Massimo Vitali, Desiata Shoe, 2017, Lightjet print, 181,5 x 242 cm

Intervista a Salvatore Astore e Massimo Vitali, i due artisti in mostra alla galleria Mazzoleni di Torino

Il 12 aprile 2022 la Galleria Mazzoleni di Torino ha inaugurato due mostre. “Gli occhi della scultura”, prima personale di Salvatore Astore con la galleria e “Ti ho visto” di Massimo Vitali.

Salvatore Astore (San Pancrazio Salentino, 1957) è un artista che dagli anni Ottanta concentra la sua ricerca sui rapporti tra l’uomo e il mondo, lavora materiali pesanti rendendoli “pensanti” dando origine ad una poetica e suggestiva organicità. Gli occhi della scultura è un nuovo progetto espositivo pensato e realizzato per la Galleria Mazzoleni.

Salvatore Astore, Sutura e Forma, 2020, Corten steel, 99 x 149 x 25,5 cm

O.C. Questa mostra, “Gli occhi della scultura”, ha una continuità con l’opera pubblica e site-specific “Anatomia Umana” inaugurata lo scorso autunno in Corso Galileo Ferraris a Torino, opera donata alla città dalla Galleria Mazzoleni. Come è nato il nuovo progetto e come è stata la nuova esperienza con la galleria, nella sua prima personale con questo spazio?

S.A. Io e la Galleria Mazzoleni avevamo già lavorato insieme e questa è stata un’altra bella esperienza. Dopo un paio di anni di lavoro nasce questa mostra che ha continuità con l’opera Anatomia Umana ed il titolo è tratto da un testo della curatrice Elena Pontiggia. Prima della pandemia avevamo collaborato per Art Site Fest alla Reggia di Venaria, poi è nata questa ultima collaborazione che parte dal progetto della scultura pubblica in omaggio a Leonardo Da Vinci. Volevamo fare una mostra, era già in programma ma avevamo dovuto aspettare per la pandemia e oggi la vediamo finalmente realizzata. 

O.C. Nello spazio di Mazzoleni troviamo opere realizzate tra gli anni Ottanta ed oggi, ci sono nuovi lavori e nuovi materiali, ma tutte mantengono un minimalismo organico.

S.A. Sì, le mie sculture in ferro nascono tra il 1984 e 1985. A Mazzoleni è stata allestita all’ingresso una degli anni Ottanta, la grande calotta del 1988. Quella è un’opera che fu esposta ad una mostra alla Galleria Belvedere a Milano e feci anche altre mostre con quella galleria, negli Ottanta era uno spazio che faceva molta sperimentazione ed ha chiuso poi qualche anno fa. Quell’opera all’ingresso l’abbiamo presentata qui per mostrare la genesi del mio lavoro. 

O.C. Le sue opere hanno subito delle evoluzioni nella pratica e nella ricerca?

S.A. Sì, certo, c’è stata un’evoluzione. Ho fatto molte calotte, sculture e forme di grandi dimensioni e ancora mantengo quelle forme. Ho fatto anche molta pittura, ho attraversato tanti cicli nella mia vita e negli ultimi dieci anni, forse anche di più, ho ripreso la tematica dell’acquerello. C’è un filo conduttore definito a livello critico “minimalismo organico” che si riferisce alla capacità di trasformare una materia fredda come il ferro in qualcosa di quasi biologico.

O.C. Ha spaziato tra i materiali pittorici e nella scultura tra il ferro e l’acciaio inox. Oggi da Mazzoleni vediamo un materiale nuovo, il bronzo.

S.A. A proposito di pittura, proprio Segno utilizzò una mia opera pittorica in una copertina. Per quanto riguarda il bronzo è la prima volta che lo utilizzo, è un’assoluta novità. Le mie sculture erano delle grandi superfici a forma di cranio e colonna vertebrale attraverso le quali affronto ancora oggi la tematica dell’anatomia umana, ispirandomi a Leonardo Da Vinci.

O.C. Ha un materiale con cui predilige lavorare?

