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Fare “The Mountain” a Roma

Se vogliamo cominciare da zero, dobbiamo rivolgerci alla gente del teatro prima che ai filosofi, ai politici e ai giornalisti. Forse il duro lavoro, la scarsità di beni, l’indigenza e la miseria delle Fake news fanno semplicemente parte dell’ombra dello spettacolo? Potrebbe essere così? Purtroppo non possiamo sfogliare un prontuario con tutte le risposte, perché non esiste; però possiamo diventare diffidenti nei confronti di Putin e del giornalista che lo supporta. Ci sono però i meme del teatro e, anche se nessuno ha ancora mai visto e vissuto un mondo (quasi senza teatro) con strumenti di recitazione pari alle repliche di una fake news, non possiamo certo disdegnare tale saggezza. Da sempre i personaggi del teatro pongono grandi domande sulla natura della democrazia politica, sulle sue predisposizioni e possibilità: Chi è Trump? Chi è Putin? Che cosa ci aspettiamo dalla loro passione per lo sport, per lo spettacolo e per la comunicazione politica?

Speciale Estate 024

La televisione e i nuovi media hanno una caratteristica che li spinge inesorabilmente verso i margini del sistema della comunicazione. Trasmettono solo ciò che è impastato di sangue e ciò che è distante da chi può guardare, ciò che altri han deciso di trasmettere. I bambini, come gli sparuti spettatori dell’happening teatrale sulle fake news, si accorgono immediatamente di questo limite. Vogliono vedere il treno assaltato dagli indiani e sono costretti a guardare i cavalli di una fake news. I bambini, purtroppo, sono costretti ad immergersi in una sorta di carcere informatico; vogliono vedere i cavalli e trovano il laghetto artificiale, i puffi robotici, tutto schermatico ma non i veri cavalli. Si piazzano allora davanti al televisore per diventare adulti, per rinunciare il più presto possibile alle fantasie. Per vivere da grandi, imbambolati davanti al teleschermo come gli adulti lo sono davanti all’eroicità del prossimo Presidente degli Stati Uniti d’America, oppure dinanzi alle congetture del caso Mallory-Everest!

Le fake news hanno il sapore delle prime sigarette, fumate non per bisogno né per gusto, ma per sentirsi grandi. Tutto sta nell’essere pronti a non capire e non agire, a subire le immagini mediali, i valori e gli umori di chi passa davanti al video. Come i grandi, che debbono mettere sullo stesso piano l’incidente Trump di questi giorni e lo spettacolo Mountain di Agrupación Señor Serrano (da qui in poi scritto ASS), presentato in anteprima il 10.10.2020 al Festival International des Arts Bordeaux Métropole (Produzione attualmente in tournée e recentemente a Roma: l’8 e il 9 luglio scorso, per l’inaugurazione del Festival “Sempre più Fuori” (8-19 luglio), all’Accademia Tedesca di Villa Massimo, con il sostegno dell’Institut Ramon Llull). Oggi, infatti, il consumo di Fake News è in declino e al fondo di esso c’è la sua impossibilità di base, collegata alla saturazione raggiunta dal pubblico verso recitazioni di Trump, Biden, Putin etc … che pur con maschere e occasioni teatrali diverse propongono sempre la stessa crisi, la stessa bugia e l’identico plot catastrofista. Nominare e dissezionare i problemi non è catastrofista. Esiste una tendenza che confonde i dati con la catastrofe. La catastrofe non sono i dati, anche quando sono pessimi. Ciò che è catastrofista è perdere la pulsione ed il desiderio intenso di essere vivi, di restare in vita. Ed è terribile, sul piano politico, non diffondere quella pulsione alla vita di tutti e tutte. Sarebbe catastrofista pensare che non ci sia niente da fare davanti ai dati, che noi esseri umani siamo un virus, che la storia sia già scritta e segnata da un meccanicismo energetico e mcluhaniano, climatico o di qualsiasi altro tipo, che il divenire materiale e politico segua una traiettoria inesorabile o inevitabile.

