I tre progetti che compongono Entanglements (e il titolo è già di per sé indicativo: indicativo, non riduttivo), la nuova personale di Fiamma Montezemolo organizzata a Roma, da Magazzino, ferisce lo sguardo del visitatore con un alto grado di tensione riflessiva che non lascia scampo e che anzi rimanda immediatamente a quella «comunità di assenza» di cui parla Blanchot, «sempre pronta a trasformarsi in assenza di comunità», in buio di reciprocità, in silenzio della condivisione, in principio di «un’umanità trasparente», immanente (dice Nancy).
Fiamma Montezemolo, Perucatti, Entanglements. MAGAZZINO 2020
Camminando su un fondo di disastri che va ben al di là della rovina e trasformando il sogno ad occhi aperti in un desiderio lieve di resistenza o quantomeno in una scossa capace di risvegliare il cervello intorpidito da un sistema di controllo sempre più impercettibile (e per questo massicciamente deleterio), Montezemolo pone al centro dell’attenzione una società imperfetta e ormai socialmente lacunosa, intesa appunto come Entanglements, come garbuglio, come reticolazione e interconnessione, come aggrovigliamento, come inevitabile coinvolgimento che tocca un dramma dove ognuno ha la sua parte nel disegnare, sul teatro della storia, lo spettacolo degli errori.
Fiamma Montezemolo, Green white red, Entanglements. MAGAZZINO 2020
Ad aprire la mostra è, solitario, in una prima sala, Progetto Perucatti (2018), struttura che richiama l’imponente carcere borbonico realizzato da Francesco Carpi (ispiratosi alle idee illuministe e dunque al panopticondi Jeremy Bentham, a sua volta nutritosi Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria) sull’isola di Santo Stefano, di fronte Ventotene, e contemporaneamente il rinnovamento apportato da Eugenio Perucatti proprio in questo luogo dimenticato dal mondo come il morente di Norbert Elias: sin dal suo arrivo sull’isola, come direttore (è l’agosto del 1952), Perucatti avvia infatti una rivoluzione radicale, riporta dignità in persone abbandonate, emarginate, allontanate dalla vita. Al centro del plastico realizzato da Fiamma Montezemolo in collaborazione con l’architetto José Parral, proprio su una finestra dell’unica torre che come un grande occhio osserva, ispeziona simultaneamente «tante gabbie, altrettanti piccoli teatri, in cui ogni attore è solo, perfettamente individuabile e costantemente visibile» (Foucault), ci sono delle apparizioni, delle immagini (un bambino sulla spiaggia, un viale alberato, un paesaggio o una marina): e queste immagini – qui si capisce lo spessore di un artista – nascono dalla rievocazione, dalla lettura delle cose scritte dai prigionieri nella loro vita ormai ridotta a miseria ma ancora aperta al desiderio di desiderare qualcosa di desiderabile.
Creando un sottile e tagliente cortocircuito – e con che eleganza! – tra gli studi sulla «degenerazione umana» così come ossessivamente studiata da Cesare Lombroso nel suo uomo delinquente in rapporto all’antropologia, alla giurisprudenza ed alla psichiatria (1876), l’asse si sposta, poi, giocando appunto sull’idea del criminale collegato al selvaggio e al primitivo dove sono presenti «tutti gli istinti più egoistici e più bestiali» («per assicurarci che gli istinti delicati vanno sempre scemando nella discesa della scala sociale, non è necessario fare un viaggio tra i selvaggi; basta che parliamo con gli inglesi della classe povera, con i nostri stessi domestici», avvisa Lombroso citando Bagehot), su un lavoro che lascia a bocca aperta, che illude e che illudendo ferisce perché uccide l’illusione stessa. Nell’installazione Il serpente(2019) Montezemolo parte infatti dallo studio che Lombroso apporta nel campo del tatuaggio («indizio gravissimo d’ozio e di immoralità») per depennare le sciatterie colonialistiche – come del resto le visioni eurocentriche dure a morire – e recuperare la figura del serpente emplumada (Quetzalcoatl, maggiore divinità mesoamericana) in un ambiente liberatorio, illuminato fiocamente da una costellazione di calaveras de barro negro (i teschi in creta nera tipici dell’artigianato di Oaxaca, se la memoria non mi inganna): qui lo spazio è umbratile e in un video, dal corpo di un carcerato etichettato da Lombroso, un tatuaggio a forma di serpente prende vita, diventa il dio della creazione.
Fiamma Montezemolo, Project Perucatti, Entanglements. MAGAZZINO 2020
Appena entrati nel cortile di via dei Prefetti 17, sulla destra, nella saletta che precede gli uffici della galleria, Green White Red (Mediterranean Blue) (2018) – ci troviamo in un luogo che precede le due riflessioni visive legate tra loro da un pensiero di cui si percepisce il suono (anche se per me è opera di chiusura questa poiché lancia sugli occhi tutto il peso del nostro pressante presente) – è un progetto che affonda nelle piaghe dell’attualità, ma con una valenza poetica che ha la capacità di riprendere il tema della bandiera (italiana) per dilatarlo e renderlo simbolo di accoglienza. Se a sinistra e a destra, in questo spazio-controspazio troviamo due riquadri colorati rispettivamente di rosso e di verde (l’artista crea una inversione del canonico verde-bianco-rosso giocando forse sul richiamo anche della bandiera francese o su quella della prima campagna d’Italia, è soltanto una mia supposizione), al centro il bianco lascia correre qualcosa: c’è un movimento cristallino azzurro marino acqueo che pone sulla piattaforma della riflessione il Mediterraneo e la sua storia recente, come pure la necessità di tornare con forza sulla soglia dell’accoglienza, dell’ospitalità.
Fiamma Montezemolo, Serpente, Entanglements. MAGAZZINO 2020
Fiamma Montezemolo
Entanglements
Fino al 31 gennaio 2020
MAGAZZINO
Via dei Prefetti, 17
00186 RomaT(+39)066875951
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