Gabriele Perretta, Non è una nuvola nucleare (punto interrogativo), fulmifoto, fine estate, 1999.

Influencer capitalism:
Paure emergenti … (II parte)

La minaccia dell’autoritarismo da panico sociale è una conseguenza del fallimento delle rivoluzioni del XX secolo e dell’eclissi del movimento operaio come aspetto della vita sociale e politica. Essendo scomparsa la critica radicale, che dissolveva paura e arrendevolezza, e vedendo la socialdemocrazia allinearsi alle norme di governamentalità neoliberale, le destre radicali hanno acquistato una sorta di monopolio della critica al “sistema”, senza neanche aver bisogno di mostrarsi sovversive, o di entrare in competizione con la critica antiliberale, lasciando questo ruolo agli outsider dell’autoritarismo da panico e della minaccia inderogabile.

Tira una brutta aria in Europa. Dopo la scomparsa della democrazia e l’ingresso di ECR (il partito di cui la Meloni è dirigente) nel board della Presidenza del Parlamento Europeo, lo spostamento a destra delle Istituzioni Governative appare evidente. Una nuova destra nazionalista, non più antieuropea, ma sostenitrice di un’Europa degli Stati si fa avanti. Sono curiosamente sfuggite alla stampa italiana le recenti dichiarazioni del Ministro dell’Economia francese Bruno La Maire. “Non possiamo accettare che il nostro partner americano venda il suo gas liquefatto a un prezzo quattro volte quello al quale vende agli industriali americani”, ha attaccato. “Dobbiamo trovare rapporti economici più equilibrati tra i nostri alleati americani e il continente europeo”. Anche perché il conflitto in Ucraina non deve sfociare in una dominazione economica americana e in un indebolimento della UE. L’apocalisse della paura: cosa comporterebbe l’impiego di una vera strategia di pace nelle settimane successive? Difficile fare previsoni, eccetto una: basterebbe una sola manifestazione pacifista globalmente riuscita a causare milioni di progettualità e di dialoghi diversi e scenari fuori dal Panico. Il tema della paura, in politica, è stato a lungo trascurato. Gli studiosi del modo di fare delle moltitudini hanno spesso osservato che le apprensioni sono infettive. Lo sono anche nei «rituali collettivi», ove le emozioni della gente vengono fortemente influenzate dalle impressioni manifestate dagli altri. I rituali e le dimostrazioni politiche collettive hanno una qualità di seduzione, e le emozioni associate una volta con tali celebrazioni rituali collettive continuano ad essere avvertite anche quando dei riti analoghi vengono celebrati più tardi, da una persona sola o in un gruppo più limitato.

