Arco Madrid 2025
Learning in Tensions. Maria F. Scaroni, liturgia pagana

Free Home University

Antonella Marino intervista Alessandra Pomarico ideatrice, nel Salento nel 2013, del progetto artistico-pedagogico Free Home University

“Come agire senza dominare?” “Come mantenere il sentimento dei luoghi?” Come Vogliamo vivere? Quale è il suono della libertà, qual è il suono della giustizia?” Sono alcune delle domande che incontriamo lungo la visita a Learning Intensions – Learning In Tensions, una mostra e un densissimo programma pubblico a cura di Alessandra Pomarico e Nikolay Oleynikov, per tre mesi nei grandiosi spazi dell’ex chiesa San Francesco della Scarpa a Lecce, con il sostegno di Musagetes Foundation e Polo Biblio-museale di Lecce. Interrogativi che danno sostanza politica ad un percorso espositivo scandito da frammenti visivi, opere, documenti, su display mobili di assonanza costruttivista assemblati con materiali recuperati dai depositi del Museo Castromediano, imponenti e antimonumentali al tempo stesso. Non una semplice esposizione, ma piuttosto un processo che testimonia e prosegue con modalità aperta, inclusiva e soprattutto in progress, i dieci anni dell’esperienza nel Salento della Free Home University: singolare progetto artistico-pedagogico avviato da Pomarico nel 2013, “che si concentra sulla condivisione dei saperi attraverso un approccio conviviale e orizzontale, e un fare artistico immerso nella vita quotidiana, nelle comunità e a margine del sistema dell’arte”…

Alessandra Pomarico, come è nata l’esperienza di Free Home University e su che basi teoriche si fonda?

Free Home nasce come critica alle istituzioni educative esistenti, al sapere egemonico, eurocentrico, e disciplinare, all’università neoliberale in cui la conoscenza è appannaggio di poche elite e diventa ennesimo prodotto di consumo, alla didattica che riproduce forme di asimmetria e di potere. Non volendoci solo fermare alla critica, abbiamo cercato nella pratica di fondare una scuola per artisti, attivisti e membri delle comunità in cui il sapere potesse circolare in maniera orizzontale, non autoritaria, da prospettive e cosmovisioni differenti, e in una triade di riflessione – analisi – e azione. Ci ispiriamo alla pedagogia radicale, a tante pratiche artistiche emancipatorie, all’educazione popolare di Freire e alle scuole libertarie, e ai vari metodi che incoraggiano conoscenza incorporata, esperienziale, collettiva, un apprendere con la testa, le mani e il cuore, e insieme, anche dalle comunità non umane. funghi o le radici ad esempio sono maestri da cui potremmo imparare tanto. 

Il primo strumento pedagogico è stato quello di abitare insieme?

Si, la cosa più importante era per noi non separare la ricerca artistica, lo studio, dalla vita e dall’impegno politico. Agli inizi siamo stati concentrati a proteggere un processo interno che era di decostruire e rifondare al tempo stesso, un processo anche fragile, in cui spesso non sapevamo come gestire i conflitti o le differenze. Per questo nel titolo della mostra abbiamo evocato la necessità di apprendere nelle (e dalle) tensioni. Non è facile vivere insieme e condividere gli spazi, anche mentali, non veniamo tutte dagli stessi percorsi, abbiamo privilegi diversi, ci siamo disabituati alla collettività e viviamo in un modo complesso. Gestire la complessità è per esempio qualcosa che abbiamo imparato ma che poi ogni gruppo deve sperimentare. 
L’aspetto forse più importante del lavoro della Free Home University risiede proprio nei legami di profonda amicizia e solidarietà che queste occasioni hanno generato e propagato. Una pedagogia che insiste negli insegnamenti che aiutano a trasgredire (con Bell Hooks), incitando alla cura, alla riparazione, alla difesa dei corpi come dei territori, dell’umano e dell’oltre l’umano, contro un dilagante processo di de-umanizzazione e di frammentazione delle relazioni col vivente. Una pedagogia critica ma anche basata sugli affetti e rigenerativa, radicale e conviviale, militante, che crede nella potenza trasformativa dell’arte quando posta al servizio della comunità, sottratta al sistema e al mercato, o alle trappole dell’ego e del personalismo autoriale.

Entrando in mostra, si percepisce un senso di energia, la presenza di gruppi informali, un caos ordinato che sollecita diversi livelli di lettura e di approfondimento. Ci dici come si articola il percorso?

