Giuseppe Frazzetto – Nuvole sul grattacielo

S’intitola Nuvole sul grattacielo il nuovo saggio di Giuseppe Frazzetto pubblicato da Quodlibet.

L’ipertecnologia contemporanea si è capovolta in strutture e direzioni reincantate e mitologiche, che pervadono una modernità che sta dappertutto e da nessuna parte, una modernità sempre connessa e sempre solitaria. È la modernità del Soggetto servile e disperante che si crede tuttavia libero e appagato. Questo uno dei risultati ai quali Giuseppe Frazzetto era pervenuto in Epico caotico. Videogioco e altre mitologie tecnologiche (2015). 

La complessità e l’identità del Moderno (tema fondamentale delle ricerche di questo filosofo) è tornata a essere oggetto di un’analisi radicale e disvelatrice in Artista sovrano. L’arte contemporanea come festa e mobilitazione (2017), dove viene descrittala metamorfosi dell’artista artigiano (il quale faceva come voleva e poteva ciò che in ogni caso doveva fare) nell’artista sovrano che abbandona la prospettiva, un punto di vista oggettivo sul mondo, a favore di una pluralità di punti di vista creati dall’artista stesso, padrone dello spazio, delle relazioni, delle durate e (alla fine) della stessa denominazione di qualsiasi oggetto o situazione come arte. Con tale trasformazione è tramontato il principio della delega che una società fa all’artista di rappresentarla, a favore dell’autoinvestitura dell’artista sovrano che non si limita a coltivare ciò che la comunità ha seminato ma cerca, afferra e collega tra di loro i frammenti sparsi nel mondo, ai quali è proprio il gesto dell’artista a conferire senso e identità estetiche. 

Su queste fondamenta ermeneutiche si eleva il terzo momento (il saggio Nuvole sul grattacielo. Saggio sull’apocalisse estetica, Quodlibet, Macerata 2022) di quella che ora appare una trilogia del postcontemporaneo, capace di pensare non solo l’arte e l’estetico ma il fenomeno umano collettivo in tutta la sua rizomatica struttura.

Postcontemporaneo è uno dei numerosi dispositivi concettuali e analitici con i quali Frazzetto conduce il suo itinerario nei gangli del presente, nelle strutture della comunicazione, nei corridoi della Rete, dentro quelle che una volta erano le gallerie d’arte e oggi sono l’ovunque della pratica estetica: il digitale, il televisivo, gli eventi, i dispositivi molteplici dell’intrattenimento, del lavoro, delle relazioni umane.

Postcontemporaneo è dunque il tempo del Solaris, della disintermediazione, del me/mondo, della vita/mashup, della biopolitica, del Collettivo, della dinamica μ, dell’eschaton/katéchon, dell’apocalisse. Come si vede, è qui all’opera una creatività lessicale che è chiara espressione della fecondità teoretica di Frazzetto.

«Il Solaris è lo spettacolo di qualsiasi cosa, si potrebbe dire. Aggiungendo: spettacolo di qualunque cosa destinato a qualunque spettatore nonché allo spettatore qualunque. Ma non è solo uno spettacolo, né soltanto una rete di spettacoli. Giacché il Solaris cresce col nostro contributo. Ci vampirizza. Ci trasforma in potenziali artisti, produttori, performer. Il Solaris ha innumerevoli autori, sebbene spesso privi d’autorevolezza: noi». E questo fa sì che il Solaris (l’enigmatico pianeta che dà titolo al romanzo di Lem e al film di Tarkovskij) afferri tutto, tutto trasformi nella propria sostanza, tutto faccia esplodere in una miriade di frammenti che poi ricompone in nuove, direzioni, combinazioni, forme. Coesistono in esso gerarchie e comunanze, alto e basso, familiare ed esotico, tradizionale e futuribile.

Del Solaris è parte costitutiva il movimento del me/mondo, una centralità dell’io (che si crede) creatore la quale non cessa mai il suo lavoro di cucito e di strappo tra il Singolo che anela al narciso e il Collettivo del quale egli è soltanto uno dei tanti elementi, uno degli innumerevoli anelli della catena.

