La militanza dell’ingenuo? [part. II]

La facoltà dell’ingenuo possiede una complessità creativa e gioca un ruolo ambivalente nella formazione del genere fotografico e dell’identità dell’opera. Grazie alla sua capacità pervasiva e distopica, di rendere conto tanto di aspetti negativi, ripetitivi e distruttivi quanto di aspetti creativi e di apertura, ci consegna diversi fenomeni.

Nel rapporto fra fotografia e verità, l’ingenuo coglie la chiave di lettura della storia della percezione, un rapporto che si articola nella progressione di tre diversi atteggiamenti:a) lo sguardo fotografico è affermazione immediata dell’identità di verità e certezza;b)poi è affermazione dell’opposizione di sincerità e notizia sicura; c) è il superamento di questa opposizione, ossia è l’affermazione mediata dell’identità di realtà e persuasione. Per persuasione intendiamo «ciò che è saputo», ciò che appare naturale, la nostra percezione delle cose: in quanto visione. La certezza è una determinazione soggettiva, uno stato del vedere. Per autenticità, invece, intendiamo ciò che è, le cose in sé, in quanto determinazione oggettiva: la realtà è uno stato delle cose.

Teniamo preliminarmente conto anche della notazione che assimila il senso comune al realismo: la fotografia realistica non è altro che la riflessione sulla corrispondenza diretta tra certezza e verità, corrispondenza che l’uomo comune, prescindendo da una visione fotografica, dà per scontata. Il realismo fotografico è, dunque, affermazione dell’identità immediata di verità e certezza, e il senso comune, poiché reputa ovvia e sottintesa tale identità, esprime «un realismo ingenuo». Il realismo – ingenuo o fotografico che sia – presuppone che il mondo in cui viviamo sia esterno alla nostra mente ed esista in sé: noi siamo convinti, allora, che le cose esistono a prescindere dalla percezione e dalla coscienza che ne abbiamo, cioè indipendentemente dal fatto che la percepiamo.

In prevalenza, la visione greca e quella medioevale erano percezioni realistiche, basate sugli stessi presupposti, sulle stesse convinzioni espresse anche oggi dal senso comune, dal modo di pensare ordinario. Sulla base dell’identificazione immediata tra certezza e verità, le percezioni antiche affermavano che il guardare e il vedere (certezza) può conoscere la realtà (verità): la ragione umana può, superata l’opinione ingannevole (doxa), essere illuminata dall’episteme e riconoscere il vero (aletheia). La realtà coincide con il contenuto del nostro percepire, con l’idea che della realtà abbiamo; la certezza si congiunge, quindi, con la verità. Il mondo vero, cioè esistente in sé, è ciò che il clic “scatta e fotografa”, la cosa percepita e pensata dalle persone corrisponde alla «cosa in sé». 

Per il vedere antico certezza e verità coincidono immediatamente e nell’immediato ci lasciano nel dubbio della propria certezza. Per il vedere moderno, invece, certezza e verità sono in opposizione. Cartesio si accorge che non c’è modo di appurare la corrispondenza tra la nostra percezione della realtà e la realtà in sé e il loro rapporto si rivela difficile. In breve, l’opposizione tra convinzione e attendibilità non arriva ad annullare l’identità tra la nostra percezione delle cose (rappresentazione) e le cose in se stesse, ma ne contraddice la subitaneità. Certezza e verità coincidono mediatamente.

Così le percezioni nascono dalla liquidazione, dalla revoca, dall’ignoranza e dall’«incosciente machinico» e si sviluppano e muoiono secondo il progresso di un’invenzione che è contemporaneamente annullamento.

