Luca Vitone
Luca Vitone e Marina Marques

Intervista a Luca Vitone

Quella che segue è una bella intervista che la giovane Marina Marques ha fatto a Luca Vitone, affrontando temi sinestetici, e di smaterializzazione o meglio di rimaterializzazione attraverso la stimolazione di tutti i sensi e non solo della vista nella costruzione dell’intervento plastico nell’opera dell’artista.
Massimo Mazzone

PARTE 1
origini, sensi, processi

Durante la tua carriera hai lavorato con molti media diversi, senza mai perdere però un orientamento nella tua poetica. Hai realizzato dei momenti di condivisione di cibo, sculture olfattive, opere visive e uso della musica nelle tue installazioni. C’è un senso con il quale senti una maggiore affinità?
Essendo un artista visivo, l’aspetto visivo inevitabilmente mi ha accompagnato per tutto il periodo formativo e successivamente quello lavorativo. Nonostante fin dall’inizio abbia avuto il desiderio di esprimermi travalicando i confini classici del quadro e della scultura e con questo intendo materiali, contenuti e destinazione espositiva, certe soluzioni formali sono arrivate dopo anni di lavoro, quando ho iniziato a capire di voler raccontare l’immagine di un’opera attraverso elementi che non avessero una forma fisica riconoscibile visivamente.
Ho seguito un percorso cercando di essere coerente su due aspetti, uno riguardo i temi che mi interessa sviluppare, approfondire e ricercare, parallelamente al lavoro sul linguaggio. 
Mi ritengo uno scultore quindi lavoro sul senso della scultura e di come può evolvere nel nostro contemporaneo. Lavorando con oggetti che occupano degli spazi ho cercato di farlo coinvolgendo tutti i sensi, seguendo anche riferimenti ad artisti del passato che hanno lavorato per arrivare a un’idea di opera totale. 

Hai un modus operandi che persiste oppure ogni volta proponi un processo diverso? Da cosa parti per strutturare un’opera?
Direi una pratica sviluppatasi negli anni. Arrivano le idee e si cerca di fissarle nella memoria o sul taccuino, in seguito alcune vengono elaborate. A volte si aspetta l’occasione di una mostra, oppure si realizzano e poi magari rimangono lì, a volte perché non si è del tutto convinti, o perché non si è arrivati al momento giusto per presentarle. Altre volte ci sono situazioni dove si pensa di fare un’opera e poi si cambia idea e si viene fuori con qualcosa di diverso che a volte appare anche migliore. 

Di Per l’eternità quello che è stato venduto che cos’era? Una quantità di odore?
Sono stati venduti i diffusori olfattivi, l’essenza ancora disponibile al termine della Biennale e la ricetta per la produzione dell’odore.

Hai lavorato con l’odore in diverse occasioni, diversi modi e con diverse intenzioni. 
L’uso dell’odore poteva avere un antecedente già nel ’92, quando ho cominciato a usare il cibo nei miei lavori. Nella sala della mostra si potevano degustare i cibi messi a disposizione del pubblico e chiaramente veniva a crearsi un odore. 
Credo di aver creato due tipologie di odori fino ad ora. Uno può essere ad esempio quello realizzato nel 2000 per Stundàiu, mostra al Palazzo delle Esposizioni, dedicata alla mia città, Genova. 
Cercando di elaborare delle opere che potessero coinvolgere tutti i sensi, ho pensato anche a un odore, più precisamente a un odore di mare. Avendo lasciato Genova a vent’anni, ogni volta che tornavo, riconoscevo un odore di mare sporco, oleoso, e quell’odore era diventato un momento preciso per me. Non provo nostalgia nei confronti della città dove sono cresciuto, ma ci sono degli elementi come alcuni cibi, paesaggi, suoni, odori e persone che sono per me imprescindibili. 
L’odore del mare per Stundàiu era un’opera che accompagnava le altre, Trallalero, Corso di cucina ligure, Crêuza, Bisciueta e Itineraio attorno alle dimore dei genovesi illustri in Roma, per creare un insieme di sensazioni che coinvolgessero tutti i sensi del visitatore e lo accompagnassero in un percorso conoscitivo che attraversasse idealmente il territorio che il progetto raccontava, Genova. Quando una decina di anni dopo, alla Biennale di Venezia ho deciso di portare per l’eternità, ho invece ragionato su un atto linguistico, riflettendo sulla forma dell’oggetto: l’odore è scultura, come oggetto nello spazio, se pur nella sua invisibilità. 
È l’idea di una scultura che essendo invisibile non è soggetta a confini formali e diventa enorme nel suo non essere percepita visivamente e non poter essere costretta nello spazio. L’odore di per l’eternità a Venezia era fuori controllo perché la corrente dell’aria lo portava sia nelle stanze vicine a quella dove era esposto, sia fuori dal Padiglione Italia come se volesse accogliere o avvertire il pubblico in arrivo.

