Alan Klinkhoff Gallery artdealers. Appraisers Georges Mathieu Kahnawak, 1965

Il gesto di Barthes (II parte)

Roland Barthes, CARTE SEGNI, catalogo mostra Roma, 1981, a cura di Carmine Benincasa; Esposizione di Roland Barthes Carte Segni. Roma, Palazzo Pallavicini-Rospigliosi, 1981. Milano, Electa, 1981. Nello spazio di ricostruzione cartacea, in cui si guarda soprattutto il segno di se stessi, scompare sempre di più il lavoro codificato. A causa dell’assenza del segno della scrittura, il mondo dell’arte visiva ha oggi sempre meno natura di voce. A differenza di un segno chiaro, «l’Esso segnico» non ha identità se non in chiave di diletto. L’Esso segnico non rivolge la sua traccia ad un riconoscimento. Lo svanire del suo essere frontale rende il mondo pittorico privo di comprensione. Kandinskji, in involontaria sintonia con L. Wittgenstein, già nel 1911, aveva scritto che il “compito della pittura oggi è quello di vagliare le sue forze e i suoi mezzi, di conoscerli come la musica fa già da tempo, e di provare ad impiegarli in modo puramente pittorico a scopo creativo” (Lo spirituale nell’arte, SE, Milano, 1989, p. 40).

Il punto di partenza e la soluzione finale, l’alfa e l’omega della ricerca di Barthes riguarda la possibilità di concepire una teoria della pittura in quanto dotata di un chiaro e fondante atteggiamento gestuale. La fedeltà a tale proposito è il filo rosso che attraversa l’intero percorso del catalogo di Benincasa; ma si tratta di un’attenzione che presenta molti aspetti, anche contrastanti tra loro. La prima questione fondamentale riguarda la stretta  congruenza e la quasi identità fra le esigenze di una teoria unitaria del gesto pittorico, posta al centro dell’exsemplum semiologico e disdetta nel corso della tradizione occidentale, e la costituzione di una natura essenzialmente semiotica. In quali, effettivi termini si attua tale convergenza? Nel riconoscimento dell’approccio ontologico della retorica del gesto, che coincide con l’attribuzione, ad essa, di un inalienabile statuto di traccia, di testimonianza. Ma cosa si può intendere, attraverso Barthes, con retorica del gesto pittorico? Volendo tenere in piedi una riflessione storica, il gesto  e la gestualità di R. B. si stagliano, tra la riflessione dell’inizio degli anni 50 (astrazione gestuale e automatismo surrealista) e La pittura per lasciare la pittura (1952) di Arnulf Rainer! Kandinskji in involontaria sintonia con L. Wittgenstein, già nel 1911, aveva scritto che il “compito della pittura oggi è quello di vagliare le sue forze e i suoi mezzi, di conoscerli come la musica fa già da tempo, e di provare ad impiegarli in modo puramente pittorico a scopo creativo” (op. cit.). Il tachisme offre invece una visione combattiva, che si colloca ben lontano dall’«estetica dello sputo». Nel 1954 Charles Estienne, e poi lo stesso Georges Mathieu, convergono sulla seguente gestualità: “macchie allo stato puro”. La folgorazione del gesto sollecitava la creazione di forme in cerca di senso. Nel 1956, Mathieu porta sulla scena la sua estetica della velocità. Al teatro Sarah Bernhardt, davanti ad un pubblico di mille persone, dipinge in trenta minuti un quadro di grande formato (4×12 metri). Jean Casson, conservatore del Musée National d’Art Moderne, nel 1950, scrive che “ogni artista moderno inventa non soltanto la propria estetica, ma i suoi procedimenti sono del tutto empirici” (Situation de l’art moderne, Minuit, Paris, 1950, p. 125). All’interno di questo dibattito è proprio la posizione strutturalista di Claude Levi-Strauss, del 1962, a rimanere scossa dalla ventata gestuale: “È una scuola di pittura accademica, in cui ogni artista s’ingegna di rappresentare la maniera in cui ogni pittore  eseguirebbe i propri quadri se per avventura ne dipingesse” (La scienza del concreto, in Il Pensiero Selvaggio, ed. orig. Plon, Paris, 1962, p. 43). Già in Le Degré Zéro de l’ecriture del 1953, Roland Barthes mette nel baricentro della propria teoria il concetto di “écriture”, che connota la cognizione del proprio lavoro come scrittore moderno (quale  R. B. sentì sempre di essere). La scrittura metaletteraria e metacritica testimonia lo scontro dei linguaggi che lega la figura dello scrittore al conflitto delle classi. Proprio della «ecriture» è un momento di libertà che le consente di superare idealmente, come utopia, l’antagonismo di classe. Anche se ciò conserva ancora una coloritura ampiamente esistenzialista, tuttavia questo concetto di autonomia, questo indeterminismo potrà in seguito avvicinarsi a quanto Levi-Strauss credette di poter fissare nel cosiddetto selvaggio come procedimento mitopoietico, e che Jacques Derrida trasformò in una prassi del pensiero filosofico: il fai da te, che disegna in forma ludica le proprie traces, mescolandosi inestricabilmente, sotto forma di metasistema a sé stante. Barthes suppone nelle persone uno strato psichico che opera più fortemente dell’intelletto: è il potere del desiderio, il linguaggio del piacere. È l’organismo affettivo della sensibilità ad ampliare di una profondità il concetto di mito di Barthes rispetto al concetto di ideologia, che si riferisce più fortemente al piano razionale. Barthes sostiene una concezione  semiotico-mediale del mito, che definisce spesso come messaggio; questo può essere sia orale, sia scritto o sotto specie di riproduzione, come nel caso della réclame. Si tratta, dunque, dei sistemi mentali che possono essere codificati in forma verbale o visuale, diventando così una sorta di linguaggio, di discorso. Barthes fu negli anni ’50 uno dei primi a reagire alle forme qualitativamente nuove di pubblicità e a confrontarsi con la trivialità dei mass-media. Roland Barthes aveva parlato di  questa sorta di termini in absentia nella sua teoria dell’immaginazione del segno, dove c’era però ancora una differenziazione classificatoria di generi semiotici come sintagma e paradigma (quest’ultimo si espone nel non detto e nel suo essere celato). Nel 1952 uno dei testi più provocatori sulla pittura di Arnulf Rainer che si interroga sui valori metafisici della gestualità dice: “I quadri, le poesie, le idee, i discorsi sono solo la schiuma, la fermentazione, il cascame, la cenere, il tentativo assurdo di ritrovare questo contatto con l’estasi del vissuto (…) Sono solo tentativi impossibili di provocare qualcosa, una maniera deviata per la nostra razza peccatrice di realizzarsi in parole e non in silenzio. Sono solo concessioni al nostro mondo corrotto di cui proviamo vergogna”.

