EB: Tu che gli sei stato vicino fino alla fine della sua vita, quale pensi sia la sua eredità culturale?
Pensi che il suo “messaggio”, la sua pratica, la sua potenza libertaria, anarchica e dionisiaca siano stati completamente compresi?
GM: Sicuramente lui, come pure altri che hanno compiuto ricerche nel campo della poesia sonora, hanno aperto la strada ad artisti che hanno utilizzato tecnologie più avanzate, ma a lui questo non avrebbe interessato. Lui non aveva una visione tecnologica, ma cosmopolita e umanistica. I suoni che ha inseguito e prodotto nella sua vita per lui rappresentavano una forma di comunicazione universale, in grado di mettere in contatto popoli e culture differenti [al contrario del linguaggio che egli percepiva come una forma di retorica totalitaria, uno strumento atto a opprimere le masse attraverso una sorta di Logocentrismo dominante].
Henri Chopin è stato l’unico artista zen che io abbia conosciuto. Con questo intendo dire che lui era totalmente distaccato dal “rumore” del mondo. Era consapevole ma puro e forse per questo non ha nemmeno potuto esprimere a pieno la propria creatività, perché gli mancavano i mezzi per farlo.
Forse se avesse avuto maggiore sostegno, anche da me o da altri… Ma in fondo lui non aveva bisogno di niente e di nessuno. E’ stato libero fino alla fine della sua vita e affetto da una sana e incurabile follia.
In queste parole troviamo il racconto di Giannantonio Morghen, che, durante un’intervista con Eva Brioschi, ha avuto la possibilità di parlare dell’artista francese Henri Chopin e del rapporto che li ha legati fino alla dipartita di quest’ultimo. Attraverso l’occhio del collezionista ci è possibile entrare in maggior confidenza con l’eterogenea esperienza artistica di Chopin, portata in parte in mostra presso la galleria torinese Quartz Studio, dove la sopra citata Eva Brioschi ha curato il tutto. Sotto il titolo Body Sound Space le opere presentate portano di fronte al pubblico una selezione in grado di esemplificare le diverse spinte creative dell’artista che hanno sempre cercato di trovare – e in caso instaurare – un legame tra i tre elementi presenti nel titolo: corpo, suono e spazio.
Il risultato che ci viene proposto in mostra propone dattilopoemi, all’interno dei quali è possibile percepire una partitura derivata dalla ripetizione di una parola, o un insieme di parole scritte a macchina, ottenendo un effetto grafico decisamente d’impatto.
Questi sono accompagnati da una serie di “papier-collées” costituiti da: poesie in francese, un assaggio di dattilopoemi, utilizzando il principio della ripetizione macchinale come sfondo di questi fogli, sul quale poggiano infine filtri del caffè usati. Il risultato è molto pittorico e suggestivo, soprattutto grazie a quest’accostamento di generi creativi che non si appartengono, ma collaborano bene insieme.
L’utilizzo della parola, però, non deve essere fuorviante nell’intento dell’artista, il quale si vuole liberare dai vincoli che il linguaggio pone. Egli infatti svuota di senso le parole per sfruttarne la potenza più che altro visiva e segnica, attraverso la quale, come vediamo in questi esempi, si può arrivare ad un piacere estetico, piuttosto che di senso. Nella sua ricerca, Chopin indaga inoltre la capacità sonora della parola, sperimentando e concentrando il suo interesse sull’energia e la vita che essa racchiude da un punto di vista prettamente acustico. Il magnetofono si è rivelato il mezzo privilegiato nella registrazione e impressione di tali esperimenti su nastro: nastro che in un secondo momento diventa anche elemento costitutivo di un assemblaggio come quello che troviamo in galleria.
EB: Hai qualche aneddoto o racconto legato alla sua pratica artistica che pensi possa rendere l’idea di chi è stato Henri Chopin?
GM: Mi ha meravigliato molto trovare, quando sono andato a casa sua in Inghilterra dopo la sua morte, una grande scultura che lui aveva lasciato per me: una miriade di antenne, una navetta spaziale, un’astronave enorme fatta per lui, per quell’ultimo viaggio che sapeva di essere prossimo a compiere, ma che voleva lasciare materialmente a me.
Henri Chopin è stato un uomo senza compromessi, mosso da un’estrema libertà nella vita come nell’arte. Durante la guerra fu catturato dai nazisti e deportato in un campo di concentramento da cui riuscì a scappare per poi trovare rifugio come cuciniere nell’esercito russo. Finita la guerra intraprese un lungo viaggio, durato quattro anni, attraverso i paesi baltici per tornare a casa a Parigi, dove purtroppo trovò la famiglia quasi decimata. La sua fu una vita di esili volontari e forzati, per le sue visioni politiche e sociali, per la sua concezione della vita, sempre tesa alla ricerca di suoni che scaturiscono liberi e incontenibili dal corpo e che vibrano in sintonia con l’universo.
L’avversione a ogni tipo di totalitarismo e dogma religioso, la lotta al consumismo e lo schierarsi contro qualsiasi forma di ingiustizia sociale lo accomunano a George Orwell, scrittore lucido, ma allo stesso tempo visionario, proprio come lui. Anche se rispetto a lui Chopin ha sempre mantenuto una visione molto ottimistica del mondo. Era convinto che le cose sarebbero cambiate, che avremmo raggiunto una piena democrazia e giustizia sociale, mentre io forse mi sento più vicino al pessimismo orwelliano.


Quartz Studio
Via Giulia di Barolo 18/D, 10124 Torino
Henri Chopin – Body Sound Space
dal 21 settembre al 28 ottobre 2020
info: visita su appuntamento