Abbiamo detto che, l’arte dell’image ha in comune con la beatitudine concettuale la svalutazione del mondo reale. Una prova secondaria ma significativa della verità di questa affermazione, va ravvisata nella brevità dei cataloghi d’arte. Questi cataloghi sono il più delle volte riduzionistici, minimalistici, sintetici, economicistici, regolati sull’esigenza del sistema, piuttosto che sul discorso politico dell’artista, così come sono sintetiche le operazioni concettuali dell’immagine o della figura e della controfigura concettuale. Più raramente, hanno un valore «ricercato» che sfugge dall’ekfrasis ma, belli o brutti, hanno tutti in comune il carattere specifico della fuggevolezza. Ossessionato dal proprio argomento e insieme deciso ad isolarlo e a conferirgli un carattere di totalità, il fotografo di nudi e di ammaliamenti concettuali, di solito, esaurisce in poche decine di pagine tutte le possibili combinazioni del rapporto con la bellezza: esasperazioni corporali, performance crudeli, azioni provocate, fissaggio del brutale, catture pubblicitarie e via dicendo, vengono separati dai contesti sociali, psicologici, storici, morali a cui, nella realtà, sono inestricabilmente annodati. Tutto ciò che non è arte della rappresentazione passa sotto silenzio, come se non esistesse. Il rapporto artistico-concettuale, come l’immagine ricampionata, non lascia erba dove passa, fa il deserto intorno a sé e chiama questo deserto realtà.

Questa operazione può essere calcolata e interessata, come nei libri cosiddetti artistici di documentazione concettuale; può, invece, essere spontanea e disinteressata come nei volumi propriamente erotici; ma, in ambedue i casi, rivela il potere emulatorio dell’estetismo e la distruzione alla quale esso sottopone il tessuto culturale. Il fotografo erotico non si occupa che del fotografismo, in quanto appropriarsi dell’arte fotografica vuol dire sopprimere tutto ciò che non è fotografico e visibile. E questo, non tanto perché il fotografismo se ne avvantaggia, quanto perché esso una volta assunto a tema dominante, non sa che farsene della realtà. Avviene così che i personaggi dei libri erotici non hanno professione, né parentele, né rapporti sociali; o meglio tutte queste cose sono ridotte a meri involucri, quasi a sottolineare il processo di svuotamento che è proprio dell’identità fotografata. E mentre è vero che lo specifico fotografico ha bisogno dei valori per profanarli, non è meno vero che questa profanazione cessa di essere tale al momento stesso che avviene, a causa del carattere eccessivo della provocazione dadaista, trasformata in pulsione erotica. Tutto, insomma, nella pratica «artistica provocativa odierna», porta al crimine. Intendo il crimine come uno dei due grandi rifiuti del mondo; l’altro è il rifiuto religioso nella sua accezione estrema, voglio dire nel suo momento ascetico. Artisticismo provocatorio e devozione urtante rifiutano il mondo dei valori annullandoli nell’estasi; ma mentre l’estasi artistica della cocciutaggine dadaista porta all’olocausto di se stessi, quella estetologica al dissolvimento dell’altro. Si torna qui all’idea del delitto artistico che è indivisibile dall’erotismo e che nelle antiche religioni, attraverso il rito e il sacrificio, perdeva il suo carattere di trasgressione, diventando a sua volta performance dominante. L’artista vuol mordere, divorare, assassinare, distruggere la passione dell’epigono, in un impossibile sforzo di comunicazione e di identificazione, fino a quando mirandosi allo specchio vede il simulacro della sua stessa epigonicità.

L’interno del museo a Digne

Nelle passerelle d’arte questo cannibalismo viene ritualizzato, mediato, trasformato in rappresentazione fotografica. Ma ciò che il fotograficismo non ha potuto dire (al momento di dirlo, veniva meno, non ce la faceva), l’infotaitment lo dice: Dio è nulla se non è il superamento del Design in tutti i sensi; nel senso del comune volgare; nel senso dell’orrore e dell’impurità; infine nel senso del nulla … Non possiamo aggiungere impunemente al linguaggio la parola che sorpassa tutte le parole, la parola di Fotografia e Design; nel momento stesso in cui lo facciamo, questa parola si sorpassa essa stessa, distrugge vertiginosamente i propri limiti. Ciò che la Fotografia è, non retrocede davanti a nulla, è dappertutto, persino, dove è impossibile trovarla; essa stessa è una «enormità». Chiunque ne ha il sospetto anche minimo, per provare a guardare l’immagine con sacralità, per provare a spegnere lo scetticismo, tace subito. Oppure, cercando l’uscita, e ben sapendo che, invece, si chiude sempre più, cerca in se stesso ciò che potendolo annientare, la rende simile all’occhio Onnipotente, cioè simile al nulla.