Foto dello spettacolo The Mountain – 8 luglio 2024, Roma – Villa Massimo

La storia non è scritta e potremmo fare in modo che succedano molte cose che evitino o mitighino le previsioni più negative. Il mondo occidentale è in crisi, il mondo globalizzato lo è di riverbero. Siamo affondati in una crisi ambientale, in una crisi sanitaria, in una crisi economica, sociale e soprattutto mediale (di conseguenza). Non è l’ansa di una curva periodica alla quale seguirebbe un picco di crescita. È qualcosa di più profondo. Se osserviamo il mondo con gli occhi dell’Occidente, si tratterebbe di coincidenze, si tratterebbe di ambiti non in rapporto diretto. L’evoluzione scientifica, la tecnoscienza vanno infatti avanti, forse miglioreranno ancora le aspettative di vita; forse miglioreranno ancora le possibilità evolutive della specie. Si parla di evoluzione culturale che ormai sappiamo essere intrecciata con quella biologica e con quella tecnica, ma la comunicazione fra gli esseri sociali non va! Siamo ibridi simbionti, esseri plurimi la cui individuazione è sempre più contaminata dalle coevoluzioni con altre specie (in primis, virus e batteri) e con l’ibridazione tecno-cognitiva che le macchine permettono. Macchine reali e macchine virtuali: entità algoritmiche capaci di agire autonomamente. Ma la crisi è quella di un modello mediale globale. In tanti anni di “Guerra delle Immagini” i vecchi e i new media non hanno saputo creare nulla di meglio delle fake news per distinguersi come “teatro sociale”. A tutt’oggi i programmi preferiti dai consumatori di vecchi e new media sono i telegiornali o le notizie di cronaca. Se cade il consumo di fake news non diminuisce invece il tempo che ciascuno dedica alle fandonie del teatro politico (o a quelle della politica teatral-liberale).

L’ultima trovata dello spettacolo multimediale Mountain, involontariamente, glossa a margine della futura vittoria del Presidente degli States e dell’incidente/performance di Trump durante un comizio a Butler, in Pennsylvania! Come rileva qualche testata giornalistica non allineata, il mondo oggi dispone di una sovracapacità produttiva e teatrale, e non si vede da dove possa venire la domanda che la riassorba. Che cosa c’è di più ambiguo, di più scomodo dell’inafferrabilità del senso della Fake che si cela sotto l’iconismo del Martirio Politico? Chi attraversa le fake new assume in sé una predisposizione al viaggio, sa che entra in un labirinto spettacolare molto intricato di rimandi e di riferimenti, ognuno dei quali lo interroga, lo scuote, allontana da lui la certezza che si possa pur giungere ad una verità data una volta per tutte. E questo accade tanto più se ci si immerge nella biblioteca della castroneria orchestrata dai cuochi dell’informazione, i cui database sono spesso volutamente cosparsi di performance e le pagine dei notiziari vengono appositamente disordinate. Così, accade che molti di coloro che si confrontano con la lingua del potere hanno imparato ad accedervi mediante una lettura trasversale, compiuta più sul corpo delle corbellerie imposte che sul significato, perché il senso non è della parola in quanto pronuncia del fatto politico, del mondo, della realtà, ma lo è come espressione della politica assoluta, in sé, che da tempo ha scartato l’umanità. Esiste la fondata convinzione che il senso delle fake abiti ai bordi del teatro, i confini di tutto il mondo e di tutte le cose; sia dentro lo spettacolo che fuori dallo spettacolo, perché gioco insensato del martirio di Trump, la cui produzione sfugge anche a chi volesse a tutti i costi sapere dove mai, o in quale luogo dell’happening si celi il gesto, o l’atto, che da il via allo spettacolo. Ma è forse possibile ingabbiare un senso di conquista della Casa Bianca così come per Putin le sorti dell’Ucraina? Nel lavoro di ricerca, documentato in questi anni dagli spettacoli di ASS, questa pare essere una delle interrogazioni cruciali.