S.A. Potrei dire l’acciaio in generale. Che sia inox, ferro normale o corten. Io cerco di rispettare la natura del materiale che uso, se il ferro si arrugginisce lo lascio così e questo vale anche per il corten.

O.C. Natura e cultura sono stati i suoi punti di riferimento per la ricerca, ma c’è qualcosa che si è aggiunto?

S.A. Come vedi la calotta cranica è un mio soggetto che ritorna costantemente. Questa è una calotta vista dall’alto (un’opera in ferro della serie Sutura e Forma) che per me è un po’ come una forma archetipica, iconica e simbolica. Queste altre installazioni (opere in corten, sempre della serie Sutura e Forma) sono inserite in una stanza anche se sono calotte. Per me la calotta è il contenitore della memoria, del vissuto, quindi tematicamente è forte, ha molti significati. Allora il titolo preso dal testo di Elena Pontiggia “Gli occhi della scultura” sta ad indicare l’occhio della mente e la differenza tra le prime e le ultime sculture è che le ultime hanno questi grandi fori a forma di calotta, diventano degli occhi in cui sono loro a catturare, non noi a farlo. Stanno creando in qualche modo loro la propria memoria, sono loro gli spettatori.

O.C. Quale pensa sia la prima reazione del pubblico davanti ad una sua opera?

S.A. Prendendo come esempio Anatomia Umana: quel momento lì è stato studiato, questa scultura ha una posizione strategica. Oltre ad essere due sculture che si guardano, offrono più punti di vista. Il pubblico vede che le sculture catturano qualcosa che anche loro stanno catturando in quel preciso momento, è una coppia che interagisce e ogni punto di vista diventa un punto di vista nuovo. Qualche giorno fa una mia amica artista mi ha scritto dicendomi “le tue opere sconfinano“. Nonostante la monumentalità e la staticità della scultura posseggono al loro interno lo sconfinamento, ogni forma è generatrice di altre forme.

O.C. In questa mostra ad un certo punto una sua opera s’incontra con una di Massimo Vitali, anche lui in mostra qui a Mazzoleni dal titolo “Ti ho visto”.

Nonostante la mia forma scultorea e la sua ricerca fotografica, l’allestimento è stato in grado di far dialogare due lavori così diversi.

Salvatore Astore, Sconfinamenti, 2022, Charcoal on paper, 51 x 72 cm

Massimo Vitali (Como, 1944) con la mostra “Ti ho visto” alla Galleria Mazzoleni, presenta la sua seconda personale in questo spazio. La macchina fotografica entra nella vita di Vitali quando era bambino e da allora non l’ha mai più abbandonata. Dall’inizio del Novecento si dedica ai grandi formati con sguardo attento, svolgendo un’analisi socio-antropologica dell’identità italiana attraverso il suo obiettivo.

Massimo Vitali, Rosignano Milk Maddalena Penitente, 2020, Latex print in diasec frame, 181 x 242 cm

O.C. Dal 94 ad oggi il suo lavoro in ambito fotografico si pone davanti all’identità sociale vera e propria, concreta. Quali mutamenti sono avvenuti da quella data ad oggi?

M.V. Partiamo da una cosa fondamentale: la fotografia fino ad un certo punto della storia era utilizzata per fare delle foto a riviste e magazine, diventava un’azione che nasceva e moriva lì, poi qualcuno “un po’ strano” ha deciso che la fotografia faceva parte dell’arte contemporanea e lì è cambiato tutto. Da lì la fotografia è diventata un concetto, ha cambiato la misura, mentre fino ai primi anni Novanta era difficile trovare una fotografia più grande di 40×50 e venivamo accusati di buttare via la carta. Tutte le grandi foto prima di quella data erano tutte piccole foto. Per cui, io ho incominciato a pensare che in fondo facendo delle foto grandi si potessero vedere più cose e nel dettaglio. Mi sono messo a fotografare in un momento in cui c’erano dei cambiamenti, questo ha influenzato in modo importante la mia vita e la mia arte, tutto si basa su questo, su questo modo di intendere la fotografia.

