraverso lo schermo e l’immagine digitale è, dunque, possibile mantenersi distanti dal contesto del mondo reale e dal tipo di immaterialità cercata da Supertramp, protagonista del film di Sean Penn, Into the wild (2007).

Ci si avvia sempre di più all’affermazione di un potere protettivo delle immagini: attraverso lo schermo possiamo vedere il mondo e contemporaneamente essere salvaguardati dall’ impatto e dalle conseguenze di quello che vediamo. Abbiamo imparato a gestire il nostro rapporto con la violenza e con la sofferenza dell’altro, procedendo per giustificazioni ingenue. L’immagine fotografica ci espone alla strazio del mondo mediando giustificazioni apparentemente naturali, ma allo stesso tempo ce ne allontana, forzandoci sempre di più ad essere isolati nella nostra realtà di violenza. Lo schermo espone lo spettatore comune alla dura realtà, ma scherma la durezza di quella realtà, rendendola tonta e invereconda. La realtà virtuale fornisce l’opportunità di tornare indietro, esplorando quello che sarebbe potuto accadere se si fosse riusciti a conservare l’esperienza infantile di potere, di forza e di imposizione. In questo scenario, obbligatoriamente post-moderno, la percezione dell’identità diviene incerta e problematica; vengono sempre di più messi in questione i temi dell’ontologia e della metafisica, come la questione di cosa significa essere umani nel mondo di oggi. 

I tecnoambienti del cyberspazio e della realtà virtuale sono particolarmente ricettivi alla proiezione e interpretazione di fantasie inconsce. Ciò può implicare forme narcisistiche di regressione, racchiudendo la proiezione di istinti e desideri più essenziali e primitivi; i confini tra desiderio ingenuo e realtà sofferente tendono a divenire sempre meno netti. Il narcisismo può essere considerato come la rappresentazione di un arretramento dalla realtà, entro un mondo di fantasia artistica (tutto quello che ci circonda e tutto quello che facciamo o in cui operiamo appartiene ad un nuovo e potenziale sistema artistico e con la pretesa di essere linguaggio), può essere il simbolo della monade estetica primaria e derealizzata, in cui la Madre Arte offre al neonato infante un periodo prolungato di auto-assorbimento e un appagamento illimitato, onnipotente. Il mondo virtuale potrebbe costituire un contenitore protettivo, entro il quale tutti i “desideri creduloni” sono gratificati e gli sgraditi incontri con le frustrazioni del mondo reale sorvolati per “auto-magia”. L’ambiente rifatto può rispondere in alcuni casi a stati mentali psicotici. Queste difese narcisistiche e maniache sono caratteristiche della soggettività post-moderna, rappresentano strategie per vincere il dubbio ontologico sulla propria condizione, in quanto io, bianco o nero, giallo o verde, arretro davanti all’onnipotenza originale dell’infante, che crea il senso con l’allucinazione: regressione come trascendenza. Una regressione da adulti a bambini potrebbe portare le persone a sparire completamente verso il “fine della fine”, aprendo la strada a un rinnovamento del mondo. Si può vedere da ciò, che il fenomeno di espansione dell’infanzia osservabile da entrambi i lati può essere interpretato come un processo apocalittico e fiabesco. A livello corrispondente, la sparizione degli adulti potrebbe venire intesa come l’inizio di un processo di rigenerazione cosmica basato sulla distruzione della storia.

The abandoned bus where Christopher McCandless starved to death in 1992 is seen in this March 21, 2006, photo on the Stampede Road near Healy, Alaska.

Il mondo virtuale crea un ulteriore mondo o mondi: i confini tra mondo interno ed esterno vengono ad essere annullati, creando l’illusione che siano la stessa cosa. Una tale situazione si era verificata all’indomani delle ricerche del MIT sui Limiti dello sviluppo, per il Club di Roma! 