The Mountain combina la prima spedizione sull’Everest, il cui successo è ancora oggi incerto, con Orson Welles che semina il panico nel suo programma radiofonico La guerra dei mondi; giocatori di badminton che giocano a baseball; un sito web di notizie false; un drone che scruta il pubblico; molta neve; schermi mobili; immagini frammentate; e Vladimir Putin che parla felicemente di fiducia e verità. C’è un’immagine ampiamente partecipata che oltrepassa la storia delle idee: salire una montagna, affrontare con successo tutte le difficoltà per toccare la vetta e una volta lì riuscire a vedere il mondo “così com’è”. Per assistere all’autenticità e non solo ad un teatro di ombre o riflessi. Nel mondo contemporaneo spesso sentiamo dire: “È davvero un’immagine bellissima”. “Ma è davvero così?” Spesso, osservando dall’alto verso il basso, non si vedono altro che nuvole e nebbia che ricoprono tutto o un paesaggio che cambia a seconda dell’ora del giorno o del tempo. Com’è allora quel mondo che vediamo da un’altura? L’ASS – in The Mountain – si chiede in maniera insistente: “Com’è questa verità? Esiste la verità? Si tratta di una vetta da incoronare e soddisfare, o piuttosto di un sentiero freddo e inospitale da scalare continuamente?”. Gli interrogativi del double coding di ASS si presentano, dunque, come una rete di idee, storie, immagini, azioni e concetti che sono alla base del tessuto drammaturgico di The Mountain. Con l’uso massiccio dei new media, dispiegati in superfici intricate che si mescolano creando connessioni inaspettate, l’opera si presenta come un’esplorazione non mappata del mito della verità. Lo spettacolo multimediale postmoderno si rivolge simultaneamente a un pubblico minoritario di elitè, usando codici dalla mediazione semi alta, e ad un pubblico di massa, usando codici popolari. La performance multimediale post-pop parla su almeno due livelli allo stesso tempo: rivolgendosi agli altri operatori teatrali e a una minoranza interessata che si intende di significati performatici specifici; ma anche al pubblico più ampio, o agli abitanti del luogo, i quali si interessano di altre cose, come l’incidenza delle fake news, le tradizioni dello spettacolo della politica e i modi di vita della menzogna vera e propria. The Mountain si presenta come un vero e proprio double coding, come lo definirebbe l’architetto postmoderno Ch. Jenks!

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In un clima politico sempre più esacerbato e conflittuale, con un Occidente e un Oriente ormai molto polarizzati dai conflitti americanisti ed extra americanisti, la violenza mediatica crescente, la situazione si fa ancora più critica e più simbolizzata dalle fake news. In particolare, il dibattito politico, scatenatosi dopo i proiettili esplosi qualche settimana fa, si è spostato nuovamente su X/Twitter, dove il patron della piattaforma, Elon Musk, ed altri imprenditori vicini all’ambiente del GOP, hanno espresso la loro solidarietà allo stato di rappresentazione teatrale americano. Il tweet con il quale il cinquantaduenne di Pretoria ha sostenuto Donald Trump ha ricevuto 118 milioni di views e 332.000 tretweet, superando i post di Barack Obama che allontanava la violenza dalla democrazia. Dopo la sparatoria, il magnate di Tesla ha appoggiato formalmente la candidatura di Trump, così come ha fatto il miliardario proprietario di Hedge Fund, Bill Ackman. Tra i nuovi supporter di Trump ci sono anche i venture capitalist David Sacks e Shaun Maguire, entrambi in relazione col dominio Musk. L’umanesimo animale e fintamente animalista, all’inizio del nuovo secolo pretende di abolire la discussione sulla violenza. Il suo argomento principe, con la cui ostinazione ci siamo spesso scontrati, è che il volere politico del sovrumano non ha generato che l’umano guerrafondaio e iperviolento. Non ci piove : ancora una volta la menzogna iconica, l’istantanea rivelatrice è destinata a entrare nell’Olimpo delle icone storiche-pop. La foto di Vucci firmata Associated Press ferma il simbolo di una rappresentazione ambigua, di una confusione, di una teatralità mediale che è autoreferente, è tautologica e a tratti sfiora l’insignificante. Nel male e nel bene frenare l’imago del Trump insanguinato significa confermare il lavoro indefinibile dell’informazione fotografica, significa edulcorare la drammaticità, l’essenzialità e la performance che si trasforma in icona della legge eroica. Come tutte le glosse a margine delle Fake News, come tutte le immagini che hanno accompagnato La Guerra dei Mondi e F for Fake, Mountain introduce il diritto allo scetticismo, il sostegno all’apologia e la rivalsa dell’AI sull’estetica del photoshop. Beh, perché noi non conosciamo la verità di Trump e neanche quella dell’Associated Press, ma non conosciamo neanche perché i democratici sono intransigenti guerrafondai e nemici dell’allarme climatico, così come non sappiamo perché Putin si trova meglio a dialogare con la sicurezza repubblicana. Quando gli agenti hanno fatto salire Trump su un SUV, mentre lui agitava ancora una volta il pugno, noi non capiamo cosa significa quel simbolo, ancora una volta l’epoca della riproducibilità tecnica ha aggiunto metasimboli su metasimboli, irrisolti e irrisolvibili.

