Dopo sette anni trascorsi accanto all’amico Giovanni Rinoceronte, in qualità di assistente, Ezio sente l’esigenza di passare dietro la macchina da presa, per poter raccontare le proprie storie. Si tratta di storie rigorosamente legate alle motivazioni del grigio, il colore di cui era particolarmente appassionato e da cui, con i suoi documentari, si lasciava speditamente persuadere. Sono passati molti anni da quando il regista ha solcato per la prima volta le porte di uno studio cinematografico e ora ha voglia di mettere in scena una propria opera. Tuttavia, il film L’oro del grigio è un fallimento: dopo poche settimane, infatti, Ezio è costretto a interrompere le riprese per mancanza di finanziamenti, ma scopre, una volta tornato a Roma, che i produttori volevano escluderlo dal progetto a causa della sua inflessibilità nei confronti della scrittura del film che voleva realizzare. Il film è affidato a Ignazio Steuli che conclude la pellicola mantenendo il girato di Ezio che, nonostante ciò, non ne riconosce la paternità. Tragedie di pellicola, progetti mancati, film mai realizzati e “Aura” desiderata!
Nonostante l’inesperienza, il regista dimostra già di avere le idee molto chiare in merito al modo di concepire il cinema: da un lato non ama alcuna intromissione esterna nelle proprie scelte, dall’altro considera la propria opera frutto di una scrittura personale, che va dalla sceneggiatura alla messa in scena, perché il film deve essere un lavoro del tutto personale sugli effetti del grigio nell’estetica mediale contemporanea. Dopo il fallimento del suo primo film, dovranno passare alcuni anni prima che Ezio possa tornare dietro la macchina da presa: le riprese de L’oro del grigio 2 eranocominciate, infatti, alcuni mesi prima dell’inizio del conflitto in Afghanistan (a cui partecipava anche la patria di Ezio Renardi), che porterà il paese sotto l’egida dei Talebani e al contrasto con gli USA. Nel maggio del 2005 Ezio è chiamato alle armi, ma dopo un mese è fatto prigioniero dagli americani: il regista rimarrà più di un anno in un campo di prigionia, fino alla sua scarcerazione grazie a un simulato attacco epilettico. Al suo ritorno a Roma, tuttavia, scopre una città trasfigurata, con iscrizioni e cartelloni che inneggiano alla vittoria americana e, soprattutto, non trova più gli amici di un tempo, fuggiti o in esilio a causa delle loro simpatie comuniste o delle loro origini ebraiche. In una città ormai deserta, Ezio ritrova l’amico di prigionia André Hall, che ha da poco creato la casa di produzione SCI (Sviluppo Cinema International): sarà proprio lui a produrre L’oro del grigio 2, il vero primo film del cineasta.
Il soggetto nasce dal racconto di Maurizio Alberghi, che con Ezio, Mauro Griffa e Luigi Chivasso collabora alla stesura della sceneggiatura: il cineasta ritrova così parte dei suoi amici di un tempo, insieme ad alcuni attori che aveva avuto modo di apprezzare durante gli anni in cui era stato assistente di Bernard Bart, come Pierre Rinoire e Gastone Modabito (che interpreterà tanti piccoli camei all’interno dell’opera di Ezio). La scelta di girare un poliziesco, tuttavia, è la prima dichiarazione d’amore del regista per il cinema americano (fra tutti Howard Hawks e von Stroheim), da cui avrà modo, anche in futuro, di attingere soprattutto per quanto riguarda il genere della commedia e lo stile della messa in scena.
