1. Le vere tristezze scorrono alla luce del cinema. Un po’ come le voci delle visioni che senza luce non si fanno udire. “Raramente le sento senza luce”, notava Aki Kaurismaki a proposito delle sue voci. “Ho gli occhi abbagliati, gemo e sospiro”, scrive la sceneggiatura di Foglie al vento; il che non gli impedisce di definire lo sguardo del protagonista oscurato dal desiderio di lacrime che non scorrono mai e di solitudine solo nell’assenza e nel silenzio della vita sociale. Plorans, ploravit in nocte. Qualificando la vita notturna di Helsinki come oscura, A.K. non coltiva il pleonasmo, ma tiene a precisare l’insistenza della sua immagine-scrittura. Se, infatti, in ogni malinconia di Foglie al vento vi è un’attesa infinita, una promessa di luce che mai risplende, vi è anche in ciascuna il ricordo del buio. Tante notti sono illuminate dalle lacrime non espresse. Per lo sguardo cinematografico gli occhi sono luce che si offre all’ombra del cinema, oscurati dalla sua prigione del tempo, annuvolati dalla disperazione silenziosa della città ostile. Lo stato imperfetto dell’attore di A.K., sono gli occhi in assenza di lucciconi levati verso il vuoto dello spazio cittadino; non solo l’ombra vi si attesta con la lentezza della ripresa, ma perdendo il suo fulgore, si spande, diventa coltre apparentemente serena, ma lo stesso movimento della macchina da presa indica forse meno una sublimazione che un ricordo, quello della terra, dell’oscurità che quegli occhi tristi hanno lasciato: è un movimento colto nel suo stesso divenire-macchina. Questo dialogo tra i vuoti della tristezza e l’ombra della morte, l’artista finlandese, lo cerca a tastoni, lo costruisce in una luce velata che lungi da offuscare la visione, lo rende anzi più vivo. Paradosso dei colori slavati, metafora del b/n smorzato nella cromia assente, ha la sua parte di responsabilità in quello strano avvampare della notte. Essa è spesso l’ultimo rifugio della luce del cinema, in quella oscurità cupa nella quale prende dimora il silenzio. La luce della povertà e della risata splende nelle tenebre del progresso e le lacrime l’aiutano a non soccombere, operando quel giudizio di cui parla quel passante: rendono visibile l’invisibile a coloro che credevano di non vedere.
La fortuna di Aki Kaurismäki non è stata sinora pari al suo valore intellettuale. Una peculiarità ha contraddistinto le vicende della sua ricezione: l’assenza di una popolarità diffusa che lo ha relegato al destino della parodia. Secondo M. Bachtin, la parodia implica la creazione di un sosia che “scorona” l’eroe principale, l’affermazione di un mondo alla rovescia; come la satira sembra risalire al comico carnascialesco, in cui ogni valore gerarchico tradizionale è dissacrato, deriso e ribaltato. In senso più ampio, si ha parodia quando l’imitazione intenzionale di un testo, di un personaggio, di un motivo ecc. viene condotta in termini ironici, per mettere in risalto il distacco dal modello e il suo rovesciamento critico. In termini cinematografici, la parodia comporta sempre una transcodificazione. Infatti, l’etimologia dal greco si basa su para (= vicino) e oidè (= canto). Ciò torna in linea con la natura di A.K., quella che nel linguaggio assemblativo finlandese rifugge dagli schemi populisti (nella demagogia) e preferisce rifugiarsi dentro gli orizzonti di una cultura ambigua, sdoppiata, dissociata e spesso “controcorrente nella velocità passeggera della corrente”, ma anche post-moderna in una «nostalgia slanguage della modernità».