La fotografia digitale è la conseguenza di un’economia della percezione che privilegia l’informazione come merce e ampliamento dell’ingenuità dell’immagine: la velocità e l’immediatezza come espressione. Due delle caratteristiche più importanti dell’immagine post-fotografica sono appunto la sua massificazione e la sua ubiquità. Tutti possono fotografare, perché tutti sono originariamente creduloni: tutto è fotografabile e mostrabile nella sua ingenuità: viviamo in un “bordello senza muri”, come amava dire M. McLuhan. Nella nostra società, l’eccesso di visione ci ha condotto alla cecità credula e di tanto vedere non vediamo più nulla. La disinformazione ci sommerge, in una sovrabbondanza indiscriminata di saccenze e di indigeribili disinformazioni la catastrofe è a portata di touch screen. È l’informazione oggi ad accecare la conoscenza.

Nella cultura capitalistica, post-fordista, si creano mercati più complessi che concedono stili di vita più flessibili e pluralisti. Le nuove generazioni rendono legittime le esperienze del consumo e sono interessate ad esplorare come l’arte si rapporta a questioni di autoespressione, identità e piacere. All’interno del medialismo è stata posta grande enfasi sulla natura simbolica, espressiva e affermativa del consumo. Questo riflette moltissimo il legame tra le culture degli avventori e la libertà umana. La realtà, come il fruitore la sperimenta e la tratteggia, è influenzata dal piacere. Il mondo del consumo e la sua tentazione psicotica hanno creato una maggiore insicurezza. Il discorso, dunque, riguarda sempre più come rimodellare la realtà e le comunità per sostenere questa situazione di sospensione, di insicurezza e di ingenuità visiva. Nell’illusione comune, il cyberspazio può diventare uno dei luoghi pubblici dove la gente può ricostruire gli aspetti comunitari del liberismo ingenuo, dove è possibile riannodare i fili del senso di una comunità sociale futura, che «non viene mai».

Come il cyberspazio, così anche il consumo di utopie visive ingenue dà l’illusione di sicurezza e di difesa; in questo senso anche la religione del consumismo può essere vista come l’elaborazione di una strategia di isolamento e protezione contro i traumi del reale. Il piacere e la sicurezza della macchina fotografica combinati sono un distacco dalla realtà. Nella creazione di questa nuova realtà, la vista possiede un ruolo principale nella creazione del significato della dimensione razionale e immaginaria del cyberspazio. Nel mondo contemporaneo l’immagine stabilisce nuove regole con il reale: le apparenze semplici, ingenue, coatte, hanno sostituito la realtà tangibile. Assistiamo ad una sovrapposizione di simulacri. Susan Sontang, nel suo saggio sulla fotografia del 1978, aveva messo in evidenza, in modo quasi profetico, come le immagini abbiano preso il posto della sostanza delle cose, dell’essenza dei battiti, delle emozioni e come alla realtà si sia sovrapposta una effettività fatta di immagini. La tecnologia si interpone tra la percezione sensibile dell’essere umano e lo shock che potrebbe provocare il contatto con la realtà; si permette così l’accesso ad una forma anestetica (e ana-estesica) che gratifica gli umori del credulone. Tramite lo sviluppo di nuove tecnologie siamo, in verità, sempre più aperti a esperienze di derealizzazione e di delocalizzazione. Dunque, per finire, sarebbe necessario smitizzare la cultura virtuale, senza fare a meno della critica e della conflittualità mediale? Ancora oggi il fotografo guarda solo verso la realtà esteriore, senza rendersi conto di esserne lo specchio. Ancora oggi, il virtualista della foto guarda solo nel modello, voltando le spalle alla concretezza estrinseca. L’atteggiamento conoscitivo di ambedue impedisce loro di percepire che l’immagine ha un rovescio della medaglia, una faccia che è – come un manrovescio – non riflettente, che la pone sullo stesso piano degli elementi reali che essa stessa riverbera.