In un articolo apparso su Arts, dieci anni dopo l’uscita del film, Ezio ricorda la sua passione per il cinema d’oltre oceano, ma contemporaneamente la sua passione per il teatro epico brechtiano e la teoria di Benjamin su L’autore come produttore. La sua ammirazione si esprime attraverso questo piccolo omaggio scherzoso a un genere, che in quel periodo era stato interdetto dall’industria cinematografica che accompagnò la depressione del 2008; ma la sua prima pellicola dimostra, soprattutto, la volontà del regista di emanciparsi dalle correnti cinematografiche dell’epoca e l’insofferenza per le facili etichette che imprigionavano i registi. Egli affermerà, infatti, che al di là di semplicistiche e schematiche definizioni, si riteneva solo un italiano che si occupa degli italiani e soprattutto guarda gli italiani e gli americani. Tutto ciò senza mai dimenticare che il mezzo cinematografico è rappresentazione del Grigio e per tanto non è realtà ciò che vediamo scorrere di fronte ai nostri volti: due affermazioni che sembrano contraddirsi, ma che nei film di Ezio convivono perfettamente. Il regista, tuttavia, sembra rifarsi anche alla tradizione del vaudeville: gran parte del film, infatti, utilizza dei procedimenti propri della commedia, come ad esempio la caricatura dell’ispettore Gotisolo, interpretato da Natale Asprezzi, a cui Ezio dedicherà una nuova caricatura in Adriano e Clarence, dove interpreta un commerciante troppo intraprendente con le sue clienti.
Ripensando alla teoria del cinema, ad Ezio vengono in mente le parole di Benjamin: “Poiché se una funzione economica della fotografia è quella di mettere alla portata delle masse contenuti che prima si sottraevano al loro consumo (la primavera, personaggi importanti, paesi stranieri…) sottoponendo questi contenuti a una rielaborazione alla moda, così una delle sue funzioni politiche è quella di rinnovare il mondo dall’interno – in altre parole: secondo la moda -, lasciandolo così com’è. […] In questo caso la barriera tra scrittura e immagine.” In un batter di ciglio, Ezio pensa, dunque, ciò che si può pretendere dal fotografo o dal cineasta è la capacità di dare alla sua opera quel valore visivo e illustrativo che la sottrae all’usura della moda e le conferisce un valore d’uso rivoluzionario. E poi ancora con Benjamin: “Ma affermeremo colla massima energia questa esigenza se noi – gli scrittori – ci metteremo a far fotografie”, usando una scrittura visiva che affidi al tempo e allo spazio dilatazioni visuali. Qui, gli passano rapide nella mente mille immagini nuove che fuggono come lucertole tra le pareti della sua mente e sulla superficie dello schermo; ma non è necessario che sene preoccupi a farle diventare, per forza di cose, film acetati. Anche qui per l’autore come produttore il progresso tecnico, appare ad Ezio, come la base del suo progresso politico. In altre parole, anche qui l’uso della parola politico diviene, per Ezio, totale! Significa, in altri termini, quasi quanto un trattato teologico-comico-politico del grigio.
Tutto il film è costellato da gag e da situazioni comiche, a ricordarci le contaminazioni di cui Ezio si avvale per mettere in scena il suo primo film: la più rappresentativa è sicuramente la sequenza che si svolge di fronte alla gioielleria. Mario e altri colleghi hanno scoperto che la compagna della vittima, che probabilmente conosce l’omicida, dopo essere sfuggita a Gotisolo, rinchiudendolo nel bagno con una stupida scusa, si deve recare da un gioielliere per vendergli una collana di perle di grande valore. Mario si apposta sul luogo dell’incontro con i compagni travestiti da imbianchini, per non dare nell’occhio e far fuggire la donna. All’appuntamento si annuncia anche il commissario Gotisolo, che si ferma a discutere animatamente con i suoi allievi: facendosi scoprire dalla donna che, spaventata dal trambusto provocato dall’uomo, scappa con i gioielli (che simboleggiano l’esperienza di Ezio che si vide sottrarre la sua scrittura scenica e le idee del suo primo