La domanda che lo spettatore dovrebbe porsi, dopo aver compreso di essere in presenza di una messa in scena o di un’ambiguità, è in che modo l’informazione da verosimile possa rivelarsi veritiera. Ciò che Fontcuberta vuole sottolineare nelle sue immagini e nelle sue architettoniche diavolerie è che spesso la credibilità di un’informazione non dipende tanto dall’immagine stessa, ma dall’apparato che la circonda. È la cornice, il contesto e il modo in cui viene presentata l’immagine a caratterizzare la natura dell’informazione: il libro è ben stampato, non ha refusi tipografici; il notiziario è autorevole, il cronista famoso, la fotomodella è ben truccata, le tracce del crimine sono state conservate come si deve per i rilievi della scientifica. Questi elementi, del tutto esterni alla notizia in sé, la sorreggono e la rendono quel che dovrebbe essere, attendibile e oggettiva. Se prendessimo come esempio il Museo, così come ha fatto Giorgio De Finis, potremmo forse dubitare delle sue sale, luoghi per loro natura deputati a raccogliere importanti testimonianze del nostro passato? In una fiera di paese, sulle pagine di una rivista a fumetti o di un giornale goliardico, saremmo forse pronti a sorridere di un’assurdità rivelata (vedi: G. Perretta, Il Panopticon espositivo e il Carcere mediale, pp. 51-59, in in.finite vie di toni, Affinità Elettive, Ancona, 2019), mentre qui è la forza della cornice (le sale spoglie e ovattate, la luce ben posizionata, le vetrine, i testi e le didascalie) e l’autorità storica di questi luoghi a scardinare le nostre convinzioni, e a giocare con le testimonianze inattendibili.

La metodologia che Fontcuberta utilizza nella presentazione dei lavori segue un carattere «scientifico ingenuo», tipico delle pubblicazioni di riviste come Nature o Science. I testi che accompagnano le immagini descrivono con meticolosa attenzione tutte le scoperte presentate. L’autore collabora spesso con personalità specializzate nell’ambito da lui indagato, per dare un fondamento di verità e scientificità alle sue costruzioni. È una riflessione su come spesso anche l’informazione scientifica usi apparati linguistici troppo specialistici e tecnici, che escludono la comprensione della maggior parte dei fruitori, portando quasi a distogliere l’attenzione sul dato e rendendo quasi scontata la sua veridicità. Ed è proprio sul distogliere l’attenzione che l’autore lavora in modo sarcastico e provocatorio. Potremmo quasi supporre che Fontcuberta si è messo dalla parte di Richard Rorty e della sua bizzarra interpretazione di Hegel. Infatti, il contributo di Rorty al dibattito sulla medialità segna la rivincita della dimensione artistica su quella morale, sorretta da Apel o da Habermas. Rorty sostiene che la Fenomenologia dello spirito non è un libro di metafisica, ma l’invenzione di una filosofia ironica, e vede Hegel come il precorritore della filosofia come genere letterario (Contingency, irony and solidarity, Cambridge, 1989). 