E’ stata una sfida, non è facile raccontare dieci anni di pratiche collettive, di vita di un organismo che ha avuto varie fasi e in cui tante soggettività si sono confrontate. In questo Nikolay Oleinikov ha fatto un lavoro straordinario, riuscendo a creare un ambiente visivo che mappa e traduce le nostre relazioni e processi. Abbiamo scelto oggetti e opere che raccontassero (e rimettessero in gioco) i nostri metodi, le nostre investigazioni, con lo spirito di creare ancora una volta uno spazio-tempo dove poter continuare a ospitare incontri, dialoghi, workshops e aggregazioni informali tra ospiti internazionali e locali. Si entra nella mostra attraversando il nostro archivio, interpretato da Nikolay come una timeline, una linea del tempo che segue la cronologia delle nostre sessioni, non necessariamente in maniera lineare, ma multidimensionale e rizomatica come è stata la nostra esperienza. E’ una cartografia affettiva, un assemblage di frammenti, tracce, testi, immagini, oggetti, semi, bandiere, documentazione delle nostre azioni in collaborazione con Casa delle Agriculture, con gruppi di migranti, attivisti LGBTQI+, riforestatori e persone attive nelle lotte intersezionali, qui in Puglia e altrove.  Con domanda con cui siamo partiti nel 2013 e che rimane attuale e urgente: “Come vogliamo vivere?”  

Con quali artisti vi siete interfacciati agli inizi?

La prima sessione delle attività è stata avviata nella mia casa a San Cesario con tre diversi gruppi di lavoro. Il primo con Adrian Paci, una messa in questione della rappresentazione, finita poi a parlare di temporalità del processo artistico dal film al mosaico. Un secondo gruppo con Rene Gabri e Ayreen Anastas, artisti e film makers anarchici che hanno sempre lavorato sulle questioni del bene comune. Con loro portiamo avanti un’investigazione sulla produzione di cibo, andando ad incontrare tutti i contadini che lavorano la terra in maniera naturale, rispettando il suolo e il lavoro. Da questo momento è iniziato l’innamoramento con Casa delle Agriculture, un matrimonio che ancora dura!  Per la nostra seconda sessione ci si trasferisce a Castiglione d’Otranto, dove fondiamo insieme il “Parco dei frutti minori” che allora era solo un campo incolto con un garage, e adesso è il vivaio della biodiversità, un giardino di piante medicinali e di sperimentazione di agronomia evolutiva, una cucina comune e un laboratorio didattico multifunzionale. Tra i primi artisti che ci hanno affiancato e che si sono radicati nel processo c’è Luigi Coppola (di cui in mostra sono diversi banner e il recente ciclo pittorico Vinculuum sulla cura degli ulivi affetti da CoDiRO. O Emilio Fantin, qui con un lavoro sul perdono alla soglia tra morte, sonno e sogno: una riflessione personale in linea con la ricerca sul rapporto con la morte proposta dal gruppo Lu Cafauso (che include anche Cesare Pietroiusti, Luigi Negro, Luigi Presicce, Giancarlo Norese) di cui è visibile il video del momento conclusivo con “La festa dei vivi che riflettono sulla morte”, quell’anno una camminata di notte al buio e in silenzio sulla costa portando con noi una persona estinta.

Nel confronto con la comunità locale, avete coinvolto spesso anche i migranti…

Ci siamo chiesti quali fossero le comunità di lotta e di pratica che volevamo invitare nel nostro processo. Dal secondo anno abbiamo sentito il bisogno di aprirci ulteriormente e riflettere sulle questioni della migrazione con chi la attraversa. Gli stendardi al centro del primo ambiente, ad esempio, sono stati realizzati per una edizione della “Notte Verde” a Castiglione d’Otranto da Luigi Coppola e Isabella Faggiano insieme ad un gruppo di donne maghrebine. Così sono nati anche i murales collettivi in quel paese. Ma in particolare con gli artisti sonori Ultra-red e una ONG locale che lavora nell’accoglienza dei migranti abbiamo cominciato una investigazione che ha portato ad una collaborazione duratura e ad analisi efficaci anche perché si potesse intervenire con azioni pratiche e di solidarietà. Ultra-red usa la metodologia delle passeggiate sonore, facilita le conversazioni attraverso oggetti sonori registrati e riascoltati con le comunità, nei luoghi in cui loro ci portavano. Nei nostri discorsi inizia ad emergere anche la questione di genere e dei generi: uno dei membri di Ultra-red fa parte delle comunità LGBT nera di New York, e ci introduce all’estetica del ballroom, al vogue e alle sfide tra “famiglie diverse”, un lessico che oggi è iniziato ad entrare anche nel mainstream ma all’epoca era ancora di nicchia e riservato alla comunità interessate. Questo ci portò a lavorare con le comunità queer e non binarie. Il corpo e le pratiche somatiche sono sempre state nel nostro curriculum, sia perché con i migranti spesso non avevamo una lingua in comune, ma anche perché il trauma abita e si riproduce nei corpi, le emozioni e le energie si generano nel corpo, che ha una sua capacità di cura e di guarigione che ormai disconosciamo, e che è tra le cose che dobbiamo reimparare. Per passare poi da un corpo individuale ad un corpo collettivo, per abbandonare le singolarità e ricostituirsi come un noi più allargato, la danza, il teatro, il canto, il gioco, e pratiche come la deriva, le passeggiate in luoghi selvatici, lavorare la terra, cucinare, ci sono state molto utili. 

