Giorgio Chinea Canale
Giorgio Chinea Canale, foto di Michele Mattiello

Giorgio Chinea Canale – giovane padovano dalla triplice indole: curatore, gallerista e artista concettuale

Giorgio Chinea Canale, giovane di origini padovane, approda a Cortina d’Ampezzo in veste di curatore, ma è anche gallerista e artista concettuale: tre personalità correlate e interdipendenti.

C: Parlami di te
G: Ho 34 anni e sono artista concettuale, curatore e gallerista. Non riesco a stare all’interno di una casella. La mia natura è triplice. Sono un ragazzo che è stato baciato dall’arte e riesco a muovermi su tre binari. Ho il mio piccolo spazio a Padova, la Giorgio Chinea Art Cabinet, la galleria più piccola d’Italia, ma anche più cult. Sono un curatore, reduce di una mostra di grande successo presso il Museo Rimoldi di Cortina d’Ampezzo, La casa delle regole sulla dinastia dei Bortoluzzi. Io sono curatore e gallerista dell’erede Alberto dagli esordi della mia carriera. E da poco ho lasciato uscire anche la mia carriera parallela di artista concettuale. I miei periodi di riferimento sono il dandismo, il dadaismo, la performance e il pop (quattro anime). 

C: Qual è il tuo percorso per essere arrivato a questa triplice personalità?
G: Un percorso naturale, che mi ha visto prima laurearmi al DAMS di Padova (percorso storico) per approdare poi a delle specializzazioni in campo curatoriale a Milano. Il mio primo lavoro fu una curatela a 26 anni. Da lì poi la necessità di concretizzare ciò che le pratiche curatoriali mi impedivano di fare e quindi sono diventato gallerista. Dopo il periodo covid di grande repressione, dall’anno scorso, mi sono posto come artista concettuale, e la mia prima opera d’arte è il panino d’artista, un ciclo di dodici panini dalla Zita, paninoteca storica e cult di Padova: sono al sesto panino (che è anche un omaggio a Piero Manzoni e al suo divorare l’arte alla galleria Azimut di Milano nel 1960).

C: C’è stato qualche spunto dall’esterno che ti ha spinto a scegliere il DAMS?
G: Si. Io sono stato cresciuto da mia madre e mia nonna che mi hanno educato al bello, perché con il gusto ci nasci, ma va educato. Ed io sono cresciuto a pane e cinema: loro mi facevano vedere i film più belli, anche più impegnativi, e questo poi mi ha anche portato a scegliere il DAMS.

C: Quindi inizialmente è stata una scelta orientata principalmente verso il cinema?
G: Si, che poi si traduce in un mio pensiero legato alla videoarte, che secondo me, ad oggi, è lo scrigno del futuro. E a questo mi collego anche alla performance: il futuro dell’arte, il fil rouge, in termini di fluidità, perché nella videoarte si condensano tutte le arti. Quindi il cinema come grande scatola antica del “bello”. Io, alla fine, seguo sempre tre filoni: da dandy/esteta ti dico che il “bello” vince sempre, per cui se individui il “bello” hai vinto. È un concetto che potrebbe sembrare superficiale. Gli altri due filoni, che cerco sempre di individuare nella mia poetica (sia di gallerista, sia di curatore, sia di artista), con i quali vinci sempre sono il cult e il glamour, due parole chiave e sacre alle pratiche artistiche o della moda. Anche questi, quando li hai trovati vinci sempre. Se da un lato sono l’uno l’opposto dell’altro, di fatto sono complementari. Perché il cult è la nicchia, viene scelto da una pubblico elevato. Il glamour, invece, è la presa sul pubblico, che strizza l’occhio anche al pop se vogliamo, e questo viene più che altro subìto. Quindi questi due filoni, secondo me, sono fondamentali. Per farti un esempio: Alberto Bortoluzzi rientra nella sfera del cult; mentre Gabriel Ortega è terribilmente glamour.

C: Come sei arrivato a questi tre filoni?
G: Il mio gusto, il mio sentire, e una semplice domanda che mi pongo ogni qualvolta io inizio un lavoro o un contatto con un artista nuovo: la mia mamma lo comprerebbe? Lo amerebbe? E subito dopo arrivo io: Giorgio lo comprerebbe? Giorgio lo ama? Una cosa molto semplice, anche perché io rimango comunque un indipendente, figlio del mio tempo e cerco di rimanere fedele al mio gusto. E pertanto il mio pubblico di riferimento è un pubblico giovane.

C: Cosa ti ha lasciato il DAMS per delinearli un po’ meglio?
G: Tanta nostalgia di una gioventù che cerco quotidianamente nel fanciullino che alberga in me, che c’è in ogni creativo.E soprattutto la bellezza di aver studiato e approfondito le materie più belle del mondo: teatro, cinema, arte, musica, moda.
Io ho fatto la tesi sulla performance art femminile, analizzando i tre periodi di Marina Abramovic: giovanile, di coppia e il suo ingresso nello star system. Questo ti dice che ho curato tantissimo la performance, anche prima di aprire la galleria. Per me la performance è centrale, sia come curatore perché mi stuzzica da morire, sia come artista. Io sono performer, l’ho capito tardi. Anche su Instagram, per dire, dove si crea un cortocircuito, il trittico di personalità e di mestieri che interpreto (che torna anche nel mio logo, la spirale, elemento fluido, omaggio a Bruce Nauman) ha lo scopo di proporre lezioni di storia dell’arte, ma te le faccio cantando, in playback, un riferimento stilistico a ciò che abbiamo visto noi ragazzini degli anni 90: Festival Bar, Top of the Pop. E siamo stati segnati da questo.