Dunque, dipende dal carisma del discorso istituzionale in cui si inserisce la strategia mediale e dalla fiducia che sanno ispirare le fonti di emissione il «darsi del vero di una notizia». È lo spettatore che nella fruizione riconosce questi apparati come veritieri, di conseguenza il dubbio che Fontcuberta vuole provocare è fecondo e stimola riflessioni: “Siamo noi, che con il nostro orizzonte di aspettative, decidiamo come accogliere un segno esterno. E a volte basta variare questo orizzonte, accorciare o allungare le distanze, perché ogni cosa appaia in modo completamente diverso e la falsità ci sembri evidente. Solo l’esperienza che ognuno ha dei segni e dei codici della propria vita colloca e ordina i nuovi stimoli esterni, per darle una forma che possa essere coerente con quanto vissuto e conosciuto. Sistemo ciò che vedo perché sia simile a ciò che conosco. La radice del dubbio è del resto nell’uso stesso della fotografia” (Fontcuberta, Scherzi della natura, Contrasto, Roma, 2001, p. 56). Ma la fotografia è solo un mezzo, uno strumento limitato nelle mani di chi lo usa e terribilmente affogato dal naturalismo coatto. Quindi, affidare a questa tecnica, ai suoi apparati e alla sua strumentazione, la fiducia nello specchio della realtà è solo un’illusione, un’illusione che non è mai riuscita a convincere la derealizzazione del dato documentale enfatizzato da John Berger.

A Fontcuberta, a differenza che a Berger, non interessa la fotografia come procedimento, ma come elemento di un certo confronto culturale dell’immagine con le cose, che si basa sulla nozione dell’impronta, come nella questione del vero-falso. In un mio scritto sull’immagine mediale del 1989, ricordavo che l’immagine si “sposta su un registro semantico che oscilla tra l’idea di forma visibile (in latino imago e forma, figura, corpo, come in tedesco Bild e Gestalt, in inglese picture, figure, pattern, frame, shape) e l’idea di contenuto irreale, fittizio, prodotto di ciò che non è (in greco eidolon, in tedesco Schattenbild, in inglese phantom). In questo caso, l’immagine non è tanto un’emanazione del reale oggettivo, quanto il prodotto di un’attività di eidolopoietike, che è la fictio dei latini, connessa con l’immagine, il phantastikon, che genera dei phantasmata, cose che in rapporto al reale sono soltanto apparenza (vedi: M. Denis, Image et cognition, Puf, Paris, 1989, p. 9). L’immagine, come spazio riproduttivo di forme, come tassello di un rispecchiamento, non esce dunque dal cerchio dell’essere, anche se si mantiene alla periferia, nella zona d’ombra della sua stessa marginalità, là dove l’essere e l’esistere si danno nel registro del molteplice e del riflesso. È possibile di conseguenza, partendo da ogni immagine, risalire la catena d’oro fino alla sorgente intelligibile. Per Benjamin, infatti, l’immagine conserva l’impronta (typos) che consente di ritrovare il distanziamento dell’originale e con lui la con-versione del riproducibile: cosicché ogni forma empirica svolge il ruolo di un’immagine anagogica, che riporta verso l’anteriore e il superiore. L’immagine materiale (natura o tentativo di essere arte), anche se partecipa solo indirettamente all’essere, può legittimamente servire in vista della rappresentazione dell’essere in sé (vedi la methexis di cui parlavo nel 1989, ovvero l’immagine-cerniera). Per questo motivo l’immagine-methexis, a differenza di quello che ne può pensare Berger, realizza delle installazioni mediali senza la presenza della fotografia, ma con la sola allusione simbolica. 