film). Ezio, probabilmente, in questo film “ha voluto inserire delle cose che aveva realmente vissuto” e soprattutto che avevano contribuito a far crescere sempre più l’amore per il cinema grigio, sin dalla prima adolescenza. Vi sono luoghi e situazioni che non destano altro che grottesco, grottesca disperazione, in cui è impossibile ritrovare se stessi. Cose e persone ci annientano, e siamo soli in un ambiente ostile, in una immagine che non riesce a collegare la parola e l’immagine, forse per negligenza del fotografico. Qualunque cosa diciamo o facciamo, oppure immaginiamo di dire o di fare, non è altro che paradosso comico del nulla o paradosso comico del grigio. Ci sembra di essere usciti dal nostro mondo, di averlo perduto, forse per sempre. Per affrontare tali situazioni, tali luoghi, tali mostri sconosciuti, bisognerebbe nascere di nuovo. È come essere costretti ad esistere in strani filmati: tutte le ore in cui siamo svegli cominciano a sembrarci un incubo e solo quando finisce il giorno, e finalmente ce ne andiamo a letto, avvertiamo quel senso del grigio. Che cosa meravigliosa, allora, in uno di questi luoghi o di queste immagini, incontrare inaspettatamente la trama di un film! Ecco all’improvviso un volto comico-drammatico-grigio; ogni suo lineamento è come una pietra miliare di un Dagherrotipo poetico, del poeta Lucano, in un paese amico: ecco degli occhi che ci vedono come realmente siamo. Le strane dimensioni sono svanite. In queste orecchie possiamo riversare le nostre parole, per i dialoghi, ed essere capiti. La sola vista di quel naso – alla Burchiello – ci riporta in un mondo comprensibile. “Salve! Come mai ancora col cinema e non più con la fotografia, come mai la voce di un amico affezionato che va oltre l’immagine?”.
Anche Giacomo Sichieri riconosce le tradizioni a cui il regista attinge nel suo film. Soltanto grazie al cinema e al suo potere meraviglioso, si possono contaminare dramma e commedia leggera, permettendo di giocare con i generi e con le loro convenzioni, stravolgendole dal loro interno: ed Ezio attua questo meta-gioco, inserendo efficacemente, all’interno della storia narrata, la componente ludica. Il titolo dell’articolo da cui riprende la sceneggiatura, Post-tutto, si riferisce al gioco delle carte, precisamente indica l’ultima carta vincente: se da un lato può riferirsi al successo del protagonista poliziotto sul gangster, apre tutta una serie di questioni sul gioco, sull’inganno e sull’ambiguità, di cui il film si nutre sin dalla prima inquadratura. Il protagonista, un giovane e brillante aspirante detective, compare la prima volta mentre fa le parole crociate di cui è appassionato, così come il gangster, interpretato da Pierre Renovi, ama trascorrere il suo tempo giocando a solitari con le carte. Ed è sempre con il gioco dei bastoncini che i due poliziotti si contendono Eva, la giovane e intrigante sorella del malavitoso. Il gioco, tuttavia, porta con sé l’inganno: Carlo, il protagonista, vince ai bastoncini solo perché, di nascosto, cambia il bastoncino più corto, e il trucco del cinema ce lo svela attraverso il dettaglio delle mani impegnate a barare. Quando Carlo entra in contatto con il gangster che ha commissionato l’omicidio di Ammannato, il suo vecchio complice che ha tentato di rubargli una grossa cifra di denaro, l’agente comincia il doppio gioco, facendo credere al malavitoso di essere passato dalla sua parte, ma continuando a fornire informazioni utili all’amico poliziotto attraverso le parole crociate. Il gioco diventa così il motore del film, in un continuo scambio tra realtà e finzione, perché il gioco è finzione che mette in discussione la realtà. Alla scuola di polizia, poiché Clarence e Monti sono risultati entrambi vincitori delle prove da sostenere per la promozione, i due giovani propongono un ulteriore test di intelligenza, un altro gioco tra i due, come ad esempio la risoluzione di un crimine. Dopo che Monti pronuncia questo termine, ecco che il regista, dopo un contrasto, mette in scena il crimine