A.K. ama le figure eretiche (ed ultime) e a loro si sente affratellato nel segno di un gusto stravagante che alimenta con vaste e profonde letture poi meditate e dismesse, lontano dal chiuso delle sale cinematografiche, ma piuttosto nei luoghi aperti della vita degli sfruttati, con le donne che lottano per la sopravvivenza o, al più, nei cenacoli della solitudine e dell’emarginazione sociale metropolitana. Di lei si sa solo il nome, Ansa. Di lui solo il cognome, Holappa. Le loro vite sono inferiori a qualsiasi forma di mediocrità; la periferia di Helsinki è calata nella durezza del conflitto silenzioso, respingente, per chi cerca e perde lavoro, per chi è sola e si tiene stretta l’unica ventura di un monolocale ereditato dalla zia. Eppure, i due diventano primi attori di una storia unica, raccontata con perspicacia e irrisione da quel regista finlandese che da decenni ci chiama a osservare il mondo oltre le apparenze, rivelandoci che la veridicità non è quella che si scorge nella rappresentazione cinematografica, ma che si nasconde sotto la coltre delle consuetudini, degli interstizi, delle apparenze lancinanti e delle formalità sociali.
C’è una scrittura scenica in Foglie al vento che custodisce il senso della filosofia di Aki Kaurismäki. Holappa, sbronzo marcio come al solito, sta dormendo su una panchina della fermata del tram. Nel frattempo Ansa gli passa vicino e cerca di smuoverlo, ma scoraggiata sale sul tram che nel frattempo è arrivato. Il riflesso delle luci degli sportellini del tram forma sul corpo dell’interprete il procedere di una pellicola, come se da quel momento in poi il Cinema si preparasse a dare una nuova vita a delle presenze devastate dalla miseria. La storia è gettata tra le indefinizioni tra moderno e post-moderno: due anime sole, Ansa e Holappa, perse nelle loro disgrazie di lavoro e private, riconoscono l’attrazione della vita nella presenza dell’altro. Lei salta di dovere in dovere salariato per potersi permettere di sopravvivere, lui fa l’operaio, ma ha uno spossante etilismo che lo tormenta. Un bar-karaoke è il luogo del meet-cute, la scalogna è l’antagonista principale. La trama e le premesse sono quelle del più classico dei film romantici americani, ma non dobbiamo dimenticarci che si sta parlando di un autore europeo, che ha dimestichezza con l’impiego del linguaggio critico, giocato fra considerazioni diverse del tempo storico e dell’attualità. La parodia non è stata ancora indagata come forma di partecipazione e apertura alla modernità che ha segnato profondamente la sua scrittura filmica.
Si può parlare, in un certo senso, di A.K. come vittima della sua stessa “strategia parodica”; troppo forte è stata la capacità anticipatrice, per cui si è trovato in dissenso col tempo del post-moderno e contemporaneo di un realismo grottesco, che ha messo in pratica le sue idee “desolanti” quando in lui andavano prendendo un’altra piega. Si veda ad esempio il rapporto col mondo “stemperato del conflitto”, del quale A.K. è stato presentato come il cantore entusiasta in un fideismo senza dubbi. In verità, Aki ha scorto i limiti delle sue procedure e, soprattutto, ha guardato agli anni ’80 e agli anni ’90, del secolo scorso, senza valori di assolutezza, ma dentro il rapporto inevitabile col mondo finlandese che vanta la forza di una dissociazione linguistica e territoriale.
Questo suo pensiero è tradotto nella prassi di una poetica contrastata tra il caldo e il freddo dell’idioletto parodico, per la quale funge da emblema l’ultima collaborazione con Anna e Kaisa e la forma comunicativa delle Maustetytöt! Del resto qual è la sua vocazione, fare il “parodista crudele e impassibile”, cioè imparare bene un mestiere antico e di esercitarlo in un giro ristretto dello spettacolo, con provocazione e un po’ di affetto per la giustizia sociale. Il rapporto tra autore e opera d’arte si riproduce in ogni momento uguale a se stesso nella consapevolezza che l’opera d’arte sia espressione particolare delle relazioni sociali che l’autore ha, e che la sua produzione artistica è sempre espressione di queste relazioni sociali.