O.C. E questa fotografia così intesa influenza e coinvolge lo spettatore in modo diverso. Vedo che le persone si soffermano sul dettaglio, se le foto fossero di dimensioni ridotte penso che questo non avverrebbe. Io stessa mi sono rivista in alcune azioni dei suoi soggetti, magari si tende a soffermarsi su un dettaglio a noi familiare.

M.V. Esatto. Secondo me la grande foto di una dimensione più importante dà un coinvolgimento diverso allo spettatore. Sono un gran fautore della fotografia contemporanea vista in questo modo.

O.C. C’è una questione che mi risulta inevitabile: lei che non predilige gli spazi vuoti come ha vissuto il periodo post pandemia, il ritorno nelle spiagge del 2020? E io, da toscana, non posso non citare i suoi lavori nella spiaggia di Rosignano Solvay, lì c’è anche tutta una questione di inquinamento ambientale…

M.V. Il vuoto-pieno durante e dopo il covid. Io sono andato su qualche spiaggia anche durante il lockdown per vedere cosa succedeva, e succedeva veramente poco. Una volta finito quel periodo il 2 giugno feci una foto su una spiaggia di Marina di Massa, lì la gente cominciava ad uscire già, molto timidamente, diradati. C’era un po’ di sfida ma anche un po’ di paura, questo lo si nota abbastanza nelle fotografie. Tra le foto in post lockdown ci sono anche quelle fatte a Rosignano, ed hanno tutta un’altra storia. Rosignano stesso ha una storia particolare, scatto in quel luogo dal 1995 e tante cose sono cambiate, e tante non sono cambiate. La Solvay non è cambiata, ci spaventiamo del mare bianco, ma sono passati tanti anni e la situazione non è diventata grave. Rosignano rimane sempre affascinante.

O.C. E’ di grande impatto visivo, anche per il tipo di fotografia che lei fa.

M.V. Ho fatto anche la copertina di Vogue con le pellicce, tra Rosignano e Vogue non voglio prendere la parte di nessuno dei due. La foto era bella e non aveva nessun significato, né positivo né negativo, era solo dissacrante.

O.C. Quanto è importante l’elemento naturale? Intendo una volta che viene accostato alla socialità che si crea in quel determinato ambiente?

M.V. Se dovessi scegliere tra l’ambiente naturale con un suo interesse a prescindere e un altro, sceglierei il primo e la gente me la leggerei lì. Potrei leggere la stessa gente in un ambiente naturale banale. A volte inserirle in un ambiente un po’ strano che suscita scalpore, acuisce la curiosità. L’acqua ad esempio: le persone vicino all’acqua vivono. Le civiltà sono nate vicino all’acqua, ci sarà una ragione. E’ un polo attrattivo e soprattutto un momento in cui si è rilassati e liberi, mentre in una piazza di città è diverso e lo sarebbe in fotografia, c’è più preoccupazione ed agitazione e non funzionerebbe. 

O.C. Tra le realtà sociali italiane e quelle internazionali trova delle discordanze riscontrate attraverso il suo lavoro con la fotografia?

M.V. La differenza geografica è molto limitata, trovo che ci sia poco da evidenziare. Tra gli Stati Uniti, la Francia, La Spagna, la Grecia e l’Italia non vedo grandi differenze. Ultimamente ho fotografato solo in Italia e mi va benissimo, poi farò anche qualcosa all’estero, ma sto diventando sempre più “italocentrico”.

O.C. La sua mostra “Ti ho visto” è separata da “Gli occhi della scultura” di Salvatore Astore ed hanno entrambe in comune il tema dello sguardo. Ad un certo punto due delle vostre opere si incontrano, come è stata questa esperienza per lei? 

M.V. Ottima. Secondo le sculture di Astore si adattano molto bene alle mie opere e la sala in cui s’incontrano permette di percepire che finisce un’esperienza e ne inizia un’altra. E’ giusto che ci sia questo passaggio, ci sono tanti occhi in giro.