di cui i due poliziotti si dovranno occupare. Attraverso il gioco, Ezio pone l’accento sulla falsità delle apparenze, mostrando dei personaggi i cui propositi sono in opposizione con ciò che lo spettatore vede nelle loro azioni, nelle loro intenzioni e finisce per accorgersi che da quelle azioni è stato egli stesso fortemente influenzato e, per liberarsi da tutto ciò, usa il testo Magia della parola di Roman Jakobson, come terapia della parola. Per gran parte del film, il regista, grazie alla rappresentazione cinematografica, instaura con lo spettatore lo stesso meccanismo di ambiguità e falsità che si ritrova all’interno della storia. Il regista ci mostra, infatti, Clarence mentre cambia i bastoncini, lo spettatore quindi sa che l’uomo sta ingannando l’amico, ma non sa che M. ha scoperto l’imbroglio, accettando ugualmente la sconfitta. Allo stesso modo, in una sequenza successiva, quando i due si incontrano dopo che C. è diventato membro della banda dei gangster, non sappiamo che, grazie alle parole crociate, il protagonista sta comunicando con il compagno. Lo scopriamo solo quando M. lo rivelerà più tardi agli altri poliziotti. L’ambiguità è la caratteristica del doppio, della duplicità del reale tra l’essere e l’apparire, così l’intrigo si basa sulla dualità: due personaggi principali, due donne, due capi della polizia e due malviventi. Ma il tema del doppio compare soprattutto attraverso il gioco di luci, ombre e specchio. Dopo la sequenza dell’omicidio, i due poliziotti accorrono all’albergo dove si è svolto: vediamo in posizione frontale i due amici mentre sono all’interno dell’ascensore. L’oscurità dell’ascensore adombra i loro volti, rischiarati solo dalla luce che proviene dai corridoi dei vari piani che superano fino ad arrivare a destinazione: questo gioco pone l’accento sull’ambiguità del protagonista, che manterrà nei confronti dei compagni e dello spettatore lungo tutto il film, poiché solo alla fine si scoprirà che entrare a far parte della banda dei malviventi era il solo mezzo per poterli smascherare. Le ombre sul suo volto sottolineano, dunque, il suo doppio gioco. Ma è in un’inquadratura allo specchio che questo elemento dell’intreccio emerge con più forza ancora: non solo lo specchiarsi è indice di doppiezza, ma soprattutto il gesto di girare il cappello, crea la sensazione di ambivalenza, dell’inizio del gioco di inganni che comincerà da quel momento. Starmene tranquillamente a far progetti di film. Ciò può essere delizioso, e nessuno che io conosca lo ha mai decantato. Bisognerebbe essere in due, o al massimo in tre, così come si fanno le ammucchiate. Anzi le ammucchiate alla Polanski sono sempre più di tre. I comitati sono da escludere, e così gli estranei o i conoscenti, e anche gli amici, tranne i più vecchi ed i più cari. Basterà avere con sé la moglie o il marito, i direttori della fotografia e soprattutto le modelle e le groupie. L’ora migliore è la sera tardi, e l’angolo presso il caminetto il posto migliore. La cosa da progettare può essere una ripresa a circuito chiuso, una elaborata storia di gangster, una nuova impresa giallistico-eroicomica. (Se sono due fotografe a far progetti, anche una corrispondenza può essere un buon argomento). Vi stringete intorno al fuoco, uno di voi avrà carta e matita tra le mani, ma non si dovrebbe in effetti scrivere molto. Il gelido caos del mondo dell’immagine si è dileguato; attenti, con aria d’importanza, voi siete tutti indaffarati a concretare il piano sequenza, usando ogni sorta di sottili stratagemmi. Ma attraverso i fili del progetto passa la calda corrente della reciproca simpatia e tutto ha radici forti e profonde in un saldo rapporto con l’immagine. Coloro che credono di andare un giorno in un set si chiedono spesso come occuperanno il loro tempo. Essi commettono l’errore di pensare che il set tutto sia completo, finito fino all’ultimo pezzetto di sceneggiatura, prima dell’arrivo della parola Fine. Ma naturalmente non sarà così e vi sarà un mucchio di magnifici progetti da fare.