Da qualche anno la trama della paura a sostegno dei dispositivi di potere, in particolare nella versione che fa leva sull’uso politico della paura e sulle strategie di manipolazione operate da chi governa, è stata riscoperta nei metodi giuridico-politici e politologici (vedi: Politics of Fear) che si sono sviluppati a partire dall’inizio del Nuovo Millennio e a seguito della tragedia delle Torri Gemelle (dell’11 settembre 2001) e, dunque, in rapporto a quel caso circoscritto dall’espressione “eversione globale”. La prima tesi considera il legame tra «spavento, azzardo e sistemi di governance», sostenendo che sono solitamente innescate, non tanto dal potenziale di emergenza  incluso in un certo evento, quanto dall’indurimento di perplessità di vario tipo attorno a quel fenomeno che, a seconda dei periodi, mostra le caratteristiche più idonee ad attrarre l’attenzione pubblica e a risalire la scala dei rischi prioritari da temere. Si costringono i limiti dello stato di diritto, per creare linee di blocco, di arresto di sistema dalla competenza ordinaria che, col tempo, rischiano di essere uniformati. La gente che ha paura diventa l’ossessione di chi governa: se ne raccoglie l’importanza in termini di risorsa di legittimazione ma, al tempo stesso, se ne teme la carica distruttiva che può travolgere la classe politica e le istituzioni. Il richiamo implicito alla “paura cultuale” rende ancor più chiara la comprensione della politica ai tempi della sedizione globale, che si nutre di diverse paure: i terrorismi  contro l’opinione pubblica che si tenta di tesaurizzare in termini di consenso, gli sbigottimenti delle persone in carne e ossa che vengono provocati con effetto, la simulazione delle paure dei capi di non riuscire a contenere in modo utile le paure sociali e che, presi dall’urgenza e dalla difficoltà di dare risposte, tendono a riprodurre ellitticamente il circolo vizioso tra terrore e politica. Forse, si tratta di quel potere che rischia di irrobustire e allargare la spavento, legandolo, in un “cerchio demoniaco”, all’uso della forza, qui intesa come repressione e contrazione neo-neo-fascista. La situazione ora descritta sembra non lasciare scampo, spingendo a ritenere che l’immediato futuro sussisterà segnato da politiche regressive sul piano della libertà e dei diritti. Quindi è il caso di rammentare, al lettore più attento, che il futuro non è inevitabile. Non lo è se prendiamo consapevolezza del fatto che il contemporaneo non è univoco; se riusciamo cioè ad apprezzarlo nelle sue sfumature e per le sue sbavature; se siamo in grado di considerare le paure come segnali d’allarme sulla condizione della rete pubblica e istituzionale, incapace di reggere al peso delle trasformazioni. In effetti, siccome il «congegno dell’angoscia collettiva» agisce sempre sulla relazione tra individuo, società e potere, il dilemma di fondo rimane quello di comprendere se siamo in grado di farlo funzionare in modo da stimolare forme di fiducia inclusiva e aumentare gli spazi di esercizio dei diritti; oppure se, senza rendercene conto, lasceremo che il dispositivo della paura continui a erodere gli spazi di civiltà che in questi secoli abbiamo penosamente espugnato. Come primo passo, visto che le persone dicono di aver paura di molte cose (tra cui cambiamento climatico, disoccupazione, incertezze economico-sociali, guerra continua alle porte), e non solo di eversione e malavita, dobbiamo chiederci se siamo in grado di dare più spazio collettivo a quelle paure sociali che consentono di ritrovarsi uniti e di immaginare nuovi equilibri (tra libertà e sicurezza), all’insegna dell’inclusione nella sfera dei diritti collettivi e umani.

Gabriele Perretta, Omaggio al Doppio Arcobaleno di Walter Benjamin, fulmifoto sten, autunno 2000

La questione politica più indifferibile è rigorosamente il vuoto d’immaginazione: la centralità di sicurezza e violenza politica sta impoverendo la capacità di pensare diversamente il ruolo della politica, obbligando l’azione libera, il cammino delle nuove idee, in perimetri sempre più stretti e chiusi. È un vuoto che riguarda la stessa relazione tra soggetti civili e potere. Non è più il potere che tiene in equilibrio libertà, diritti e sicurezza, ma fatichiamo a rappresentarlo in modo diverso. Sono le immagini di guerre a prevalere, rappresentazioni di conflitti il cui esito non è ancora pensato. La speranza è che si possa presto contare su studi di iconografia del potere contemporaneo: ne avremmo davvero bisogno per poter immaginare nuovi equilibri tra libertà, diritti e sicurezza.

Le cose più spaventose sono di solito orribili a tal punto da non riuscirle nemmeno a viverle. Sorte vuole, che una di queste, la bomba dell’angoscia, per anni coscienza subliminale del più grande Armageddon dei media, sia divenuto – con cinica semplicità – un care off tra figure di alto potentato. La guerra della paura ha portato il pianeta in un terreno inesplorato e perciò fare previsioni è difficile e può sfociare nella fanta-politica. Ma abbiamo diverse fonti che si sono attivate per giungere a situazioni al limite dell’apocalittico letterario e cinematografico. Durante la nuova fase della Guerra della paura, il timore delle potenze atomiche (Usa-Russia e Cina in primis), è quello che si attende dal nemico un first strike psicologico, ovvero una strategia che continuasse a minacciare per prima, causando una botta e risposta, anche del riverbero dell’al di là. Per questa ragione, le diverse potenze hanno messo a punto il cosiddetto sistema della triade first strike (apparente): le armi della paura sono distribuite tra tre distinti sistemi: i missili della menzogna (capitalistica) portatrice di angoscia perenne, i bombardieri e i sottomarini del crollo della politica e della dissuasione mediale. “Infatti – ricorda Paul Virilio – da circa mezzo secolo, o da molto più di mezzo secolo, non si brandisce la fine del mondo senza evocare la demonologia delle origini”.