Ma per capire cos’è ab origine questa traccia umana, ossia: “la funzione autore” presente in ogni espressione artistica, è bene rifarsi a ciò che scrive Foucault su quella figura misteriosa che è lo “scrittore”: «la traccia dello scrittore sta solo nella singolarità della sua assenza; a lui spetta il ruolo del morto nel gioco della scrittura». Da tempo ormai la scrittura filmica e il montaggio «hanno preso atto di questa scomparsa o di questa morte dell’autore». Nella sua opera di critica lucidissima dei caratteri di una modernità colta al suo declino, Walter Benjamin, appassionato collezionista, attento ai valori dell’infanzia, si rifà allo spirito ludico/letterario dei surrealisti (basti pensare a quel divertissement collettivo detto del “cadavre exquis”, così come ai collages e ai calligrammes), scopre essere questi non semplici giochetti artistici ma “jeux d’esprit”: autentici esperimenti magici con le parole. E il discorso è simile per la manipolazione delle immagini e dello stile con cui operano i registi sperimentali (da Èjzenštein a Hans Richter fino a Jean-Luc Godard, quest’ultimo citato da Aki in Foglie al vento) dell’arte cinematografica in straordinaria ascesa. Tra sogno e necessità si tentava di puntellare, come in una “Terra desolata” (Eliot, 1922), la nostra realtà frammentata, nel tentativo di osteggiare la perdita progressiva dell’io e l’estrema reificazione dell’esistenza umana, con l’inasprimento interno della riflessione critica e la restituzione creativa. Tentativo estremo di salvare il salvabile alla luce di un diktat parodico. In Strada a senso unico Benjamin confessa: «Le citazioni, nel mio lavoro, sono come briganti ai bordi della strada, che balzano fuori armati e strappano l’assenso all’ozioso viandante» (W. Benjamin, Einaudi, Torino, 2006, p. 61). Nel caso di Foglie al vento, si è scelto persino la precettrice, cui con suggestione bressoniana ha pensato di dedicare un carme intitolato: Syntynyt suruun ja puettu pettymyksen (Nata nel dolore, vestita di disillusione), nel quale esaltare i suoi bisogni di rivendicazione, anzi dentro il valore aggiunto della sua effervescenza creativa, che dava senso e prospettiva alla cultura umanistica finlandese delle “altre donne”, delle femmine del silenzio proletario e della sparizione di classe! Verso la fine del film sul palco di un club fa la sua fulminante apparizione il duo indie-pop Maustetytöt, formato dalle sorelle Anna Karjalainen (chitarra) e Kaisa Karjalainen (tastiere). Sono lì per cantare l’inno al dolore e alla delusione. La canzone, con versi come: “Tu mi piaci ma è me che non sopporto / Non ho bisogno degli altri, non so tu”, riflette del tutto l’isolamento inesprimibile che percorre il film, quella “commozione arterata” che ci deve essere di più nella vita. Soddisferebbe sapere dove cercare. Kaurismäki da anni ama la musica di questo duo e ora le ha volute in Foglie al vento come interpreti di un sentimento di “arterità”, che ci dà la netta percezione che i finlandesi non hanno la forza di descrivere le emozioni in forma diretta. Nel 2019 l’album d’esordio Kaikki tiet vievät Peltolaan (Tutte le strade portano alla …) è subito diventato l’album più venduto in Finlandia. Schematico fin dal titolo, Peltola è il reparto psichiatrico dell’ospedale di Oulu, dove si ritrova parte della dimensione psicologica percepita da Foglie al vento. L’album ha gettato le basi per la disorientante poetica nutrita di realtà, umorismo (all’apparenza spesso involontario), inquietudine, depressione, irrisione (non per niente la traduzione del loro nome in inglese è Spice Girls).
