Vogliamo iniziare con dei ringraziamenti?
Per i miei inizi devo dire molti grazie ad alcuni dei miei professori dell’Accademia di Belle Arti de L’Aquila: Lea Mattarella, Teresa Macrì, Fabio Mauri, ed Ester Coen che insegnava a Lettere sempre a L’Aquila le cui lezioni andavo a seguire da non iscritto. Teresa con i suoi libri quali Cinecorpo del desiderio e Corpo Postorganico e per avermi sollecitato ad andare a vedere Biennale, Documenta e altre mostre, nonché per avermi fatto conoscere le riviste d’arte. Allora lavoravo con fotografia e video – ad esempio l’opera video Viaggio della speranza sulla migrazione – le deve molto. Poi da studente mi segnalava per alcune mostre come la Quadriennale anteprima. Anche Lea, invece mi segnalava ai premi, dandomi, inoltre, una preparazione sulla storia dell’arte dalla modernità alla contemporaneità. Fabio Mauri mi ha dato la consapevolezza che l’arte deve avere un approccio etico, politico sociale. Mariano Apa, invece, mi ha inculcato la mia ossessione più grande: Piero della Francesca e Beato Angelico. Franco Sperone mi ha fatto conoscere gli scritti di Marshall Mac Luhan, Derrick de Kerckhove, Alberto Abruzzese e Marco Senaldi da cui trassi spunti per l’arte relazionale. Infatti le mie primissime opere erano partecipative attraverso il progetto Global Education che fondai nel 2002 con l’opera Acquerelli per non sprecare la vita e che realizzai in 21 paesi del mondo. Ma soprattutto, se oggi faccio l’artista, lo devo ai miei genitori che mi hanno spinto fin da piccolo su questa strada e sempre sostenuto e mi hanno permesso di lasciare un segno.
Cos’è Global Education?
Si tratta di workshop con i bambini delle scuole elementari che invitavo e invito a disegnare degli abecedari scegliendo loro la parola e la relativa immagine da disegnare.
Alla fine li esponevamo e li espongo per poi li archiviarli, alcune parti si possono vedere sul mio sito: www.giuseppestampone.com. Qui si può vedere il passaggio dai segni dei bambini a quelli dell’artista del segno.
Perché questa ossessione per l’alfabeto?
È una cosa che nasce dall’infanzia e dal fatto che vivevo in Alta Savoia ai piedi del Monte Bianco lato francese, perché i miei genitori vi erano migrati. Non stavo bene di salute e il dottore disse loro che per guarire dovevo cambiare aria e quindi dalla Francia fui mandato in Italia da mia nonna a Villa Petto un piccolo paese in provincia di Teramo ai piedi del Gran Sasso. Da una montagna all’altra, dalle Alpi agli Appennini fui iscritto alle elementari di questo piccolo borgo, ma avevo problemi di linguaggio, balbuzie e dislessia, aumentati dal fatto che passavo dalla lingua francese a quella italiana cosa per cui venivo bullizzato dai compagni di scuola. Per quanto riguardava l’apprendimento attraverso l’abecedario il problema veniva acuito dal fatto che non vi era una corrispondenza tra lingue – per esempio in francese Casa si dice Maison e quindi al disegno della casa corrispondevano due lettere diverse e questo mi mandava linguisticamente ancor più in confusione. Per questo ho iniziato ad astrarmi disegnando dei fumetti su Marte e sulla luna. Erano viaggi che non finivo mai, perché era il mio rifugio. Quando da grande mi iscrissi all’Accademia li avevo lasciati, perché attratto dai nuovi media. Poi mi sono accorto che ciò era diventato di maniera e per sfuggire alla moda sono tornato al segno.
Ci sono altri abecedari partecipativi rivolti agli adulti, quali?
In questi ultimi anni sto facendo quelli degli abecedari per le aziende; ne ho già realizzati tre: con Marca Corona ceramiche a Sassuolo, con la Cooperativa Dolce Bologna che lavora al servizio al cittadino, della comunità e con Buzzi Unicem, un cementificio a Casale Monferrato. Abecedari partecipativi con i quali lasciare un segno.