A Digne, il progetto artistico Sirens (del 2000) prevedeva l’introduzione permanente dei fossili di idropitechi all’interno dei circuiti dell’area della Riserva Geologica. Il Centre d’Art Informel et recherche sur la nature incoraggia la creazione ispirata alle scienze naturali. L’Ente è frutto della collaborazione tra il Museo dell’Arte della città e un parco naturale, la Réserve naturelle géologique de Haute-Provence. Il CAIRN invita gli artisti a realizzare interventi effimeri o permanenti nel territorio della riserva, un ambiente che si caratterizza soprattutto per la ricchezza paleontologica e geologica. In questo sito, che è l’unico che possiede fossili completi di mammiferi acquatici, i sirenidi, (chiamati così perché i naviganti di allora li avevano confusi con le sirene della mitologia), gli artisti realizzano oggetti tridimensionali, creati interamente con le tecniche specifiche di riproduzione usate dai musei. Il progetto viene completato da un apparato di pseudo-documentazione sopra questi fossili; tutto un dispositivo narrativo all’interno del quale la fotografia è utilizzata come elemento di autenticazione. Fontcuberta, come un reporter, come un abile ingannatore o come un sereno e ingenuo fruitore, di una pubblicazione di National Geologic, ha presentato un grande reportage fotografico sugli idropitechi, seguendo il modello delle grandi riviste illustrate e dedicate ai viaggi e alla natura. Il reportage comprende anche una sezione storica sulla relativa scoperta di questa nuova specie. Il progetto ha due letture possibili: da un lato l’impianto dei fossili nel parco naturale (che sono poi rimasti permanenti) crea una problematica riguardante l’ambito scientifico, in riferimento alla catalogazione e soprattutto alla conservazione di molti reperti fossili; dall’altro la storia falsata di questi fossili mette in dubbio la memoria, il documento e l’evidenza. 

Nel processo di gestione del significato, è possibile individuare tre fasi: la prima è la manipolazione dell’informazione, per esempio intervenire sui supporti dell’immagine e combinare alcuni frammenti. Questo corrisponderebbe al fotomontaggio: tutto sembra vero, come tutto allo stesso tempo sembra falso. Le fotografie dicono il vero, in quanto ritraggono soggetti fisicamente esistenti, come anche i testi che li descrivono. Resta però il dubbio sull’esistenza effettiva di queste specie. Ma chi potrebbe saperlo con certezza se non chi detiene studi relativi all’ambito a cui si riferiscono? Il lavoro stimola una riflessione, non solo sui modelli del reale e la credibilità dell’immagine fotografica, ma anche sul discorso scientifico e sul modo in cui l’informazione accertata molto spesso viene ciecamente data per certa e, come dichiara Fontcuberta: “l’idea consiste nell’appropriarsi della retorica espositiva tipica degli zoologi e dei musei di scienze naturali, dove la valanga di dati, la densità di dettagli e l’aureola di rigore che li circonda sono in grado di imporre allo spettatore qualunque contenuto. Di fronte alla richiesta di fede cieca che ci impone la cultura tecnico-scientifica, si stabilisce così un braccio di ferro tra l’autorità dell’istituzione, il controllo che detiene l’informazione e la capacità di reazione del pubblico” (Scherzi della natura, p. 88).

Una seconda fase implica la costruzione di informazioni equivoche, creando oggetti che abbiano una loro funzione, ma che sono stati concepiti per essere fotografati. I mostri non sono naturali, ma esistono fisicamente, sono reali così come sono reali le visioni. In queste fiction, la fotografia diventa l’unico mezzo per permettere a questo tipo di realtà di esistere e di essere percepita. Lo spettatore è spinto a mettere in discussione la propria conoscenza empirica e la veridicità che il documento fotografico dovrebbe testimoniare. Si può allora sottolineare come “la fotografia non documenta più”, ma diviene “meta-docu”, ovvero qualcosa che va al di là della documentazione. Usare l’apparecchio fotografico vuol dire, dunque, avviare una riflessione sul modo in cui vengono prodotti e diffusi molti documenti, in cui sono spesso presenti informazioni di carattere scientifico-ingenuo, in una parola votati alla misurazione immaginaria della natura.

La terza fase consiste nel trasmettere l’informazione da un contesto all’altro. È la manipolazione più sottile, perché la meno visibile, ed è molto efficace. Nei suoi progetti Fontcuberta mescola le tre strategie secondo le sue necessità. Nel processo di falsificazione fotografica vengono utilizzati alcuni artifici, come l’avvicinamento e l’allontanamento rispetto al soggetto, che disorientano lo spettatore e rendono l’informazione ambigua. La linea di demarcazione tra l’immensamente grande e l’immensamente piccolo, grazie allo sguardo fotografico, viene a mancare e il fotografo diventa lo scopritore delle analogie che resistono fra macro e microcosmo. Nel caso del progetto di Digne, il ricorso all’artificio della distanza potrebbe essere una distanza storica e geografica che si pone in maniera diversa da come viene trattata da John Berger. 