C: Quindi abbiamo quattro identità artistiche. Hai dei modelli a cui guardi o che ti hanno colpito particolarmente?
G: Si, posso dirti quattro riferimenti importanti: David Bowey, Alice di Lewis Carrol, Luigi Ontani e Marcel Duchamp.

C: A Milano invece che studi hai fatto?
G: Ho fatto dei master alla NABA, sia sulle pratiche curatoriali sia sui mercati dell’arte contemporanea, che mi hanno fornito gli strumenti per capire come aprire una galleria, e infine l’uditore a Brera. È a Milano che ho avuto l’epifania, che ho capito che dovevo fare il curatore. Padova mi ha formato da un punto di vista intellettuale, invece Milano mi ha dato tanta fluidità, mi ha fatto aprire la mente.

C: Da come mi parli di te, me sembri una persona che starebbe bene in qualsiasi epoca.
G: E questo è proprio il dandismo: senza tempo. Perché io amo il dandismo? Intanto nasci dandy, è un estro, un ésprit. Una ricerca leziosa di eleganza e soprattutto è sovvertivo, divertente, brillante. Può sembrare comunque un soggetto superficiale, in realtà non c’è niente di più profondo della bellezza. È la bellezza, soprattutto in tempi come questi, che ti obbliga a voltare lo sguardo. Il dandy è visto come superficiale, però la superficialità è fondamentale nel mondo dell’arte. Ciò che conta è la chiave che tu dai.

C: Quindi perché hai scelto il contemporaneo?
G: Beh, se vedi, la mostra dei Bortoluzzi a Cortina è molto dandy, perché ho riunito una famiglia dall’800 ad oggi. Alberto è il mio riferimento per il contemporaneo. È l’erede, un paesaggista contemporaneo. Inoltre, ho scelto il contemporaneo perché sono figlio degli anni ’90. Che è anche il mio decennio di riferimento. 

C: Che può essere preso come chiave di lettura per leggere tutto il resto, non deve essere per forza un limite.
G: Sono stati anni molto pop.

C: Per tornare al tuo lato curatore invece. Dicevi che hai curato la tua prima mostra a 26 anni. 
G: Si, una performance all’interno di un antiquario. Quindi ho scelto un’arte decisamente contemporanea, che secondo me è il futuro dell’arte (nel senso di medium, perché secondo me anche un cuoco, uno scultore, uno scrittore, è un performer). Si trattava di due ragazze che hanno realizzato la propria performance in una quadreria dell’800 a Padova. Tutto ciò è molto dandy. E all’epoca non sapevo nemmeno di esserlo.
Per farti capire meglio, il dandy lavora sul doppio registro, alto e basso, per sbalordire il borghese, ed è anche un modo per mettere la propria firma: utilizzare concetti e immagini comuni a tutti per veicolare o spiegare argomenti non così immediati e spesso difficili da capire fino in fondo. Così, la gente capisce subito cosa vuoi dire anche senza bisogno di usare troppe parole.

C: È forse l’arma più efficace per far capire. Perché spesso si usano paroloni e termini aulici che non sono alla portata di tutti.
G: Esatto, e poi dobbiamo considerare che i giovani di oggi non hanno la cultura dei giovani del passato, quindi bisogna anche adattarsi ai tempi. 

C: Oltre a questa prima curatela poi hai fatto altro?
G: Sono diventato direttore artistico di TedX Padova prima, TedX Cortina poi. Mi sono occupato di curatele indipendenti, finché nel 2017 sono diventato gallerista. Una vera e propria escalation: intellettuale, curatore, gallerista e infine artista. La stampa mi ha sempre definito “gallerista pop / neosurrealista”.

C: Perché hai deciso di aprire una galleria di arte contemporanea proprio a Padova?
G: Per fare il primo step a casa. La passione arrivava sempre prima di me, travolgeva tutto, e mi ha aiutato ad affrontare questa sfida. Con il neo-pop ho fatto scelte audaci: Giovanna Ricotta, Laurina Paperina e Gabriel Ortega, per farti capire.

C: E invece cosa mi dici dei progetti futuri?
G: Allora, i nuovi progetti importanti sono la prima edizione della Biennale della Performance Art a Cortina del 2023 che curerò io; Ortega, grande ritorno a Padova con una doppia mostra all’Orto Botanico e al MUSME – jungle-tropical da un lato e anatomico dall’altro; in galleria a Padova ributtarmi sul neo-pop e spero di continuare la mia collaborazione come curatore esterno al museo Rimoldi di Cortina.