Arnulf-Rainer, Senza titolo, 1989. 41×53 cm. colore su fotografia 1000

Quindi, così come Rainer inizia i suoi Ubermalungen (dipinti ricoperti), seppellendo lentamente i suoi quadri, e a volte anche quelli degli altri, sotto uno strato di pittura monocroma nera, Roland Barthes, negli anni Settanta, cerca di distendere il gesto nella macchia e la macchia nel gesto, collocando l’azione minima in uno schema familiare. Nel concetto di gesto la semiologia della scrittura ha posto il luogo di incontro tra corpo e significato, tra movimento e senso. Nel gesto infatti si assiste a un’attività fisica, concreta e osservabile, il cui fine pare essere la comunicazione di un contenuto più o meno intenzionale. L’incontro tra due sfere, tanto distanti quanto la materialità del corpo e l’astrattezza del «segno arbitrario», trova nell’atto anti-form un punto di sintesi, in cui la compenetrazione tra forma e forma, traccia e traccia si dà a vedere come espressività di superficie. Il gesto, ossia l’atteggiamento di qualunque membro del nostro corpo  artistico, può considerarsi sotto due aspetti, per il modo cioè nel quale fisicamente si esegue quel movimento, quella posizione, quel concerto di mano, di dita, ecc. e per l’idea che vi si attacca. Questi due aspetti diversissimi debbono essere considerarti con ogni scrupolosità ed ognuno intende che l’esatta cognizione del primo sia non solo del massimo vantaggio, ma anche di assoluta necessità per l’intelligenza del secondo. Questa unità condensata e al tempo stesso istantanea tra materiale e ideale, ovvero tra  carta e segno, ha favorito la concezione secondo cui l’origine del linguaggio andrebbe ricercata proprio nell’espressività gestuale. Tanto il dibattito sull’origine del linguaggio – nei suoi diversi orientamenti – quanto l’indagine semiotica tendono a non mettere in discussione il carattere loquace del gesto, ritenuto un latore di significato la cui importanza risiede nel fatto di essere «an attempt to give information of some sort», come ci ricorda la filosofia analitica. 