I progetti di Fontcuberta hanno una natura provocatoria e c’è sempre qualcuno che si irrita, perché l’artista mostra di essere più realista e ironico di qualsiasi dadaista hegeliano iscritto all’ultimo manifesto del parasurrealismo. La domanda sul realismo di Fontcuberta è ossessiva, così come è ossessiva la questione del falso e della distinzione delle categorie ordinarie di bene e male. Detto ciò chi si irrita di fronte alle sue proposte non solo non accetta di essere confrontato con i problemi che l’esperimento espone, ma anche con il loro sentire di credulità minacciato e tradito. Altro punto di domanda che questo lavoro solleva, è quello che riguarda la conservazione dei fossili. Anche se al curatore piacerebbe che i fossili restassero molto tempo nella natura, non è possibile prevedere se essi si conserveranno e in quali condizioni, o se per esempio saranno vittime di atti vandalici. Il destino dell’opera e il modo in cui essa si modificherà (o sarà capace di modificarsi) è lasciato al caso. Un avvenimento storico fortuito che diventerebbe un secondo, un terzo, un quarto, un quinto autore: un autore infinito! Nella lettura di molte immagini sarebbe dunque utile, come dice Fontcuberta, fare “un “reset” del nostro sistema (della nostra memoria, delle nostre conoscenze, dei nostri valori) e assumere parametri diversi, come se arrivassimo da un altro mondo” (idem p. 98).

Tutto ciò che esiste, esiste nella nostra coscienza. Quantomeno, non possiamo sapere con certezza se esista anche “fuori”, perché tutto il nostro mondo è dato dalle proiezioni della nostra coscienza: la realtà degli oggetti percepiti, le emozioni, i pensieri, rientrano tutti nella sfera del percepibile. Tanto vale, allora, di preparare uno zaino leggero, che in queste realtà ci si muove velocemente, usando il potere dell’intenzione. E, naturalmente, l’atto di volontà è anche il solo modo per valicare la soglia del continuum della coscienza e vedere “mondi più grandi”.

La seconda forma sublime, in cui quella sviante concezione del vero produce danni sociali e visuali rilevanti, prende forma nella dimensione mediatica. All’idea che la verità su qualche evento si possa ottenere attraverso una rappresentazione statica, e non con una riflessione, corrisponde una pluralità di format mediatici ben noti. Si va dal ‘dominio dell’immagine’ – dove uno scatto suggestivo o uno spezzone di filmato vengono innalzati a simboli ed evidenze, su cui non ci sarebbe bisogno di spendere tante parole, “perché le immagini parlano da sole” – a micro storie inverosimili. Naturalmente le immagini decontestualizzate e prive di sfondo motivazionale sono in grado di fare un’unica cosa, cioè riconfermare ciascuno nei propri giudizi o pregiudizi. In questo senso, da un lato esse non espongono chi le propone a nessuna possibile confutazione; dall’altro suscitano, con la loro ‘falsa evidenza’, infinite controversie, di cui i media contemporanei si nutrono. Ma nella stessa direzione si muovono altre tendenze, oramai classiche e conclamate, dell’infotainment contemporaneo. Di fatto qui si producono semplicemente nuovi frammenti privi di tessuto connettivo, capaci di suscitare emozioni (e con ciò di ‘fare audience’), ma proprio perciò suscettibili solo di allontanare quanto possibile dalla verità di ciò che si sta descrivendo. Questi traviamenti non sono causati da un’erronea teoria della verità, ma da una cattiva gestione della comunicazione e delle strategie situazionali di espressione. Tuttavia una scorretta teoria dell’attendibilità, una scarsa consuetudine con l’esercizio culturale della ricerca del vero, sono la precondizione perché quello “spamming” possa avere spazio e ottenere seguito.

Sulla strada di Digne
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