Luca Vitone, Stundaiù

PARTE 2
olfatto, orientamento, eternità

Non metti in discussione solo i media con cui lavori ma usi questa discussione per dare sempre rilevanza, voce, importanza a qualcosa che di solito passa inosservato, per disattenzione o comodità. Penso al tuo uso della polvere o anche al tuo recente Romanistan.
Credo che questo faccia parte della scelta di vita dell’artista in generale. Ma ciò accade soprattutto quando l’artista affronta la realtà, che raramente si rivela rosea e affrontandola si è spesso scomodi. Al suo tempo Courbet era scomodo, ora non ce ne rendiamo più conto, ma lo era, eccome. 
Quello che ci circonda, il visibile, è dato da un mondo invisibile che ne determina gli eventi. Chomsky ci ricorda che a seconda del nostro comportamento sociale, interpretiamo l’esistente. Darsi delle risposte è molto complesso, c’è sempre qualcosa che le mette in discussione. Si tratta infine di un’indagine sull’invisibile, proprio perché indagare l’invisibile è la fonte stessa del porsi domande, del cercare di comprendere il mondo in cui abitiamo, cercando di sfuggire a una perdita topologica, come mi permettevo di scrivere tanto tempo fa.

A proposito di orientamento, tu hai lavorato spesso con sistemi di mappature, che siano cartografiche, come nel caso dei tuoi primi lavori, o come quelle che hai creato con il cibo, con i suoni o gli odori. Ti sei mai perso all’interno della tua ricerca? O in qualche modo, come ti orienti tra le tue idee, pensieri e desideri?
La perdita è stata tema di molte mie opere degli inizi. In generale, finché non si individua un percorso, si è sempre persi all’inizio di una ricerca. Il perdersi è formativo. Il perdersi debordiano l’ho sperimentato soprattutto da ragazzo quando capitava l’occasione giusta, e ovviamente è stato formativo. Con gli anni una pratica la si consolida per farla diventare un modus operandi, ma ciò non significa che si possa essere certi del risultato dell’opera a cui si sta lavorando. Si può prevedere, ma la certezza la si avrà solo a oggetto finito, perché il pensiero che si ha in testa è una cosa e l’oggetto finito un’altra. 
Il perdersi e il non avere riferimenti è forse una condizione più giovanile. 
Penso alle prime opere come il testo Perdita topologica e le Carte Atopiche, luoghi della perdita, in cui i punti di riferimento si annullavano riflettendo un momento in cui era difficile avere dei riferimenti, siamo alla fine degli anni ’80, inizio ’90, in un momento in cui era difficile affrontare il discorso politico in ambito artistico. Per un decennio, soprattutto in Italia, un ritorno all’ordine formale evidenziato dal pennello e lo scalpello annulla ogni discorso che prevedeva un impegno sociale e politico.

L’uso dell’olfatto ha in qualche modo a che fare con un punto di vista politico sull’opera d’arte e sul modo in cui si interlaccia all’istituzione in cui è o anche solo per le difficoltà che pone nell’essere collezionato?
Credo che l’opera sia sempre politica. Creare opere d’arte è un gesto politico di per sé che si può esprimere in vari modi. Per tornare a Chomsky non dimentico una frase in cui dice che essendo animali sociali inevitabilmente si è coinvolti politicamente. Sia che lo si esprima in modo rivoluzionario,  sia riformatore, sia seguendo lo status quo, sia in modo apatico, si è sempre soggetti politici. 
Un opera di Hans Haacke è politica come lo è una di Georg Baselitz, sta a noi spettatori fare la scelta su chi ci interessa di più seguire. 
Nel mio caso, presentare una scultura di quel tipo inevitabilmente determina una scelta politica, ma nello stesso tempo è una scelta che vuole riflettere sull’oggetto scultoreo. Basti pensare alla storia del ‘900 con dada, fluxus e tutte le esperienze che mettono in discussione lo statuto della scultura. 
Dall’altra parte c’è il tema che la scultura affronta, in questo caso il tema è l’Eternit, materiale dell’edilizia economico, apparentemente democratico e disponibile facilmente a tutti, tanto da aver ricoperto gran parte del suolo europeo. Allo stesso tempo però si rivela un gesto ipocrita, capitalista di sfruttamento di ignoranza e ingenuità collettiva diffondendo consapevolmente un materiale nocivo, disinteressandosi del benessere pubblico e pensando solo al guadagno personale e di un entourage di persone che approfittano del commercio di questo materiale. 

