Arco Madrid 2025
Gabriele Perretta,Se la finestra fosse aperta ..., Umbria 2019

Il film si farà …

Il film si farà …
Seconda parte (Frammento primi anni 2000)
Gabriele Perretta su “Farabutti”

Quell’immagine di doppiezza, tuttavia, ci riporta a un altro film di Ezio, Farabutti, girato tra il 2004 e il 2005. I rimandi al film successivo sono evidenti: innanzitutto il protagonista è interpretato dallo stesso attore, Raimondo Rovigo il cui nome, in L’oro grigio 2, è Clarence, che in Farabutti si trasforma nel cognome dello stilista. L’associazione dei due nomi non è solo una coincidenza, ma sembra determinare anche l’atteggiamento dei due protagonisti e la loro personalità. Entrambi, infatti, sono dei grandi seduttori, che ingannano le donne per ottenere ciò che desiderano: se in D (un personaggio) , C. riuscirà, attraverso l’amante, ad entrare nella banda del gangster, in Farabutti, C., in un momento di crisi artistica, troverà nella giovane Mich… la propria fonte di ispirazione. Entrambi, grazie alle loro doti seduttrici, usano la donna per le proprie esigenze, senza alcuno scrupolo: in D… la donna, dopo aver tradito il fratello gangster, sparirà senza poter tornare con l’amante, in Farabutti lo stilista cercherà di fare altrettanto. A questa prima comunanza, si può aggiungere il fatto che i due protagonisti, inoltre, sembrano essere avvolti in un velo di ambiguità, tanto da impedire allo spettatore di comprenderne il carattere. Inizialmente M. sa che C. sta facendo il doppio gioco, tanto che i due si passano le informazioni utili alla cattura del gangster; ma dopo l’uccisione della compagna della vittima, di cui è complice anche C…, l’uomo mette in dubbio la fedeltà dell’amico e teme un possibile tradimento. Il poliziotto sembra così aver mentito all’amico, e solo alla fine si scoprirà che mai era stato tentato di tradire il compagno e la polizia. Allo stesso modo il protagonista di Farabutti finge, di fronte all’amante, di non essere innamorato di lei e di averla solo usata: ma l’ambiguità dei sentimenti dell’uomo saranno sempre incomprensibili allo spettatore, anche nel momento in cui si getterà dalla finestra. La digressione sul film seguente nasce dall’esigenza di sottolineare il rapporto che Ezio instaura con il mezzo cinematografico. Per il regista, quello che scorre sullo schermo è finzione mediale, è qualcosa di costruito dalla mano di un cineasta che vive nell’universo dell’informazione e naviga nella vasta area della rete; anche il ricorrere a continui rimandi tra un film e l’altro, ci dà la sensazione di essere di fronte a uno spettacolo nel quale il regista inserisce la storia che vuole raccontare. Il film riscuote molto successo e tutta la critica comprende la forza e l’originalità della sua messa in scena.

Molti registi amano assistere alla rappresentazione delle loro commedie grottesche. Essi passano le sere nascosti dietro le quinte, e se qualcuno li scopre e li avvicina, fingono di trovarsi lì per tener d’occhio il vecchio Voyeur che fa la parte del direttore della fotografia o per decidere se sia il caso di tagliare una battuta alla fine del secondo atto. Ma – la pellicola digitale li benedica – essi sono lì solo per divertirsi, per trangugiare bottiglie di whisky, hashish e cercare di arrivare al popolo. Io non sono uno di loro. Una volta che la commedia fili, cerco di tenermi lontano da queste orge visive da società dello spettacolo; anche perché ho seguito da tanto da vicino il lavoro durante il periodo delle prove, ed ho assistito così attentamente alle prime rappresentazioni, che ne sono stufo e voglio pensare a qualcos’altro. Se si tratta di un lavoro serio, è probabile che ne sia irritato piuttosto che commosso ; se è una deformità, vedere e sentire ridere il pubblico non mi fa compiacere del mio spirito, ma fa nascere in me sentimenti di indignazione, pari a quelli di Walter Benjamin, quando si trova a scrivere L’autore come produttore. Questo non è, quindi, per me, un momento felice, ma forse un momento rivoluzionario. C’è chi dice che l’aggressione serve per superare l’orizzonte del cinema profano. Il momento felice viene molto prima, durante le prove, così come nel Sabato del Villaggio. Dopo la prima lettura, che è interessante piuttosto che piacevole, ci si trova alle prese con le azioni e con la recitazione ; un vero e proprio happening filmico ; gli attori mettono da parte i copioni e cercano di ricordare le battute a memoria, oppure improvvisano, e tutto ciò è per l’autore come condurre un comitato politico di base attraverso una vertenza sindacale. Ma poi, se si ha fortuna, giunge un momento in cui all’improvviso, miracolosamente, la commedia è viva. Non vi sono scene, né luci, né costumi, né trucco, né scene preconfezionate, pure la commedia è forse più viva di quanto potrà mai essere in seguito una sterile sequenza di fotografie. Si dimenticano i fotografi che stanno ancora chiacchierando e trafficando sul set ed i rumori provenienti dal ridotto. Si dimentica il frastuono della strada, si dimentica che il teatro ci è stato noleggiato soltanto fino alle cinque e che non si ha ancora un set dove rappresentare la sceneggiatura. Si dimenticano tutte queste parole perché sta accadendo un miracolo. Il direttore di scena ed il suo aiutante, seduti al solito tavolo, intenti a fare annotazioni sul copione del suggeritore, scompaiono dalla nostra coscienza, mentre, sullo schermo del computer, compaiono direttamente personaggi, attori, set fotografici e scene rielaborate in maniera mediale, arrivano le virtualizzazioni del web in tempo reale. Le orribili luci del set non esistono più: appaiono, invece, strane albe e meravigliosi tramonti. I tracciati digitali e le progettazioni virtuali si trasformano in pareti, tavoli e divani usabili. La signorina fotografa con il suo vestito più vecchio, i capelli in disordine, il volto scarno e la carnagione giallognola, si trasforma nell’ambigua creazione della fantasia digitale. Il giovane algoritmo – che ci è apparso finora come un fumetto rozzo e mediocre – d’un tratto diventa un pittore bravissimo e brillante.