Momento di questo moto perpetuo è la disintermediazione, «un’attitudine etico/estetico/artistica ‘fai da te’» che costringe il Singolo a improvvisare la propria competenza nell’utilizzo di dispositivi inediti e spesso inauditi, senza i quali però non è più possibile condurre la vita sociale. Effetto, causa ed espressione del me/mondo è una mobilitazione che non concede pause, soste, defezioni; una mobilitazione perenne fatta della incomprensibile e insieme ovvia congerie di «reale/digitale, vicino/lontano, padrone/servo e via mescolando della vita-mashup».

Vita fatta di ininterrotta comunicazione, di posa continua, di una estetizzazione collettiva che rende apparentemente vicini enti, eventi e processi di ogni sorta (o almeno le loro immagini) ma che fa emergere anche una profondità estraneità rispetto a un mondo sempre più complesso, esigente, inquietante e incomprensibile. Un tratto, questo, che è insieme biopolitico e gnostico. Biopolitico per una «situazione in cui il Collettivo dirige e struttura ogni Singolo»; gnostico per il precipitare del tempo nei dispositivi, per la corsa degli evi verso il nulla. Ecco dunque l’Apocalisse che è ‘estetica’ non nel senso limitato e limitante che si riferisce al fare artistico ma è estetica nel senso di percepita, sentita, vissuta dentro gli istanti e i luoghi delle vite individuali e collettive. 

L’Apocalisse è data anche dalla potenza di un Collettivo virtuale diventato Reale e al quale Frazzetto pone due fondamentali domande: «Ma ci si può identificare col Collettivo? O, meglio: è pur possibile non identificarsi col Collettivo? La domanda sottesa al nostro piccolo libro è questa. Non c’è risposta. Semmai, un contributo alla delineazione della domanda».

L’Apocalisse è data dalla fusione gnostica di eschaton e katéchon, dalla fusione della potenza escatologica della fine e della potenza catecontica che ritarda questa fine. «Tale abnorme implosione di troppo presto e non ancora è il marchio dei tempi», è la coesistenza di un esistere dissolto nel virtuale e di una «fame d’esistente» che cresce al crescere del nulla digitale, dei Social che fagocitano la vita trasformandola in spettri, frammenti, immagini. 

Il volto sempre più dissolto dietro e dentro le maschere dell’epidemia conferma «la struttura epico/caotica [che] si orienta verso un sostanziale solipsismo», dissolutore del principio sul quale si fonda l’arte contemporanea, il principio illuministico (ma anche, aggiungo io, cristiano) di ‘una sola umanità’: «Senza quel presupposto non ha molto senso parlare di arte contemporanea. Il riferimento dell’arte contemporanea alla nozione di umanità è un elemento fondativo. L’arte contemporanea nasce e si sviluppa dal presupposto dell’esistenza dell’umanità». E tuttavia il risultato di questo tratto tipico del moderno è una vera e propria tribalizzazione dell’esperienza storica. La divisione in gruppi reciprocamente escludenti costituisce infatti inevitabilmente una delle conseguenze dell’universalismo illuministico, come già i francofortesi avevano intuito.

Il postcontemporaneo scaturisce dunque anche da questo tramonto dell’universalismo, di una concezione dell’umanità astratta e artificiosa, alla quale vengono sostituite dinamiche e dispositivi che Frazzetto chiama «sciamanoidi», che già nel Novecento hanno reso «distante il vicino (l’oggetto quotidiano, perfino l’oggetto sordido)», presentandolo e ponendolo «come traccia d’un che di più reale, promessa d’un significato apocalittico». Lo conferma il fatto che «una componente dell’apocalisse estetica con cui ci confrontiamo consiste nel moltiplicarsi di forme e intenzioni distanti sebbene apparentemente rese vicine dai media. L’immensa produzione umana ci si presenta come una ‘seconda natura’ enigmatica, frammentaria, selvaggiamente pervasiva».

La dinamica μ è tutto questo, è il sentire enti, eventi e processi come vicinissimi, necessari, quotidiani e pervasivi e però essere e scoprirsi impotenti nel loro utilizzo, nei loro fini, nel loro (in ultima istanza (significato. Dinamica che genera una tonalità del mondo (e non un semplice sentimento psichico) ancora una volta gnostica: la malinconia.

Ma perché le nuvole? Perché esse esistono come struttura dissipativa, enigmatica e feconda, come potenza ludica che «di nuovo si lascia essere invisibile nel visibile».