Hai definito per l’eternità un’opera che richiama un Minimalismo Aureo, che cosa intendi?
Il riferimento è a quella corrente linguistica, chiamata Minimalismo, che arriva al pubblico con la mostra Primary Structures al Jewish Museum nel 1966. Un momento di svolta per la scena artistica mondiale, in cui un gruppo di artisti statunitensi ha trasformato l’estetica dell’opera e il metodo espositivo che ha avuto degli sviluppi di cui ancora oggi sentiamo l’influenza. Basti pensare a un autore come Richard Serra, in cui la scultura diventa segno invadente e invasivo dello spazio.
Quando ho lavorato alla mostra Stundàiu, al Palazzo delle Esposizioni, ho pensato alla realizzazione di scultura totale che volesse coinvolgere i cinque sensi. Sicuramente ci sono state diverse influenze. La “scoperta”, quando ero studente negli anni ’80, della scultura sociale di Beuys è stata un’esperienza importante, oltre ad alcune personalità italiane, Beuys è stato uno degli artisti internazionali che più mi ha indirizzato a uscire dall’idea di oggetto per raggiungere l’ambiente. In quegli anni ho “scoperto” anche la Sala dei Giganti di Giulio Romano che mi ha rivelato come anche in un’epoca completamente diversa ci fosse l’idea di lavorare totalmente sull’ambiente per arrivare a creare nello spazio quella che negli anni ’90 identifichiamo come installazione. 
Lavorare con un odore come materiale della scultura significa pensare all’oggetto al di là di ogni dimensione visibile per raggiungere l’invisibile attraverso una materia percepibile con l’olfatto, un senso che di solito quando si visita una mostra non usiamo. L’opera diventa un oggetto performativo che si insinua nel corpo del visitatore partecipando così a un’altra esperienza esistenziale.

Luca Vitone, Crêuza

PARTE 3 
polveri, memorie, futuro

Per la creazione di Per l’eternità alla Biennale di Venezia 2013, hai portato l’odore dell’amianto e per Imperium hai portato l’odore del potere, come siete arrivati tu e Maria Candida Gentile a trovare le combinazioni di questi odori inventati?
Io raccontavo a Maria Candida le mie idee e lei mi presentava delle ipotesi con dei suggerimenti e grazie a questo dialogo siamo arrivati all’opera finita. Riguardo gli altri odori prodotti precedentemente, quello del mare diffuso a Palazzo delle Esposizioni e quello del bosco pensato per il Palazzo delle Papesse, si tratta di un’esperienza diversa perché si tratta di odori già esistenti. Quelli di per l’eternità e di Imperium sono immaginati e inventati. Per la loro realizzazione c’è stato bisogno di un continuo confronto con Maria Candida, che nel primo caso è venuta con me a fare i sopralluoghi a Casale Monferrato, incontrando le persone per cercare di conoscere in profondità la storia di quella tragedia. Con lei c’è stata una vera e propria collaborazione. 
Un aspetto, quello della collaborazione, molto frequente nel mio lavoro. 
Ritengo che la pratica dell’ascolto sia fondamentale per la riuscita dell’opera, ascolto che va dal contributo del corniciaio, figura fondamentale e per nulla scontata per la riuscita dell’opera, a quella del professionista di un’altra disciplina coinvolto per la realizzazione del progetto. Con Maria Candida questo rapporto è ancora più evidente e specifico. 
Pensavo ad una bella sintesi di Massimo Mazzone su come si configura la scultura, ovvero modellata, costruita, scolpita, o sociale. Allo stesso modo esistono delle categorie dell’arte, ritratto, paesaggio e natura morta, nelle quali noi artisti dobbiamo orientarci per confrontare la nostra pratica quotidiana. L’odore stesso può infine considerarsi una scultura modellata. L’opera che Maria Candida modella è costituita da materiali che assumono una forma, anche se alla fine risulta invisibile. Io credo di lavorare sempre sul paesaggio, mi ritengo uno scultore del paesaggio. A mio modo ho sempre lavorato su modalità parallele, tra la scultura sociale e quella modellata, l’unica che non ho mai intrapreso forse è proprio quella scolpita. Anche la manualità delle pennellate sui miei acquerelli di polveri sono spesso ridotte al minimo usando nel finale il rullo da imbianchino.