Roland Barthes

Come si è detto, il gesto viene abitualmente ricondotto alla dimensione dell’originario e dell’immediato; la sua intenzione viene individuata per lo più nella comunicazione di un’informazione o significato; la sua competenza è ricondotta alla sfera pratica dell’azione. L’indagine barthesiana si sofferma sul gesto riscontrando in esso i caratteri di immediatezza ed espressività essenziali per la comprensione del linguaggio. Nella prima parte della “semiotica del neutro”, dedicata alla riflessione sul corpo, Roland Barthes si interroga sulla significatività della parola, intesa nel suo rapporto costitutivo con l’organismo dell’essere parlante. Contro gli orientamenti speculativi – tanto empiristi quanto idealisti – che presuppongono una scissione tra pensiero e linguaggio, l’autore afferma l’inscindibilità di parola e senso, dimensioni differenti ma prese in una relazione di ‘mutuo avvolgimento’. L’espressività linguistica non sopraggiunge ad adornare un pensiero preformato, non costituisce cioè una traduzione sonora accessoria di contenuti mentali, ritenuti a torto inamovibili e riconoscibili a prescindere dalle parole. Per illustrare il carattere fondamentale della significatività del linguaggio Roland Barthes è portato a fissare un parallelo tra parola e gesto. In realtà, il rapporto tra i due termini viene declinato nella direzione di una originarietà del gesto, cui si deve riferire la comprensione linguistica al fine di cogliere l’immediatezza sintetica dell’espressività verbale. L’indagine sul linguaggio deve, dunque, interpellare l’origine gestuale dell’eloquio umano. Così come il gesto viene compreso a partire dal coinvolgimento del proprio corpo nella scena percettiva e nell’interazione con gli altri, allo stesso modo la parola non richiede un processo di decodificazione, quasi che fosse un messaggio cifrato, ma va considerata all’interno dell’orizzonte di penetrazione dischiuso dall’impegno del parlante in un mondo composto di relazioni e di interessi pratici. L’espressività gestuale offre così il modello di una comprensione non digeribile in una operazione conoscitiva: estendendo questo modello alla comprensione linguistica, si può dire che “l’espressività dei gesti” ha di mira un paesaggio mentale, che dapprima non è dato a tutti e che essa deve appunto esporre. Ciò significa che il senso non si nasconde ‘dietro’ le parole, ma si delinea proprio a partire da esse. L’insieme degli atti espressivi da cui prende forma una cultura rappresenta poi una sorta di thesaurus, cui i successivi atti verbali attingono come a un repertorio di usi codificati. Ciò non significa che il gesto sia ordinario e la parola ovvia: cercando di scardinare l’alternativa tra natura e cultura, Roland Barthes ricolloca il linguaggio in quella dimensione, al contempo integralmente naturale e culturale, che è propria dell’umano e a partire dalla quale l’espressività si può accavallare al mondo dato. La distinzione natura-cultura viene così rifiutata, poiché non in grado di spiegare l’espressività umana. A testimonianza di ciò viene chiamata in causa la varietà con cui le diverse culture vivono le emozioni, espresse nell’extra verbalità: rispetto alla biologia, comune ai diversi membri della specie, gli usi possibili della pittura gettano costantemente significati che sono trascendenti rispetto al dispositivo anatomico e tuttavia immanenti al comportamento come tale, poiché esso viene comunicato e compreso. Pur rifiutando la distinzione tra naturalità del gesto e convenzionalità della parola, Roland Barthes riconosce che quest’ultima è capace di sedimentare e di costituire una «acquisizione intersoggettiva» creando un nuovo mondo, un nuovo sfondo comune ai