Nel suo libro Cinema Italiano, scritto a ridosso della fine del conflitto, Ricciotto Casnado si unisce al coro di consensi: «l’histoire était amusant, et en depit d’un début assez confus, mené par des auteurs et un metteur en scène qui ne semblaient pas posséder encore bien en mains tous les fils de leurs marionnettes, on était bientôt pris par ces personnages dont la vie, sur l’écran, semblait parfaitement sincère et véridique…». Se Vigonti pone l’accento sul modo di concepire il personaggio, che ritroveremo lungo tutta la sua opera, Francesco Vinnegli si sofferma sulla scrittura cinematografica del regista: «Il film di Ezio è un edificio memoriale dal profilo possente e al contempo percorso da crepe e venature profonde. In questo luogo concreto, la memoria recinge un pomerio cronologico gremito di avvenimenti, che si rincorrono e intrecciano da un orizzonte privato alle tragiche vicende storiche contemporanee: dalle guerre nei Balcani alla strage dell’11 settembre. Speculare in questa scansione binaria, tra pubblico e privato, è anche la traduzione del mito classico in una dimensione biografica e quotidiana e la simultanea dilatazione di nomi, persone e luoghi cari e amati, in sequenze leggendarie sostenute da uno sguardo e un accento … . Alla varietà ed ampiezza dei temi trattati fa da riscontro una strumentazione altrettanto assortita di inquadrature. Il sigillo comune è, sul piano formale, nella pratica di un meditato trans-medialismo, vero e proprio marchio di fabbrica di tanta parte della più avvertita multimedialità romana degli ultimi decenni. È in questo stampo collaudato che si riversa quel sentimento doloroso e luttuoso di perdita e di lacerazione. Tuttavia è proprio da questa terra di silenzio che la parola cinematografica si innalza, si eleva, oltre la smemoratezza e l’insensatezza del nostro tempo, sublimandosi in una pietas che si deposita teneramente come un polline sopra ogni cosa: passato e presente, pubblico e privato, ferite e speranze, in un’unica umanissima testimonianza di verità e di amore. Ed anche in ciò risiede, a ben riflettere, una memoria vitale e fertile: quella di una lingua fotografica tutta costruita sull’invenzione (nel senso etimologico del termine: di scoperta), ma sempre prossima ai temi fatali che l’immagine non può eludere: il tempo e l’amore, la vita e la morte. Una tradizione a cui, lungo gli anni ottanta, la giovane cinematografia romana, alla ricerca di modelli ed esperienze autentici e spendibili, seppe attingere nello spazio fraterno e intellettuale di riviste-cenacolo. Da questa sorgente è scaturita un’ispirazione cinefila tra le più vive e significative del nostro tempo, capace di identificare lingua e foto in un messaggio che ha sempre per oggetto, nei suoi risvolti drammatici e felici, la vicenda umana. Questa particolare ispirazione non ha mai cessato di nutrire l’immagine di Ezio; se ne ha un riscontro puntuale in questi ultimi fotogrammi ogni qual volta una memoria presaga – che è l’atto concreto e significante di quella ispirazione – confonde la propria voce con quella di altri indimenticabili poeti, per ritrovarvi la nota di fondo su cui innestare una propria consapevole autonomia. Un simile modus operandi è rintracciabile nel tessuto, e particolarmente negli incipit di molti fotogrammi, ora nella percezione nitida e drammatica di un accordo riconoscibile, ora nell’immagine di una diversità. Un celebre esordio, sfolgorante di simbologia primaverile, che incornicia l’evento natale, viene rovesciato nell’antipodo di una nascita autunnale, segnata dunque dal tempo oscuro della fatica del set e dell’attesa. Cosa ci dicono di importante queste trame filmiche, una nell’altra? Che il cinema di Ezio … nasce da uno studium; filmicamente, da un desiderio che si fa passione di ricerca, rilettura e ascolto di voci migrate, da cui attingere il seme di una memoria che passa attraverso il Male mortale, il lutto, il dolore, la fatica e la prostrazione. Ma quella stessa passione desiderante, che attinge a una profondità di sguardo capace di comprensione non si arresta, ma tende incessantemente verso un’altezza, dove il Male lascia il posto alla Speranza, al “prodigio” di una forza trasfiguratrice e magica con cui il cinema ci riporta sulla soglia di un Tempo immobile e arcano dell’Autore come produttore. Il cinema è anch’esso un volo. Non un “folle volo” ubriacato dalla vertigine di una superbia intellettuale, ma dal lievito di un dramma nutrito di umiltà e purezza, di perseveranza e fedeltà alla memoria e alle ombre amate e affabili. Angeli in sedicesimo, buffi ippogrifi eternamente convergenti nei domini favolosi del sogno, manifestazioni irriducibili di una dimensione cultuale dell’esistenza, nonostante l’ottusità di una contemporaneità sconsacrata. E ancora: sentinelle in perpetua veglia; le ingenue voci sono un emblema perfetto della resistenza dell’immagine sulla letteratura. Non a caso sono “voraci d’erbette e ortiche tra i singulti e l’ortica è a sua volta un simbolo di agonistico slancio vitale. Nel sogno – meglio: nel “fingere un sogno”, opera dunque razionale e lucida della coscienza, come sappiamo dall’esperienza leopardiana dell’Infinito: io nel pensier mi fingo… – il cinema fonda un tempo diverso magico e memoriale, in cui la comunione dei morti con i vivi continua incessantemente ad avvenire, a farsi luogo concreto e leggendario … 