Come definiresti le tue polveri?
Le polveri sono ritratti di luoghi. Pitture animate da una riflessione sull’oggetto pittorico stesso. Sono lavorati con un anti-pigmento, un elemento che di solito lede la pittura e che in questo caso diventa protagonista. Oltre a essere una riflessione sul monocromo. Si tratta di un richiamo al momento apologetico della pittura negli anni ’60, durante i quali sono stati praticati vari tentativi di messa in discussione della pittura, basti pensare a Manzoni e la sua idea di acromo, utile in realtà a sottolineare il suo ruolo vitale come pratica umana. Piero Manzoni è un altro dei principali riferimenti, come Beuys, per la mia formazione. Mi sarebbe piaciuto conoscerli, vedere come lavoravano.

Per quanto riguardo l’uso dell’odore nelle tue opere, ti sei ispirato a qualche autore passato in particolare?
Mentre ragionavo per capire cosa fare con l’odore… le opere di Robert Barry e ovviamente l’Air de Paris di Marcel Duchamp. 

Hai nuovi odori e progetti in cantiere?
Con Maria Candida Gentile abbiamo in mente un terzo odore ma stiamo aspettando il luogo giusto per esporlo.
Imperium verrà ripresentato il 7 maggio al Weserburg Museum di Brema per una personale dove oltre all’odore e le polveri ci sarà anche un’opera sonora.
Un’altra mostra in programma è la personale che si svolgerà al MAXXI e a Villa Adriana. A Roma verrà presentato un progetto dedicato a Villa Adriana come residenza imperiale costruita lontana della capitale per evitare pressioni della nomenklatura. Esempio topico di dislocazione della sede dirigenziale del potere per mantenere un’autonomia nella gestione dell’autorità e del suo controllo. Un’ulteriore riflessione sull’idea del potere. Dopo Imperium avevo pensato di indirizzare l’attenzione sugli albori del dominio occidentale e per questo sono arrivato a quello imperiale romano, l’archetipo per eccellenza.  

Se dovessi pensare a 3 odori che sai non dimenticherai mai, quali sarebbero?
L’odore del mare di Genova, un po’ oleoso, di porto, è uno di quegli odori che fa parte della mia vita, un punto di riferimento mnemonico, quando arrivo alla stazione ferroviaria di Piazza Principe e si aprono le porte quell’odore mi da il benvenuto, come un “ben tornato a casa”.
Un altro è comune un po’ a tutti credo, e proviene dall’asfalto bagnato dopo un acquazzone estivo, un ritorno al gioco spensierato, al rilassamento dato dalla villeggiatura. 
Un altro invece più intimo, sgradevole ma molto affettuoso, è quello della saliva di mia nonna paterna. Quando da bambino trascorrevo i pomeriggi con lei, dopo la merenda pensava bene di avvolgere il suo fazzoletto intorno al dito indice della mano destra, bagnarlo con la propria saliva e pulirmi la bocca. Un gesto arcaico, che non prevedeva l’invenzione della fontanella. A me faceva abbastanza schifo ma l’ho sempre subito, perlomeno fino a quando sono stato accompagnato da lei a giocare ai giardinetti. Ogni tanto succede che senta ancora quell’odore e che non riesca a capire cosa abbia potuto scaturirlo e perché. L’odore della saliva della nonna. Oggi è un ricordo molto affettuoso. Lei era una signora semplice, di origini contadine, nata nel 1906, rimasta orfana per colpa della spagnola e mandata dall’entroterra di Levanto a lavorare come domestica a Genova. Poi è diventata una melomane, ha girato l’Italia con i suoi amici della lirica, diventando a suo modo una signora di mondo, se pur sempre con il dito avvolto nel fazzoletto.