Il lavoro registico di A.K. si è svolto a stretto contatto con l’industria post-moderna, anzi dentro; qui egli ha portato il valore aggiunto della sua effervescenza. A.K. aveva perso terreno sotto il fuoco di una duplice visionarietà post-moderna. Ora i tempi sono maturi per superarlo. Da una parte l’indirizzo strettamente materialistico incontra sempre più voci critiche in una coscienza oppositiva verso il cinismo del capitale e fa propendere (il gioco è duro) per il recupero di quella componente umana, linguistica e culturale. Sembrano affacciarsi – con Foglie al vento – le condizioni per realizzare il sogno del regista. D’altra parte, la crisi del post-moderno intacca le certezze del grottesco, favorendo le necessarie aperture alla critica della vita quotidiana. È tempo di un ritorno ai presupposti del Free Cinema, figure da scandagliare nella pienezza delle loro potenzialità di intellettuale impegnato, capace di rispondere alle disperazioni di un mondo complesso. Egli ha capito per tempo il danno che procura chiudersi nella settorializzazione; più vale tracciare i sentieri di un’intera medialità che solo garantisce lo spirito unitario tra specializzazione artistica e universalità del cinema. Per A.K. una visione del mondo è quell’insieme di aspirazioni, di sentimenti e di idee che riunisce i membri di un gruppo sociale e li oppone ad altri gruppi: le visioni del mondo si manifestano attraverso certe forme che costituiscono la loro espressione coerente e adeguata – al contempo individuale e sociale – sul piano del comportamento, del concetto o dell’immaginazione.
Lo scopo del realismo post-parodico è, in tale direzione, quello di rilevare i rapporti tra la visione del mondo come struttura concettuale costruita e l’opera come universo formato di esseri e cose. Il fatto che rappresentazioni molteplici si manifestino come l’unicità di Foglie al vento fa pensare effettivamente a una metodologia critica capace di spiegare i caratteri propri di questa messa in opera. Il problema della strutturazione di una storia, come Foglie al vento, reale e diseredata, depressa e verosimile, appartiene dunque a un oggettivismo sociologico, dal momento che tale strutturazione non potrebbe essere se non collettiva.
2. A visione terminata, Foglie al vento rimane in noi come un avvolgersi oscuro di sentimenti e sorrisi, d’ironia o di aperta battuta umoristica; ma che cos’è, alla fine, questo buffo ma drammatico racconto di A.K.? Uno scherzo puro e semplice? Un libero lasciar andare, al di fuori dei freni imposti e accettati da un costume cinematografico, di alcune baluginanti fantasie del regista in qualche sera di qualche anno attuale? Tutti noi che scriviamo sentiamo talvolta un estro che si sfrenerebbe in parole per il cinema ed in pagine di rancore sentimentale, se non lo tenesse fermo la nostra serietà, la coscienza dura di noi, ed anche forse chissà, una certa nostra buia paura.