Un fotogramma può darcelo, anche un fotogramma senza alcun interesse personale. Non ricordo quando e dove vidi per la prima volta il fotogramma di Mia Madre da giovane, che la signora del quarto piano conserva, ma so che da allora essa non ha mai mancato di arrecarmi gioia, dovunque. In quella posa, con gli occhi socchiusi, la mano destra che stringe l’usb, il naso all’insù, perfetto nella sua buffa imperfezione, Ella è senza dubbio molto bella, si tratta di mia figlia, una fanciulla impareggiabile. Ma questo non è che il principio. Senza dubbio la lunga curva del collo e delle spalle, che la luce mette in rilievo, è squisita. Non sono però i valori estetici ad operare la magia di Aura, ma il fatto che qui abbiamo di fronte un intero film, all’improvviso, la gioventù di colei che gli uomini della mia generazione non sanno pensare che nella sua vecchiaia; ed eccola, quella celebrità, com’era circa trent’anni prima che io nascessi. Ella non è soltanto Aura da giovane, o il piccolo scervellato direttore della fotografia che l’ha ritratta, è la Madre stessa, la sua anima nascosta dietro quelle palpebre pensanti, mistero, sfida, tormento, consolazione di una paternità e non di un fotografo parricida. Eppure, non sarebbe stata la stessa cosa se invece di una fotografia fosse stato un quadro o un disegno, la visione di un altro occhio. Allora sarebbe stata prima e non settima arte, ma, questa, per quanto artificio ci sia stato nella posa e nell’uso della macchina da presa, è pur sempre un documento obiettivo, della mia Aura. È lei come era in quel giorno, e non come cantava nell’immaginazione di qualcuno; è lei che al di là della nuova oggettività si produce nel frammento stesso dell’Aura. Una fotografia, una giovanissima fotografia, presa molto tempo fa, nata con il suo spessore critico, con la sua tensione, con la sua Aura, e tutti coloro che per primi l’ammirarono, sono morti dopo il Concilio di Nicea. Essa ci parla di una giovane età aurea della fotografia, di un Antico Regno dell’Aura, puro e massiccio di lenti e di lastre, di luci autunnali e di ombre color seppia che testimoniano della nascita di gennaio. E tutti questi fatti e tutte queste immagini dell’Aura, non riconosciuti là per là, ma scoperti e individuati per analisi, per scritture dell’autore come produttore, si affollano con furia alla mente quando i nostri occhi incontrano questa fotografia, dandogli un brivido di coinvolgimento e di allegria».