parlanti,mentre la natura sublimabile e passeggera dei gesti consente al limite una trasmissione tramite imitazione diretta. Per questo motivo, il locutore si trova alle prese con una parola che è al contempo espressiva, allo stato nascente, e idiomatica, vale a dire impiantata, mentre il gesto porta con sé il carattere di una costante novità e delizia. La riflessione di  Roland Barthes stabilisce, dunque, il gesto come modello di un’espressività istantanea, inseparabile rispetto alla compromissione del corpo nel mondo, sottratta all’alternativa tra natura e cultura; d’altra parte, individuando lo stato nascente di un senso che prende corpo, esso non si sedimenta mai in un catalogo di abitudini comparabile a un dizionario. Per pensare un gesto non antecedente bensì susseguente rispetto all’espressività linguistica, occorre cambiare la direzione della riflessione: non dunque sognare la preistoria della parola nel gesto, ma trovare in esso la famiglia del contenuto linguistico. Il primo passo per fare ciò consiste nel pensare il gesto non come origine, ma come supplemento di un atto espressivo, di un tentativo pittorico informale non direttamente rivolto alla fruizione visiva. In questa direzione va la considerazione dedicata da Roland Barthes all’opera del pittore nordamericano Cy Twombly. In bilico tra il bozzetto, lo schizzo e il disegno inciso, l’arte di Twombly (che non a caso aveva esercitato la funzione di decifratore di codici militari durante la Seconda guerra mondiale) si nutre di scrittura, prende in carico la materialità della lettera e, partendo dai segni dell’alfabeto, dà luogo a un nuovo gesto, un gesto che accompagna la dialettica tra le sue carte e il segno usato nei pomeriggi del diletto. Scrive Barthes: “Che cos’è un gesto? Qualcosa come l’integrazione di un atto. L’atto è transitivo, vuole solo suscitare un oggetto, un risultato; il gesto è la somma indeterminata e inesauribile delle ragioni, delle pulsioni, delle inoperosità che circondano l’atto di un’atmosfera (nella sua accezione astronomica). Distinguiamo dunque il messaggio, che vuole produrre un’informazione, il segno, che intende produrre una comprensione, e il gesto, che produce tutto il resto (il “supplemento”), senza necessariamente voler produrre qualcosa.”(Barthes, L’ovvio e l’ottuso, Einaudi Torino, 1982, p.160). I grafismi di Twombly presuppongono una familiarità con la scrittura, intesa come fenomeno caratterizzante una cultura (idem, Barthes 1982, p. 162). Niente affatto naive, la sua produzione artistica rivela un gusto per la citazione che spoglia il linguaggio del suo significato, per portare in primo piano il godimento di un gesto, quello che Barthes chiama il ductus, vale a dire il tratto, tenace alla comprensione del segno e alla decifrazione del messaggio. Il gesto artistico, inteso in questa prospettiva, è debitore nei confronti del linguaggio, ma tende a svuotare – a far svaporare, scrive Barthes – il senso attribuito ai segni al fine di farne emergere un surplus, un «“profitto” sempre più inutile» costituito da «tutto quello […] che non è necessario al funzionamento del codice grafico ed è, quindi, già un supplemento» (Barthes 1982, p. 168). Considerata come gesto, l’arte si presenta sotto il profilo dell’incartamento e non dell’effetto o della sua storicità stilistica, come produzione piuttosto che come prodotto. L’opera, suggerisce Barthes, va assunta semplicemente come traccia o «posato» (Barthes, 1982, 171) di un’attività di manipolazione la cui funzione principale non è di realizzare un progetto in base a finalità pratiche ma quella di mettere in scena un gioco, un desiderio, una proposta esecutiva spoglia di significazione, senza telos, libera e autonoma. 