L’apocalisse illusiva del First Strike è sotto gli occhi di tutti, anche se non la vede nessuno! Attualmente, se i conflitti limitati non meritano più il termine di guerra, è perché costituiscono la sua degenerazione mediale. Mentre la guerra totale si trovava nell’impossibilità di allargarsi (spazialmente) a causa del dislocamenti dei nuovi mezzi di terrore, il suo degenerare consente l’estensione indefinita nel tempo della guerra psichica. Ecco quindi giunta l’era della grande violenza ed aggressione mediale, non la medialità come alcuni sostengono delle guerre mediali tra siti e organi giornalistici, ma quella di una sovradelinquenza non convenzionale, terrorismo da Gabinetto del Dottor Calligari, blocco della guerra reale/mediale a beneficio dello sviluppo di un conflitto tendenziale del profitto ecologico e della diffusione del Governo della Paura. Così, con l’inibizione del passaggio all’atto ristagnante, il disinnescamento di una logistica globale soppianta la perpetrazione di una guerra mondiale: questa creazione dà vita alla dislocazione dell’afflizione, la ricerca e lo sviluppo dello stato d’eccezione perenne, malgrado i rischi incalcolabili di una destrutturazione dell’indole umana, di un crollo delle speranze, non solo delle prime necessità di fede, ma anche delle seconde e terze forme di qualsiasi necessità psichica. All’invenzione fondamentalmente nichilista di una “placenta pessimista”, succede così l’inversione transmediale di una guerra sull’instaurazione della Stato di Eccezione della Paura. Alle grandi invasioni, alle guerre di conquista dello spazio, dell’era dell’estensività dei poteri internazionali, si passa ad una delinquenza dello stadio ultimo, una simulazione che si rigenera tramite la conservazione dello stato di Paura. Quello che è in gioco con la rottura dell’apocalypse now – in questo ritorno post-politico, tutto all’insegna della nuova destra estrema, in questo pantano post-idelogico e post-ecologico, post-militare e post-democratico e al di là delle prospettive di destra e di sinistra – è il potere definitivo dello Zaratustra senza immagine, la fine della speranza di una qualsiasi comunità di liberi abitanti, di una riuscita economico-sociale.