Proseguiamo il nostro viaggio nel tempo, seguendo le tracce della mostra

Nel 2015 il comune di Lecce ci ha mette a disposizione un edificio dismesso, lo Scipione Ammirato che noi battezziamo “Ammirato Culture House”: uno spazio per residenze e ricerca che attiviamo in collaborazione con collettivi locali dove anche la Free home prosegue accogliendo le dinamiche del quartiere e dei suoi abitanti. La Fondazione canadese Musagetes, che ci ha supportato dal primo anno, ha sostenuto anche tutte le attività che abbiamo svolto all’interno di questo spazio. Però purtroppo, dopo cinque anni, inspiegabilmente dato il nostro impegno di accoglienza e accessibilità, la struttura ci è stata tolta e quel che è più triste e che è ancora vuota. A causa dell’inadeguata risposta delle istituzioni locali, abbiamo perso il sostegno di Musagetes che si aspettava una triangolazione con enti locali. Siamo in buoni rapporti ma considerano rischioso il lavoro qui e oggi supportano questa rassegna.
Nel 2016 si continua a lavorare con i richiedenti asilo. La grande maschera che campeggia su una parete è stata realizzata con Claire Dolan del Bread and Puppet, una storica compagnia di teatro di marionette con sede nel Vermont. Con loro facciamo anche un cabaret brechtiano. Presto però ci rendiamo conto che non potevamo essere noi bianchi, occidentali, privilegiati, a guidare le sessioni con le persone migranti. Allora iniziamo ad invitare artisti e attivisti con esperienza personale delle migrazioni e soprattutto con prospettive non europee. Ad esempio Sista Oloruntoyin, performer e attivista originariamente della Sierra Leone, parte del gruppo Arrivati e Schwabinggrad Ballet di Amburgo, che ci introduce ai saperi ancestrali afrocentrici e decoloniali, alle questioni della riparazione e della giustizia sociale dei popoli che hanno subito e ancora subiscono la colonizzazione. Succede anche che nel 2017 i contadini di Casa delle Agriculture vogliono inserire gli animali nella loro pratica: allora noi invitiamo Fernando Garcia Dory, artista spagnolo agro-ecologico del collettivo Inland, che ha fondato la scuola dei pastori. Al tempo stesso con il collettivo di designers e architetti Constructlab creiamo delle strutture temporanee che utilizzano la cultura materiale locale, gli scarti agricoli, i mobili dismessi da scuole e abitanti e continuiamo con il nostro approccio ad imparare facendo. Tra i prototipi realizzati con loro, una cucina comune, il mercato dei frutti minori, un bagno ecologico, perché anche le feci umane possono essere un concime ricchissimo per creare biodiversità e fertilizzare il suolo. 

Arriviamo al 2018-2019…

In questo periodo invitiamo un poeta visivo straordinario, anche lui rifugiato politico in quanto omosessuale, Babi Badalov, originario dell’Arzebaigian. Approfondiamo l’investigazione sul femminismo lavorando con studiose e artiste assieme alla filosofa Silvia Federici che stava scrivendo l’ultimo libro, “Alla periferia della pelle”. Di mattina noi ci scambiavamo le nostre pratiche, il pomeriggio lei ci portava i suoi testi e li discutevamo. Nel Salento abbiamo invitato inoltre Francoise Verges che ci ha insegnato il femminismo decoloniale, come agiscono le intersezioni tra più oppressioni (razza, classe, genere, orientamento sessuale). 

Come avere reagito all’impossibilità di incontrarsi con lo scoppio della pandemia?

