Non vorrei esagerare, come spesso faccio, ma la formula “paesaggio italiano” credo sia una questione ancora da analizzare. Perché, a differenza di altri stati, l’Italia ha alcune – diciamo così – incisive “riflessioni” sul tema del paesaggio. Incisive e inascoltate.
La più importante “riflessione”, almeno per i cittadini che credono nella democrazia (e me lo auguro, che ci credano, in questi tempi di iniziative immorali), è quella fissata nell’articolo 9 della Costituzione.
Nel seguente articolo, che possiede un aspetto talmente laconico da non poter essere sottoposto a interpretazioni fantasiose o inconcludenti, il verbo che sta accanto al sostantivo “paesaggio”, che qui riporto all’inifinito presente, è “tutelare”.
Tutelare, se lo cerchiamo sul dizionario etimologico, ha un’indicazione ben precisa: significa “guardare”. E, per essere ancora più precisi, si tratta del “guardare” con cura, cioè proteggendo l’oggetto percepito dai nostri occhi.
La Costituzione è stata approvata e promulgata, lo sanno anche le pietre, nel dicembre del 1947, ed entrò in vigore nel gennaio successivo. Eppure, circa quattro lustri dopo – quattro lustri! –, vennero pubblicati in Italia, a distanza di un paio d’anni l’uno dall’altro, i più importanti libri sullo studio del paesaggio.
Gli autori di questi libri erano Rosario Assunto e Antonio Cederna, e i titoli, rispettivamente, suonavano così: Il paesaggio e l’estetica; La distruzione della natura in italia.
Entrambi i volumi, se li leggessimo oggi tenendo a mente la pluricitata formula “paesaggio italiano”, non solo approverebbero quanto all’inizio della recensione scrivevo con un pizzico di fastidiosa superbia, ma offrirebbero la triste testimonianza di un crimine che nella Penisola è stato perpetuato per decenni, rimanendo, salvo rarissimi casi, immune.
Oggi, per parlare di paesaggio (e non dico di natura, che è molto più complesso, talmente tanti sono i suoi camuffamenti culturali), ritengo sia opportuno attraversare le selve della metafora, dell’onirico e dell’ironia se è il caso.
Ora, se non vado errato, è proprio questo lo “schema” che Silvia Camporesi (Forlì, 1973) attua per costruire il suo nuovo atlante italiano, nato dopo un viaggio di due anni per il Bel Paese.
La mostra tenuta alla galleria Plenum di Catania, curata da Massimo Siragusa, è ipoteticamente suddivisibile in tre aree. La prima esordisce con uno scorcio siciliano, che inaugura il percorso del fruitore da una visione confusa, offuscata dalle fronde di alberi inselvatichiti. Questa prima scena cede il passo a tre ampie visioni, che rendono la seconda area un luogo a sé, in cui l’eco delle luci di tali foto creano un unico discorso, arricchito dall’alternanza dei soggetti. La terza area, infine, che vanta una piccola appendice in una quarta parete, in cui la Camporesi pare compiere l’epilogo del suo viaggio, è una costellazione di abbandoni, di frammenti… o di frammenti in abbandono. Nulla di più metaforico, a riguardo del cosiddetto “paesaggio italiano”.
Atlas Italiae | Silvia Camporesi
a cura di Massimo Siragusa
Plenum – Fotografia Contemporanea
Via Vecchia Ognina, 142/b – Catania
www.plenumgallery.com