Come funziona questo tipo di relazione, quale la differenza con quella dei bimbi?
Qui convoco delle assemblee partecipative con i dipendenti che intervisto in relazione all’azienda e alla loro esperienza in essa e alla loro vita, tipo famiglie: tradizione, storia, lavoro, ecc. Dopo questa discussione torno in studio e realizzo 21 disegni che poi mostro ai dipendenti durante una seconda assemblea partecipativa in cui, tramite una discussione e votazione, associamo lettera a immagine a maggioranza. L’originale abecedario alla fine va all’azienda che l’utilizza per la comunicazione, in modo che con l’arte possa imprimere un segno.
Mentre gli abecedari fatti solo da te come nascono?
Attraverso l’ossessione che ho per le immagini di internet, che io chiamo Balena Matrix, il profluvio di immagini infinito in cui ricerco le immagini iconiche. Mi chiedo: Tutte queste foto che ogni giorno vengono riversate in internet dove vanno a finire, cosa può salvarle? Allora clicco delle parole chiavi su Google, oppure vado sul Facebook degli amici, Instagram e quando trovo un’immagine che mi interessa la salvo e da lì parto per fare l’opera. Scelgo alcune immagini che trasformo in pezzo unico per questo mi definisco una fotocopiatrice intelligente, perché unica non riproducibile. Con questo salvataggio manuale mi auguro che fra centinaia di anni la mia opera possa essere letta come un documento antropologico e quindi l’impronta di un’epoca, un segno.
Negli ultimi abecedari che presenti alla tua mostra di Castelbasso curata da Ilaria Bernardi, proponi anche dei nuovi abecedari senza immagini?
Si tratta di abecedari sull’Abruzzo, realizzati utilizzando delle sedie a sdraio provenienti da due stabilimenti balneari d’Abruzzo il Tropical di Roseto dove vado da anni, e quello di Lido Riccio dedicato a mia mamma, in quanto lei da bambina vi andava con sua mamma per lavorare. Questi sono abecedari solo con la lettera iniziale e la parola, senza immagini, un’opera in cui le lettere vengono utilizzate come segno. Ma ci sono anche tante altre opere come ad esempio quella in cui ritraggo cinque artisti: Raffaello, van Gogh, Picasso, Warhol e me stesso. Niente male come mitomania. Ma alla fine vi è anche uno specchio in cui ognuno si riflette, quindi lo spettatore è il sesto ritratto, o autoritratto che ci rende tutti mitomani con l’apparizione del proprio corpo volto e, in quanto arte, segno.
Tu hai un rapporto molto stretto con le giovani generazioni sia con l’insegnamento che non?
Si, però devo dire che quando mostro alcuni lavori ai miei studenti mi accorgo che non conoscono tutte le immagini da cui provengono che sono il più delle volte immagini di cronaca e storia molto note. Questo mi dà da pensare a come le nuove generazioni conoscono o non conoscono la storia. Per esempio la mia opera Erezione fallica nasce dall’osservazione dell’attentatore Mevlüt Mert Altıntaş con il braccio alzato e la pistola in mano dopo che ha ucciso l’ambasciatore russo Andrei Karlov nell’attentato presso il museo di Ankara. Da qui sono partito per rilevare altri personaggi che avessero il braccio alzato, una erezione fallica. Essenzialmente si tratta di due categorie: le rockstar e leader politici- Infatti l’opera si compone di una cinquanrtina di immagini che vanno da Mick Jagger a Michael Jackson da Tina Turner a Bob Marley, … e da Fidel Castro a Martin Luter King a Mao Zedong. … Insomma è un gesto iconicamente forte relativo al capitalismo e alle utopie comuniste un gesto in cui il corpo o una sua parte diventa emblematico in quanto segno.
Tuttavia il tuo lavoro passa anche attraverso la storia dell’arte?