Abbiamo scritto un libro, When the roots start moving. Resonating with Zapatismo, (Archive Books) e fondato una radio online, Firefly frequencies insieme a Silvia Maglioni e Graeme Thomson, che è stata presentata nell’ultima Documenta a Kassel, dove poi ha finito per convogliare in una meta radio globale, la Lumbung radio, in cui sono riunite varie emissioni autonome. Negli spazi di San Francesco della Scarpa abbiamo ricreato quello che chiamiamo il confessionale, dove poter ascoltare sette trasmissioni, una delle quali raccoglie musiche e interventi di voci palestinesi. Dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, abbiamo ospitato Arkady Kots uno dei due collettivi russi di cui fa parte Nikolay, una band composta da attivisti ora in esilio. Tra loro, il poeta Kirill Medvedev che ha tradotto le poesie di Pasolini in russo. Nella loro permanenza da noi hanno lavorato con musicisti salentini, hanno prodotto dei video e girato l’Italia per spiegare la propria posizione contro la guerra. Hanno musicato una poesia che riecheggia in mostra accanto ad un grande arazzo col volto di Pasolini realizzato da Oleynikov con frammenti di stoffe. Altri due arazzi riempiono lo spazio, quello raffigurante Paulo Freire, educatore radicale rasiliano, esiliato che ha scritto uno dei nostri testi di riferimento, La Pedagogia degli Oppressi, e The Pink Panther Party, omaggio alle Black Panthers, il partito fondato per arginare il razzismo sistemico negli Stati Uniti. Nikolay fa parte anche di un altro collettivo, più conosciuto nel mondo dell’arte – Chto Delat- di cui ospitiamo la trilogia filmica che nasce dalla loro ricerca sullo Zapatismo.
Il primo film The New Dead End, n. 17 è nella collezione permanente del museo Reina Sofia di Madrid. Il loro secondo film, Gente di Farina, Acqua e Sale, fugirato con noi a Castiglione d’Otranto assieme ad attivisti di Casa delle Agriculture, un gruppo di migranti e di giovani artisti. Il terzo film, About the footprints, what we hide in the pockets and other shadows of hope, è invece girato in Grecia con la scuola di solidarietà del Pireo e un gruppo di migranti. 

In una stanza all’ingresso è documentata un’altra azione di denuncia, che vi vede attualmente molto impegnati sul territorio: di che cosa si tratta?

L’ultima nostra inchiesta è presente in mostra come presidio per la difesa del bosco di Arneo: 200 ettari di un habitat protetto dalla UE, l’ultimo lembo di una foresta antica nel Salento, che la Porsche vorrebbe abbattere per costruire nuove piste per testare le auto elettriche. Un ecocidio contro cui ci siamo mobilitati anche coinvolgendo artisti internazionali, come OIiver Ressler, regista e attivista che da trent’anni filma i movimenti sociali e ambientalisti, a cui abbiamo commissionato un film, e gli Ultra red che hanno condotto una investigazione sonora e momenti di analisi partecipata con gli attivisti. 

La mostra dura diversi mesi, ma si rinnova anche in rapporto al fitto calendario di incontri, laboratori, performance, che si svolgono anche quotidianamente, cambiando spesso aspetto con un format sperimentale. Com’è stato concepito?

Le installazioni sono state tutte create con materiale dismesso dal museo Castromediano. Abbiamo recuperato gli scarti di precedenti installazioni. Zip group – artisti e architetti russi esuli in Germania – e l’artista designer Basak Tuna hanno creato delle strutture mobili, un display molto evocativo ma anche funzionale, su ruote ad ospitare alcune opere e consentirci di lavorare, ospitare workshop, riorganizzare la nostra biblioteca. Così il trabattello diventa un cavallo di Troia, un pulpito dedicato a Santa ACABia (una Santa inventata che protegge i ribelli e chi manifesta in tempi di decreti sicurezza e di repressione, a chi si oppone ai regimi in tutto il mondo); dentro una costruzione che evoca una tenda si possono leggere riviste e libri che cambiamo settimanalmente. All’ingresso c’è anche una biblioteca che accoglie testi di pedagogia radicale, femminismi, lotte sociali, agro-ecologia, teoria queer, letteratura Indigena e i nostri temi di studio. Sull’altare della chiesa abbiamo messo il chioschetto del D.J. fatto con porte recuperate. 

Come sta rispondendo il pubblico a queste sollecitazioni? 

Abbiamo ormai un pubblico di giovanissimi fidelizzato che viene qui a fare le proprie jam sessions.  Di regola la mostra è aperta tutti i giorni dalle 17 alle 20, ma adesso i ragazzi gestiscono lo spazio aprendolo anche di mattina. Si è creata un’energia incredibile, qui vengono a fare le assemblee studentesche. A sorpresa, hanno montato anche un grande trapezio dove con una performer apprendono la ginnastica aerea.
Possiamo dire che la mostra in realtà è un laboratorio, un presidio, e la nostra una programmazione condivisa che si costruisce anche sulle proposte dal basso e in risposta ai desideri che emergono. San Francesco della Scarpa è diventato un punto di riferimento e un luogo di ritrovo, ogni giorno arriva qualcuno a presentarci un’idea, una ricerca, artisti, poeti, musicisti, performer ma anche scienziati, educatori, filosofi, antropologhe e psicoterapeuti … La proposta che ci ha più toccato ultimamente è arrivata da un gruppo di studenti del liceo, che hanno cominciato ad usare il nostro spazio per raccogliere vestiti da distribuire ai senza tetto che visitano settimanalmente e con cui vorrebbero organizzare una cena sociale. Non è meraviglioso quanto l’arte possa fare?