Alla domanda “che cos’è la paura?”, non si può rispondere prima d’aver posto un’altra domanda: “Come incontriamo l’identificazione durante l’applicazione pubblicitaria della paura?”. È l’identificazione nella prassi della strategia che incide più che il suo posto nelle costruzioni partitiche. Le parole crisi della narcosi e applicazione dello stato di paura sono un po’ polisemiche, come d’altronde tutte le forme di paura. Da un lato si tratta di un momento, un momento in cui il soggetto è chiamato a scegliere il suo orientamento. Lo stadio del terrore perenne ha allora lo stesso senso che nella strategia politica classica: esso designa l’attimo in cui la malattia dell’angoscia sta per decidersi tra la guarigione del Pianeta Terra e la sua sparizione. Emozione primaria di collasso della difesa o di sicurezza, nella fine di ogni certezza provocata da un’ulteriore situazione di pericolo, anticipata dalla previsione perenne (il test dell’angoscia nucleare) o prodotta dalla fantasia. Un sentimento scomodo e governato dalla politica dell’irrazionale, originato da un evento ultimo, sembra all’indomani del suo stadio finale, all’indomani della sentenza nucleare mondiale, che debilita e destabilizza, che provoca e sollecita l’istinto di difesa e quello di morte, ma poi – per rigenerarsi – abbatte lo stadio della ragione. È naturale avere paura della minaccia nucleare o è necessario individuare in che punto si disloca la paura, quando diviene una minaccia fine a se stessa o critica del minacciato, allo stato puro? La civiltà della paura: non è solo tutto quello che riverbera la ricerca del terrore è, senza dubbio, la molla che sospinge ogni attività del nucleare nella sfera economica e sociale. Nessuno cercherà di “fottersi di paura”, di regredire nell’annichilimento: è una verità lapalissiana. Il caso di quelle vittime, di quei sacrificati, di quegli oppressi che vivono nel timore e magari cercano la rinuncia alla lotta, alla ribellione purificatrice, è un eccezione soltanto apparente, in realtà codesti rinunciatari ai «beni materiali dello stato di ribellione» – che sono appoggiati dai più comuni adepti del consenso reazionario – sono un’eccezione che conferma la regola, alla quale si sono nobilmente consacrati e che per loro è la sola che valga. Ma restando nel mondo ordinario dei ceti medi, quanti equivoci sussistono nell’integrazione al principio-paura, al quale tende la generalità del Nucleare, oggi più che mai, tanto che per qualificare l’epoca in cui viviamo, e il suo ideale, è saltato persino il nome di “benessere della paura”. Rivolgiamo la nostra attenzione ad un esempio concreto. La paura ha adottato, nei tempi attuali, due posizioni principali, per quanto riguarda i rapporti tra guerra e tregua violenta (il transito dell’angoscia storica). La prima è la più antica e non fa che preconizzare il pessimismo di Gunther Anders (Breslavia, 12 luglio 1902 – Vienna, 17 dicembre 1992): si tratta di una posizione che voleva fare del sapiente il suggeritore di forze di pace, in altre parole, il detentore del sapere critico e del sapere strategico. Mentre invece l’etica del futuro, che Hans Jonas (Mönchengladbach, 10 maggio 1903 – New York, 5 febbraio 1993), ci prospetta innesta nel proprio cuore la paura per qualcosa di non ancora esperito e, molto probabilmente, di non analogo ai contenuti dell’esperienza passata e presente. Günther Anders, autore di opere  allarmanti per capire il nostro temporaneo “rimanere in Terra” – da Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki al carteggio con Claude Eatherly, uno dei piloti di Hioroshima, a L’uomo è antiquato – si fece avanti con Le tesi sull’età atomica, in appendice a Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki. Le Thesen sono un testo “estemporaneo”: nel 1960, dopo un dibattito sui problemi etici dell’età atomica, con gli studenti dell’Università di Berlino, Anders scrive il suo manifesto militante della resistenza al nucleare.  In questo scritto Anders dice che bisogna trovare “il coraggio di aver paura” perché la paura è segno di consapevolezza ed ha perciò un valore euristico, cioè di strumento di conoscenza della realtà, e “vivificante, poiché invece di rinchiuderci nelle nostre stanze ci fa uscire sulle piazze” a lottare per il disarmo, ossia per l’impegno fondamentale per tutte e tutti, perché “ciò contro cui lottiamo, non è questo o quell’avversario che potrebbe essere attaccato o liquidato con mezzi atomici, ma la situazione atomica in sé”. Nella volontà di Anders si coglie l’essenza della realtà e della soggetività resistente: il soggetto viene identificato per se stesso come un’essenza che è volontà.

Gabriele Perretta, Per sospettare dell’etologia di Konrad, foto al fulmicotone, autunno 2002