Ora, A.K. non ha avuto timori; e di questo gli va resa sicura lode. D’altra parte, non bisogna, a mio parere, ridurre Foglie al Vento a semplice poema drammatico di regista che vuole stupire i suoi provinciali uditori (e forse anche un po’ se stesso), perché in questo film vi è qualche dialogo sfuggente come lo zefiro, che testimonia di A.K. regista vero nella verità dell’esistente, preannunciando il futuro autore di Crime and Punishment (1983), Ombre nel paradiso (1986), Miracolo a Le Havre (2011) o L’altro volto della speranza (2017). Altrove, invece il film ha soltanto un interesse estraneo a quello della scrittura filmica e le immagini di Foglie al vento si susseguono quasi aritmiche di uno stato d’animo, e precisamente dello stato d’animo di A.K., senza che si giunga ad una vera confessione ma rimanendo fissi al luogo di uno sfogo senza intimi risentimenti. Vi è nei tormentati di A.K. un senso di inquieta ricerca, per cui non è facile individuare qual è la passione trainante. Essi cercano a tastoni lungo le pareti della “vita stentata”, dove tutto possiede un disvalore finché non è sopraffatto da un altro successivo disvalore. Questa cosa qui è il realismo esistenziale di Foglie al vento. L’esistenza realistica e slanguage è stato ed è un lavoro importante per A.K. e le sorelle Anna e Kasia Karjalainen, cresciute nell’Ostrobtnia settentrionale e capaci di evocare sentimenti molto particolari e ricercati, infatti in uno scontro di lingue agglutinante, si presentano con le seguenti parole:
“Caffè ammuffito nella padella / E un piatto sul pavimento / La pioggia lava le finestre / Non è necessario lavarle / Non c'è più niente che impedisca di andare / Ma sono come gettata nel cemento fino alle ginocchia / Un peso invisibile da mille chilogrammi sulla schiena / Non so se riuscirò ad arrivare alla tomba. / Sono prigioniera qui per sempre / Anche il cimitero è circondato da recinzioni / Quando il lavaggio del terreno / sarebbe finalmente finito / Ma scavano solo più in profondità nel terreno / Mi piaci ma non mi sopporto / Non ho bisogno degli altri, non so voi / Lo ammetterò se me ne vado / Lo faccio solo per me stessa / Scarpe estive ed una felpa grande col cappuccio / Al negozio locale a Pakse / Ne prenderò solo alcuni altri / Se ne avrò bisogno di più, lo farò di nuovo / Altrimenti, però, per lo più mi sdraio / Almeno non esco di casa senza motivo / Dimenticami, voglio stare sola / Sono nata nel dolore e sono vestita di delusione …"
Come non leggere, infatti, nel moltiplicarsi della cronaca interiore, nell’importanza assunta dall’aneddoto commovente, nell’alterazione che fa diseredare o ancora nella sfortuna di una lavoratrice emarginata, dei momenti che favoriscono la manifestazione di questi riti peculiari? Si piange, si ride, si partecipa e ci si sente così in comunione con l’insieme della solitudine sociale.
L’età del realismo invisibile. E del trompe-l’oeil delle “nate” nel dolore. La stessa ripresa di A.K. si compiace di rievocare stili alle origini del post-moderno, audacemente retrò, come se si trattasse di scoperte rivoluzionarie: necessario bisogno di didascalia. Il nostro destino è di scendere a patti con il realismo disperato e concreto di A.K.. E con l’illusione di una ripresa della lotta di classe, ma la più grande illusione, l’illusione post-moderna, è che si possa essere insieme moderni sfruttati e pre-moderni sfruttatori. E la donna smarrita di Anna e Kaisa, sente sempre più conflittuale il desiderio di essere moderna, soprattutto per essere se stessa. Eppure, in Foglie al vento, anche la sincerità non può fare a meno dell’artificio. Assediato da ogni lato da miraggi invisibili, la donna finlandese di A.K. percepisce il reale come iper-reale freddo, glaciale, malinconicamente realista. È questo il paradosso per cui la vita della protagonista di Foglie al vento ci appare uno spettacolo funebre e selvaggio, mentre la nostra esistenza – davanti alla macchina da presa di A.K. – scorre lenta ed insignificante: la fascinazione del realismo slanguage, il piacere del grottesco con cui segniamo le imprese sempre più impossibili degli eroi-sottoproletari dei nostri giorni, si trasforma in aperto imbarazzo se li incontriamo sullo schermo contemporaneo. La coscienza cinematografica di A.K. ci rende vili; si esalta alle imprese del riscatto femminile operaio, ma si ribella con raccapriccio all’idea che essi escano dal circo. Per questo la nostra età, l’età del circolo vizioso (non alla Nietzsche o alla Pierre Klossowski) che schiaccia l’eccitazione con l’orrore, è un’età di realismo invisibile, didascalico (in senso positivo, direi quasi virgiliano) e catastrofico.
