Parlare di Etiopia in relazione a Julie Mehretu fa un certo effetto: l’artista di origine africana più quotata al mondo, ha all’attivo un dipinto transato da Sotheby’s per 9,32 milioni di dollari, è nata ad Addis Abeba 53 anni fa, ma ben presto si è trasferita negli Stati Uniti. Il padre era uno stimato professore universitario oppositore dell’ideologia politica dominante a seguito delle violente repressioni messe in atto dal Derg. Ottenuta una cattedra alla Michigan State University lasciò il Paese assieme alla famiglia. I genitori di Julie Mehretu si erano sposati nel 1967, appena erano stati resi giuridicamente possibili i matrimoni misti. L’artista ha quindi passato la sua adolescenza in Michigan, è stata naturalizzata americana, ha studiato alla Rhode Island School of Design per poi completare la formazione in Zimbabwe e in Senegal, trasferirsi per un periodo a Berlino e infine stabilirsi a New York. È figlia di quella che lei stessa definisce “prima generazione del post-coloniale”, le cui promesse di cambiamento sono state disattese trasformando molti stati africani e del Medio Oriente in dittature militari o religiose. Non a caso è nata in Africa, si è spostata in America, poi in Europa e proprio grazie alla sua particolare sensibilità artistica è riuscita a ritrarre il caos di un mondo in costante cambiamento, utilizzando spunti architettonici, politici, sociali e culturali.
Negli Anni Novanta Julie Mehretu ha esordito nella pittura attraverso una visione molto personale della cartografia: piante di città poi manipolate attraverso processi particolari di trasposizione che sono scomparsi nelle opere più recenti. Ha mantenuto, invece, la stratificazione che dona un’incomparabile profondità nella resa finale delle tele. Molti lavori recenti rimandano a eventi contemporanei come la guerra in Siria o i fenomeni migratori e sono eseguiti con una pratica artistica che è sempre rimasta fedele all’astrazione: il suo segno per antonomasia. Nell’ultimo decennio, alquanto prolifico per Mehretu, si sono poi aggiunti i grandi formati.
La sua visione, unita a quelle di altri sette artisti, è rappresentata nella mostra Ensemble, inaugurata a Venezia e visitabile fino al 6 gennaio 2025 nei due piani principali di Palazzo Grassi. Il titolo richiama un collettivo polifonico, di ispirazione musicale più che scolastica nel senso gerarchico del termine. Una cinquantina di dipinti e incisioni, realizzati negli ultimi 25 anni, ripercorrono la carriera di Julie Mehretu non in senso cronologico, ma secondo chiari rimandi visivi alle opere degli amici creativi Nairy Baghramian, Huma Bhabha, Robin Coste Lewis, Tacita Dean, David Hammons, Paul Pfeiffer e Jessica Rankin.
Si tratta della prima grande mostra in un museo europeo dell’artista, già ben rappresentata nella collezione di François Pinault, che dimostra come un creativo non possa bastare a se stesso e, al contrario, abbia bisogno di una stretta relazione con altre idee e sensibilità.
Percorrendo le sale si nota come tutte le personalità presentate si siano formate grazie a un trasferimento che hanno subito o che hanno scelto: dall’Etiopia al Pakistan fino ad arrivare all’Iran. Un’esperienza che Julie Mehretu stessa ha definito come “dislocazione” e che fa tornare alla mente Addis Abeba: una città cosmopolita abitata da ben ottanta nazionalità ed etnie, in cui convivono cristiani, musulmani, ebrei e animisti. Il nome stesso della capitale significa in aramaico “nuovo fiore” e si trova in un territorio che costituisce la culla dell’umanità. Qui venne ritrovata Lucy, il primo ominide giunto fino a noi.
Gran parte della storia della nazione può essere ricostruita proprio grazie all’arte e a oggetti ad essa correlati soprattutto afferenti ad una delle tre fedi abramitiche che hanno tutte radici antiche in Etiopia. Come dimostrato dall’esposizione, conclusasi un mese fa, al The Walters Art Museum di Baltimora e, non a caso, intitolata Ethiopia at the Crossroads. Ripercorrendo ben 1750 anni la mostra, con reperti della stessa collezione museale che è la più grande al di fuori del continente africano, giungeva fino ai giorni nostri, dimostrando la ritrovata vivacità artistica soprattutto della capitale etiope.
Infatti, dopo decenni di sconvolgimenti economico politici e nonostante l’annosa questione del Tigray, il primo ministro Abiy Ahmed, insignito del Premio Nobel per la pace nel 2019, ha intrapreso un programma di riforme di ampia portata, volte soprattutto a rafforzare l’infrastruttura culturale.
A cominciare dalla Ale School of Fine Art and Design, fondata ad Addis Abeba nel 1958, una delle scuole di belle arti più antiche dell’Africa nonché epicentro del cosiddetto movimento artistico modernista etiope. La quasi totalità degli artisti famosi del Paese si sono formati lì o vi hanno insegnato, come Gebre Kristos Desta, Wosene Kosrof, Dawit Abebe, Wendimagegn Belete, Ephrem Solomon e Elias Sime.
Quest’ultimo, creativo multidisciplinare noto per la produzione di sculture in rilievo, nel 2002 ha co-fondato lo Zoma Contemporary Art Center (ZCAC), divenuto poi Zoma Museum: un’istituzione artistica a gestione privata in breve tempo trasformatasi nel principale polo per l’arte contemporanea del Paese.
A detta di molti operatori di settore le principali difficoltà che l’Etiopia incontra nel suo progresso culturale sono dettate dall’assenza di finanziamenti pubblici, con conseguente scarsità di musei e archivi statali, e dalla mancanza di figure professionali quali critici e storici dell’arte. Eppure su questo fronte qualcosa è destinato a cambiare nel medio periodo grazie anche alla prima partecipazione della nazione alla 60esima Esposizione Internazionale d’Arte. A rappresentare il Paese sarà il quarantunenne Tesfaye Urgessa, ex allievo non a caso della Ale School, con un progetto incentrato su politiche razziali, emigrazione e identità curato da Lemn Sissay. Il primo Padiglione dell’Etiopia della storia della Biennale sarà ospitato a Palazzo Bolani e avrà chiari rimandi all’esperienza formativa e di vita che Urgessa ha fatto in Germania. La stessa nazione che è stata estremamente significativa anche per Julie Mehretu e molti degli artisti della mostra Ensemble. Così, ancora una volta, l’arte etiope ci pone di fronte a un universo artistico ricco e stimolante che riflette la complessità e la vitalità di un Paese in continua evoluzione con connessioni a più stati globali che ben si sposano con la riflessione innescata dalla Biennale di Adriano Pedrosa. Il suo titolo è Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere: ancora una volta il concetto di estraneità dipende dalla prospettiva da cui si osserva.