Come dicevo all’inizio per me la storia dell’arte, gli artisti storici sono sempre molto importanti è per questo che recupero e mi confronto con opere come La Tempesta di Giorgione, Lo studiolo di Antonello da Messina, gli interni di Vermeer, o la Resurrezione, Battesimo e Flagellazione di Piero della Francesca. Li attualizzo, ad esempio la serie di quadri con coppie di bambini che riguardano il rapporto tra uomo e natura, natura che oggi io considero la metropoli, deve, nella posizione di spalle e nel fatto che stanno sopra una roccia, al Viandante nel mare di nebbia di David Casper Friederich, in quanto parlano di un nuovo romanticismo contemporaneo e di ciò che questo significa a livello di segno.
Altro tema del tuo lavoro sono le Mappe?
Le ho iniziate a fare nel 2012 al ritorno dalla Biennale di Cuba in cui ero invitato con Flavio Favelli e Marinella Senatore. Tornando in Italia sentivo la necessità di dover mettere insieme quello fatto e assorbito fin allora e che conservavo nella memoria e nelle Moleskine. Così ho iniziato a fare la mappa, una grande mappa di 12 metri quadri che nel 2012 esposi a Lucca nella ex chiesa di San Matteo, spazio di Ida Pisani Prometeo Gallery e Claudio Poleschi. Lo stesso feci dopo la Biennale di Kochi in India, insomma sono risultati di viaggi e di appunti di viaggio. Un grande archivio che fissa tutte queste cose. Ad alcune mappe ho lavorato molti anni, anche 8, non trovando mai la fine del segno.
Quindi i tuoi lavori non sono mai finiti?
Si soprattutto le mappe non sono mai finite, ci lavoro sempre, fino a quando vengono acquistate, ma con alcuni collezionisti, come Pino Calabrese, ho un tacito accordo che quando ne sento la necessità vado in casa sua e ci torno sopra. Non ho il senso del limite, il tempo continua a stratificarsi di segno in segno.
Le mappe nell’arte fanno pensare a Boetti?
Mi interessa non solo l’immagine della mappa ma il modo artigianale con cui venivano realizzate. Tuttavia uno degli artisti che più sento vicino è Ugo La Pietra, che è stato tra i primi a realizzare le mappe partecipative. Quindi più La Pietra che Boetti. Ma, come detto di quest’ultimo mi importa è il recupero dell’artigianato, la tradizione che diventa opera che mi fa dire di essere anche un artigiano del segno.
Ciò che unisce quasi tutti i tuoi lavori è l’utilizzo della penna Bic, un mezzo che caratterizza fortemente l’opera di Alighiero Boetti e Jan Fabre. Quali pregi e difetti?
Mi trovo molto in assonanza con Boetti sul concetto del tempo e con Fabre sulla storia e sul lato formale. La prima volta che ho usato la penna Bic l’ho fatto con Consequenziale. Questa tecnica mi permetteva di usare la velatura e quindi il tempo anche perché non sapevo dipingere e non so dipingere a olio o ad acrilico, ma con la penna, soprattutto Bic mi trovo molto a mio agio, il mio modo con cui esprimere il mio segno.
Come è la tua modalità di lavoro. Lo studio?
È una sorta di bottega rinascimentale dove siamo in tanti a lavorare dal direttore Davide Sottanelli ad architetti, musicisti, fotografi come Gino di Paolo e tanti altri. Per me è importante l’idea di bottega come nel passato, in questo senso mi sento rinascimentale. Il mio è un lavoro di squadra come Raffaello, o più contemporaneamente alla Fabio Mauri. Mi occorrono tanti segni degli altri per lasciare il mio segno.
Che tipo di artista ti senti di essere?
Sono un disubbidiente che vuole reagire alla società di internet al tempo veloce per favorire il mio tempo personale. Non mi sento un pittore, ma un artista concettuale, non ho un rapporto emotivo con l’immagine. Non sono né un pittore né un disegnatore, tutto viene fatto attraverso un metodo. Sono ossessionato dalla storia dell’arte e dalla contemporaneità è con questo che mi sono avviato nella strada dell’arte per offrire il mio segno.