Quella di Anders è una resistenza filosofica centrata sul possesso certo della volontà. Ma in Jonas la volontà non è più una presenza metafisica e non ha più nemmeno un ruolo programmatico. L’intenzione politica dice e parla al di là del linguaggio, perché l’intenzione come tale non può mai essere né detta, né espressa e né conosciuta. In Jonas la volontà resistente – se con questo termine si intende esprimere un assetto univoco da imprimere nella lotta e nella vita umana – è una meta scardinante, è l’intenzione che la persona, impegnata nella ricerca della critica, della legge e della giustizia, vede spostarsi di continuo davanti a sé. E i valori della resistenza sono rinviati a questo processo  di incessante differimento, nel corso del quale risultano condannati alla stanchezza e all’estenuazione coloro che non entrano nella dimensione empirica dell’ecologia politica. Il primo “spettare” che la nuova eticità indica – e che esercita una funzione iniziale – è quella di rappresentarsi un malum, di percorrerlo di proposito. L’allarme verso questo male non è di tipo patologico, ovvero coinvolto direttamente nella nostra consapevolezza, ma di genere sensato, legato ad un gesto che accelera il malum perché lo riconosce come prescrittivo e fonte di una necessità, disposta ad accoglierlo come un principio che deve diventare operante in qualità di regola pratica e che può dettare normatività, egli “si deve prestare più all’ascolto e alla profezia di sventura che non a quella di salvezza” (da Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica di H. Jonas, Einaudi, Torino, 1990, p.39). Abbozzando le linee di fondo della sua «etica della responsabilità» – che in antitesi alle immodestie dell’utopia, insiste sui temi dell’umiltà e della riflessione critica – Jonas afferma che la rivendicazione si nutre sia della speranza, prospettata come condizione di ogni agire, sia dal panico, intendendo, con quest’ultimo, non una forza che distoglie dall’azione, ma una spinta che esorta a compiere una resistenza consapevole. Anzi essendo, persuaso che soltanto il temuto, stravolgimento dell’uomo ci aiuta ad innalzarci al concetto di un’umanità da salvaguardare, Jonas parla – caratteristicamente – di una “euristica della paura”, affidando ad essa la scoperta dei principi eretici da cui sono deducibili i nuovi doveri dell’uomo tecnologico. Hans Jonas, pur dicendosi favorevole alla libertà politica, non esclude che in circostanze eccezionali, possano affermarsi, per «migliori bisogni di sopravvivenza», forme più o meno radicali di ecoegemonismo: “in situazioni estreme non rimane spazio per i complessi processi decisionali della democrazia e non ci può limitare ad attenderne gli esiti. Se uno volesse riconoscere il contrassegno distintivo della “resistenza ecologica” alla quale appartiene Jonas lo troverebbe ancora nella motivazione etica per la quale una persona, per poter esprimere gli aspetti della vita attuale, deve strapparsi con determinazione spietata dalle false immagini dell’influecer capitalism che la tengono prigioniera per la sua mancanza di coraggio. La cultura della «resistenza ecologica» contemporanea è la storia delle vicende di cittadini che hanno dovuto battersi con coraggio contro la paura nichilista e la vigliaccheria occulta. “La libertà, proprietà essenziale dell’uomo, sua dote biologica, può scomparire solo con lui; la libertà politica, che ne rappresenta un’espressione particolare e storicamente piuttosto rara, può di nuovo scolorire. Questo accadrebbe se non si superasse la prova più difficile finora posta alla libertà umana nella sua totalità” (Jonas, op.cit, p.45). Circa la probabilità di scampare alla catastrofe ecologica, Jonas afferma che ci sono due validi ragioni per esserne scettici. Ma ciò, a suo parere, non deve assolutamente implicare un atto di docilità: «Dall’euforia del sogno faustiano ci siamo ridestati nel freddo bagliore della paura. Non ci si può abbandonare al fatalismo. Né il panico apocalittico potrà mai farci dimenticare che la tecnica è un’opera della libertà umana. Le imprese di questa libertà ci hanno condotto al punto in cui ci troviamo oggi. Saranno gli atti di questa stessa libertà […] a determinare il futuro globale … […] il sapere non può mai rinunciare alla sua chance. In mezzo ad ogni incertezza, esso deve compiere il suo dovere» (ivi, op.cit., p. 33-38). Ma proprio la discussione e la critica esigono lo sguardo conciso della dialettica, capace di discernere e al tempo stesso capace di pensare le opposizioni e di trasformare la realtà. Noi semiologi, critici, studiosi, cittadini e anche studenti abbiamo davanti un grande e importante compito, per quanto impegnativo e difficile: siamo in grado di “costruire/ricostruire ponti”, mettere in relazione le diverse esperienze e bisogni critici, fare dialogare le culture e i soggetti, aiutare a cogliere la bellezza e la critica che è dentro ciascuna delle diverse culture, dentro le differenze culturali e fare capire quanta ricchezza di vita e di umanità c’è dentro la scoperta di ciò che ci unisce, come esseri viventi, e che ci rende uguali in questa comunità. Noi tutti, cioè, abbiamo la possibilità di operare una scelta, allo scopo di contribuire a fare crescere una cultura in grado di gestire i conflitti per sviluppare una ecologica solidarietà.

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