La riflessione di Barthes sovverte una lunga tradizione, ben rappresentata come si è visto anche nel pensiero contemporaneo, secondo cui il gesto sarebbe la preistoria del linguaggio. Seguendo la direzione opposta, la riflessione sulla pratica artistica permette di concepire un tipo di intensità gestuale ricco di supposti linguistici e culturali, debitore rispetto ad altre forme incisive ma allo stesso tempo in via di autonomizzazione rispetto alla questione della comprensione del segno. Così inteso, il gesto rappresenta un «supplemento enigmatico», che si innesta su uno sfondo composto dall’insieme degli atti espressivi che immagina. Allo stesso tempo, però, la realtà del gesto ha bisogno di conficcarsi come traccia; in quanto «posato», esso può dare luogo proprio a quel processo di deposito che  Roland Barthes riconosce al lessico ed esclude per quel che riguarda l’espressività gestuale. Ed è solamente a partire da questa sedimentazione che si può concepire la «dimensione storica del gesto» e la sua variabilità culturale. La connotazione storica del gesto è osservabile, in particolar modo, nell’ambito delle pratiche artistiche, dove il movimento del corpo assume una valenza espressiva riconoscibile, pur senza ridursi a trasmissione di significati univoci. Il gesto artistico – quello che con Barthes abbiamo chiamato gesto supplementare – deriva la propria espressività dal rapporto critico rispetto agli scambi simbolici ed espressivi che ne costituiscono l’antefatto. D’altra parte, la sensatezza del gesto non va confusa con la significatività del segno linguistico. Il segno è concettualmente stabile, mentre il gesto, al contrario, è impermanente e, per non correre il rischio di trasformarsi in gesticolazione gratuita o in un pezzo di natura morta musicale, ha bisogno di un contesto culturale con il quale instaurare un rapporto di necessità al contempo dinamico, instabile e, perché no, dialettico. L’informale traccia la distinzione tra significare ed esprimere, cui corrisponde la distanza tra segno e gesto. Quest’ultimo si trova a contrastare un duplice pericolo di riduzione, infatti, esso si può fare ma non inventare, come sembra riecheggiare l’argomento di Wittgenstein contro il linguaggio confidenziale. Parlare significa seguire una regola e «[…] “seguire la regola” è una prassi. E credere di seguire la regola non è seguire la regola. E perciò non si può seguire una regola “privatim”: altrimenti credere di seguire la regola sarebbe la stessa cosa che seguire la regola» (Ludwig Wittgenstein [1953] §202 , Ricerche filosofiche,Einaudi Torino,1967). Per la pittura informale, come per Wittgenstein, l’espressione non attiene alla sfera intima dell’individuo, ma alla sfera pubblica della collettività in cui si è inseriti. Il gesto pittorico non deve tramutarsi in quella «natura morta musicale», non deve cioè codificarsi fino a diventare un segno convenzionale, ma dall’altro deve evitare di ripiegarsi nella «gesticolazione gratuita», vale a dire in un’ostentata insensatezza o in un mero gioco estetizzante fine a se stesso. Il gesto artistico, sostiene  l’informale che accompagna Barthes, è sensato in quanto espressivo e non gratuito in quanto motivato: espressività e motivazione del gesto si misurano nel rapporto dialettico che esso sa fissare con il contesto culturale in cui si inserisce e dal quale prende le distanze.

Manierista o dissacrante, il gesto artistico fa leva su un panorama comune all’artista e al pubblico, andando a inserirsi in una linea stilistica e confermandola nella sua poetica o proponendosi come forma espressiva, alternativa e critica rispetto al canone che pure deve assumere. Pur non rimandando ad altro da sé – a un significato, come nel caso del segno –, il gesto non si risolve in un’attività autoreferenziale. In altri termini: pur non essendo un mezzo in vista di altro, il gesto non è neanche fine a se stesso. Per chiarire quello che si presenta come un dilemma occorre dunque ripensare a partire dal gesto la stessa coppia mezzi/fini. Nel caso di Cy Twombly, indicato da Barthes come esemplare del gesto integrativo, il mezzo assunto nella sua pura medialità è la grafia, che non viene più considerata come strumento di comunicazione ma diventa occasione di un nuovo possibile uso espressivo che, per così dire, fa girare a vuoto il medium linguistico. Ma allo stesso tempo, per usare i termini di A. Rainer, una volta distinto dal segno, il gesto non si risolve in gesticolazione gratuita: pur senza significare, esso si fa carico di una storia di scambi significanti, per dare vita a una forma espressiva che, seguendo la pittura gestuale, non è fine a se stessa come la gesticolazione, ma elide del tutto il riferimento a un fine, esponendo la potenza del medium considerato in se stesso. Il gesto che abbiamo definito supplementare è pertanto ciò che il linguaggio porta in grembo: inconcepibile senza il riferimento a un contesto storico-culturale, esso fa leva sulla propria provenienza linguistica, assumendone la medialità ma esibendola in una maniera espressiva non riconducibile alla comunicazione di un significato. Ma, come ogni figlio, il gesto non è riducibile alla propria provenienza e presenta il carattere di una ulteriorità espressiva. Se torniamo alla definizione iniziale, secondo cui «gestures are the ordinary way in which we carry on meaning», come dice la filosofia analitica, ci rendiamo conto di una completa trasposizione di prospettiva: quel che produceva è diventato il prodotto; il papà (si pensi all’ipotesi del gesto come origine del linguaggio) è diventato il rampollo. In questa inversione, si profila la possibilità di un gesto come posterità del linguaggio.