Catastrofico … nome magico per la strategia post-moderna. Vuol dire manieristicamente sofisticato, ingenuo e inevitabile, gettato nel cemento, egoista per bisogno, trasparente come un “cimitero circondato da recinzioni”, schivo e spudorato, ribollente e calmo, disperato e ambiguo. Come l’eroina che conquista e perde la donna di A.K. non riesce a vivere per se, ma solo in funzione del suo desiderio disperato di attendere la condivisione della disperazione e della solitudine. È una donna che supera sempre se stessa e nello stesso tempo sfugge di continuo a se stessa. Nella sua leggenda di lavoratrice sfruttata si trova l’eco di tanto tormento: ella, infatti, sa e deve sapere che è destinata a soccombere nel bisogno irrealizzato, nella necessità che non può spingersi altrove, eternamente irredenta. Vittima sacra, eroina né umana né divina, ubriaca di offese come i guerrieri comunisti immolati nella rivoluzione d’ottobre, la donna di A.K. s’immerge nel suo destino slanguage come offesa dal dolore, come un pesce in un mare inquinato, incontro ad un fine senza fine che la muta in ulteriore metafora linguistica.
Non dimentichiamo che A.K. si fece notare in tutto il mondo con un film post-moderno: Ariel (1989) e il bressoniano La fiammiferaia (1990). La sua tendenza al teatro artaudiano è impassibile, legata in parte all’affetto per la musica rock e il pantagruelico giovanile, il bisogno di realismo distorto si può trovare allo stato puro in Leningrad Cowboy Go America (1989), mentre si catapulta in gocce di ironia in Vita da Bohème (1992), Nuvole in viaggio (1996), L’uomo senza passato (2002) e Le luci della sera (2006). «L’ennesimo perdente» di A.K. è un guardiano notturno che si innamora di una donna che lo coinvolge nella rapina di una gioielleria (Le luci della sera, 2006). La sua apologia di fotogenie marginali e offese, la maniera nera delle citazioni impiegate e il grottesco della classe media, l’hanno reso un regista pronto alle “foglie al vento”, nella catastrofe europea attuale. Questo è un vero e proprio identikit cinematico (e climatico), un linguaggio transitivo, perché esso assume realmente il corpo della Finlandia (leggi anche condizione Europea) come un conflitto sulla via della comprensione della vita altrui, delle percezioni, degli stati interni, dei sentimenti degli altri. Il corpo del cinema ha così finito per incarnare la doppia valenza del piacere/dolore che rappresenta la tenebra che è in noi stessi. La tenebra che è nella nostra immagine del mondo, che è stata trasferita ed esteriorizzata nell’immagine altrui. Così l’immagine altrui, irraggiungibile per via del dolore altrui, è in realtà il nostro doppio oscuro. Questa proiezione della nostra malinconia sul corpo degli altri rimanda alla mancanza a cogliere quelle connessioni tra le scene del film e le angosce della vita quotidiana. Nella piega del sorriso di un attore di A.K. potrei riconoscere l’eventualità di un’azione drammatica. Così io connetto la fisionomia di quest’immagine alle mie esperienze del dolore e a quelle che ora sono presenti in me, a partire dalle quali io attribuisco un significato all’oggetto filmico. Nelle atmosfere del cinema di A.K., l’energia del vero dolore è un’energia profondamente giubilatoria, che frantuma l’ordine del contemporaneo. È in questa singolare dialettica che si colloca, anzi si disloca la nuova «malinconia realistica», in un chiaroscuro, in un colore senza gravità e in un tempo precario. Immobili nella loro caduta, le sofferenze partecipano ad un movimento che non è più quello del cinema. Blaise Pascal non professa la sua fede, la piange. Solo la malinconia possiede questa intelligenza del cuore per testimoniare l’estasi della solitudine.