C’è un momento preciso in cui l’immagine smette di essere documento e diventa resistenza ed è lì che si colloca lo sguardo di Pietro Masturzo: nelle pieghe delle cronache ignorate, dentro le ombre lunghe dell’apartheid palestinese. La fotografia, nel suo caso, è una scelta politica, morale e umana: non è di certo comoda o rassicurante. E sono proprio queste urgenze a farsi strada grazie alle immagini presentate alla Fabbrica del Vapore di Milano, dal 7 al 19 maggio 2025, in occasione del festival LIFE – Theatre Arts Media Festival, ideato da ZONA K.
Il nuovo progetto, creato dalla realtà nata a Milano nel 2011, si configura come un festival multidisciplinare che intreccia teatro, arti visive, giornalismo, scienza e attivismo per esplorare, con sguardo lucido e linguaggio poetico, i nodi del nostro tempo. La prima parte di LIFE si sta tenendo in questi giorni alla Fabbrica del Vapore e include la mostra Cronache di un’apartheid in cui Pietro Masturzo, assieme a Samuele Pellecchia sotto la sigla di Prospekt, sottopone ai visitatori un potente racconto visivo su oltre vent’anni di soprusi quotidiani nella Palestina contemporanea.

Masturzo nasce a Napoli nel 1980 e, dopo la laurea in relazioni internazionali, inizia a fotografare concentrandosi su temi politici e sociali in collaborazione con diverse ONG e redazioni. Nel 2010 riceve il World Press Photo of the Year per l’immagine simbolo delle proteste post-elettorali in Iran: un grido nel buio di Teheran, lanciato da un tetto, che diventò istantaneamente icona della libertà negata. Da allora il suo lavoro si è concentrato sulle forme di resistenza quotidiana: ha documentato le condizioni delle donne iraniane, le rivolte egiziane, la dittatura militare in Myanmar, le ferite dimenticate della Palestina. Le sue fotografie sono apparse, tra gli altri, su The New York Times, Time Magazine, Le Monde, Der Spiegel e L’Espresso. Attualmente vive e lavora a Milano ed è rappresentato da Prospekt, agenzia indipendente nata nel 2004 che si occupa di ricerca fotografica in chiave socio-politica.
La mostra nello spazio “Cattedrale” della Fabbrica del Vapore si articola come un racconto essenziale e viscerale. Gaza, Cisgiordania, strade sbarrate, checkpoint, segni materiali e invisibili di una “Nakba permanente”. Le immagini, tutte rigorosamente in bianco e nero, contribuiscono alla comprensione della situazione che ha portato ai tragici fatti del 7 ottobre 2023. Come recita il testo introduttivo dell’esposizione, tratto dal report ufficiale di Francesca Albanese, Relatrice Speciale delle Nazioni Unite: “Il genocidio israeliano sui Palestinesi di Gaza rappresenta l’acuirsi di un processo di natura coloniale di lunga data”.

In occasione dell’apertura al pubblico del percorso di visita ho avuto il piacere di intervistare Pietro Masturzo che spiega così la sua produzione ed il progetto.
ER Come nasce il tuo legame con il Medio Oriente e in particolare con la Palestina? Ho visto che alcune foto sono state scattate dieci anni fa
PM In effetti è un legame abbastanza consolidato. La prima volta che sono andato in Palestina è stato nel 2010. Perché ho scelto proprio quella zona? Volendo parlare di ingiustizie sociali e di diritti umani violati penso che il conflitto israelo-palestinese ne sia l’emblema. È un’ingiustizia talmente palese che, una volta vista, cerchi di fare tutto il possibile per renderla visibile agli occhi del mondo. Viverla e testimoniarla è sempre stato molto complesso: a volte, anche quando il servizio fotografico era qualitativamente ineccepibile, mi hanno negato la possibilità di pubblicarlo. É sempre stata una questione “delicata”
ER Quindi ti definiresti un fotoreporter?
PM Direi di sì. Ho iniziato sicuramente così. Poi, negli anni, un po’ per necessità, un po’ per interesse, ho iniziato a dedicarmi a progetti a lungo termine. In Palestina ho lavorato molto e, a un certo punto, ho deciso di cambiare prospettiva: calarmi non solo negli sguardi delle vittime palestinesi, ma anche fotografare i coloni israeliani. Era un modo per raccontare lo stesso conflitto da un altro punto di vista.
ER Posso affermare che ti inserisci nel filone della fotografia umanista contemporanea?
PM Ho iniziato da lì, ho imparato tanto perfino da chi è più giovane anagraficamente di me. Considero importante lo spirito della fotografia umanista. A livello visivo ci sono indubbiamente stati dei cambiamenti, ma non rinnego la fotografia del passato: è giusto guardare avanti. Io stesso non trovo più efficaci alcune narrazioni di un tempo, ma ne riconosco l’importanza.
ER La prima volta che ti sei recato in Palestina è stato nel 2010: sei poi tornato?
PM Sì, decine di volte. Dal 2010 ci vado almeno una volta l’anno. Nel 2013 ho vissuto lì per dodici mesi e nel 2014 ho documentato l’ennesima “guerra” a Gaza. Nel 2015 ho ripreso quella che fu definita “l’intifada dei coltelli” in West Bank. Nel 2018 ero di nuovo a Gaza per la “Grande marcia del ritorno”. L’ultima volta sono tornato lo scorso anno per fotografare la situazione post 7 ottobre 2023 (in West Bank ovviamente perchè a Gaza a giornalisti e fotografi internazionali è negato l’accesso).
ER Hai stretto dei legami con fotografi palestinesi durante le tue permanenze?
PM Ho conosciuto molti fotografi palestinesi. Raccontano il quotidiano, la vera storia. Io posso stare lì un mese, anche un anno, ma non avrò mai la loro stessa percezione. Penso che entrambe le prospettive siano importanti. Oggi, grazie ai social media, è più semplice anche per i fotografi palestinesi far arrivare le immagini nel resto del mondo.
ER Qual è il significato profondo che vuoi trasmettere al pubblico con la mostra “Cronache di un’apartheid”?
PM Quando mi propongono di parlare di Palestina non dico mai di no. È necessario discuterne, ma è anche frustrante: pensavo che le immagini che avevo scattato fossero tra le più dure, le più orribili…invece non era vero. Si è andati oltre. Il nostro mestiere dovrebbe servire a far sì che certe cose non accadano più e invece succedono ancora. Quindi oggi non mi interessa mantenere uno stile “politically correct”: dico le cose come stanno, anche a costo di essere impopolare.
ER Ultima domanda, la più complicata: come vedi il futuro della Palestina?
PM Sono veramente preoccupato. Se il presidente di quella che si definisce la più grande democrazia del mondo dice certe cose, se chi ha subito un genocidio ne perpetra un altro, cosa dobbiamo aspettarci? È un incitamento all’odio inaudito e continuo. Sapere che ciò possa accadere senza conseguenze è agghiacciante. Siamo di fronte all’impensabile.

Il lavoro di Pietro Masturzo si muove in quello spazio ibrido tra documentazione e urgenza civile, tra estetica e militanza. “Cronache di un’apartheid” non è un’esposizione del trauma fine a sé stessa, né un feticismo del dolore. È una mostra che cerca la complessità senza semplificare, che chiede allo spettatore di non restare impassibile. In un’epoca in cui il flusso delle immagini rischia di anestetizzarci, Pietro Masturzo riporta la fotografia alla sua funzione originaria: vedere, capire, agire. Perché in certi casi limitarsi a guardare non è più abbastanza.