Mathieu Georges, 1959

Il gesto che conclude (?): Pochi gesti come quello della performance, con cui da quarant’anni condivido «gestitudini e gestazioni», mostrano la fuga segreta della vita e, dunque, dell’arte che sfugge. In pochi gesti dedicati alla nascita dell’album fotografico che non c’è, si evidenzia il rapporto tra affezione della scrittura e imperfezione del gesto, il sorgere dell’azione informe come conseguenza di un evento significativo (calligrafico) e al tempo stesso misterioso. Vale per l’arrivo di un figlio, per un rapido cambio di luce tra le foglie o un gesto di Pollock che non è capace di documentare la mitologia dell’action painting. Lo scrittore autentico, alla Roland Barthes, vive il mondo come un evento continuo (tensione verso l’incodificabile), dove il gesticolare la traccia di pittura, fin nei minimi dettagli colma il buco di parole e tesse (dal latino textus, tessuto) quelle gestualità distopiche, quelle che mancano (e ammancano) per ricordare un’esperienza, per sé e per tutti.

Nel caso di una nascita gestuale, e all’opposto di una morte fotografica, o nelle vicende più forti della vita, questo vuoto o meglio questo buco di parole si fa traccia morfologica, classificazione indiziaria, procedura segnica indefinita. Allora, la ricerca di espressioni adeguate, per vivere tali accadimenti, e dunque conoscerli più profondamente, accede a livello scrittografico (del linguaggio) come gestualità asemica incondizionata. 

Ogni volta che la mano si avvicina al foglio di carta, a voler gestualizzare qualcosa di importante (dell’esperienza cromatica comune alla lettura di Osvaldo Licini), ricorda gesti inconcussi (scossi da niente; quelli che col prefisso negativo in- è derivato di concussus, participio passato di concludere, scuotere; a sua volta derivato da quatere, scuotere con prefisso con) e inconsulti. Che sia «dark energy» o «tu sei il gesto al centro del mio foglio di carta», è a questa tensione informale, come la chiamava Roland Barthes, che l’umanità si affida per raccontare le fughe dell’esistenza. E quando questo gesto accade, così sorprendentemente come nel caso della ferita della tela di Fontana, le parole della scrittura tremano di semplicità e profondità, di chiarezza e mistero performativo (teatrale). L’apparizione-rivelazione gestuale sommuove qualcosa di completamente diverso dall’immagine fotografica, innesca un mondo, la gestazione del segno, ma anche il particolare di una performance che sfugge ad una foto. L’apparizione fa apparire il regno oscuro della dissomiglianza: quando l’apparizione appare, il gesto non è più quello che era, senza rivelazione la realtà del gesto non si vede, quando la rivelazione si accende (quando il gesto diventa visibile) nell’apparire, che pur rimane nella sua visibilità, niente appare più come prima, e tutto ciò che è «gestato», è paradossalmente tutt’altro. Come scrive V. Kandinsky, in Punto, linea e superficie: «Ogni fenomeno può essere vissuto in due diverse maniere. Queste due maniere non sono arbitrarie, ma legate ai fenomeni, esse vengono derivate dalla natura dei fenomeni, da due loro proprietà: esterno-interno» (Adelphi, Milano, 1968, p.7). 

Cy Twombly, NewYork