C’è un aspetto che colpisce immediatamente guardando The Mountain, l’ultima fatica dell’ASS, ed è il fatto che si tratta di un testo sinceramente multimediale. Si potrebbe dire nuovo stile, con personaggi qualunque che parlano in modo mediatico di cose quotidiane, apparentemente banali, lontane dalle atmosfere a cui ci ha abituato buona parte della drammaturgia da fake news. Di getto verrebbe da dire che si tratta di una storia che annuncia la catastrofe. Per molti motivi che non credo qui necessario elencare, oggi l’aggettivo catastrofista potrebbe essere considerato in un’accezione non totalmente metafisica, ma nel caso di The Mountain deve essere proposto come un ragionamento slegato dal concetto politico-sociale ed emergente del fake. Come è risaputo in ambito teatrale esiste un vero e proprio genere di teatro multimediale, che descrive una forma drammatica che si sviluppò all’indomani della mediamorfosi, per proporre contenuti ed atmosfere sperimentali. Il teatro multimediale, infatti, abbandona il palcoscenico umanistico per concentrarsi su questioni in apparenza più quotidiane, quasi new domestic landscape, dando voce ad una classe di ambienti schermatici che dalla fine del ‘900 inizia ad avere un ruolo centrale nelle forme della recitazione e della dramatis personae. Come nel teatro della nuova spettacolarità o del teatro immagine, l’ambientazione di The Mountain è il quotidiano massmediatico o new media che si impone: si assiste ad un momento di esistenza “intermediale” di un gruppo sociale, in particolare in una dimensione di happening interattivo tra la compagnia e il pubblico, in un luogo che rappresenta in gran parte il nostro presente, ovvero un’agenzia di fake news.

Questa nuova drammaticità (proprio nel senso etimologico della parola) è costruita sull’osservazione precisa, specifica e puntuale di particolari di cronaca che orientano le fake news. Tutto questo viene costruito dal collettivo ASS, partendo da una storia di apparente ordinarietà che poi nel suo sviluppo non nasconde menzogne, incomprensioni e incomunicabilità, per quanto addolcite da mascheramenti, finzione e tenerezza, per lasciarci via via intuire che tutta quella tensione per l’Everest servono a combattere una precarietà che parla anche a noi, perché ci riguarda. Il lavoro lo conosciamo dal 2020, ma a Roma è arrivato solo ora e per rientrare nella verve multimediale si ispira alla storia di George Mallory (Mobberley, 18 giugno 1886- Everest, 8 giugno 1924). Chi era Mallory? Mallory è stato un alpinista britannico, famoso per aver preso parte alle prime spedizioni di conquista della vetta del Monte Everest: nel 1921, nel 1922 e nel 1924, spedizione in cui perde la vita. Il suo corpo fu ritrovato solo nel maggio 1999 quasi 75 anni dopo la sua morte. La possibilità che Mallory e il compagno di scalata Andrew Irvine abbiano raggiunto l’obiettivo (1924) rimane un enigma, alla base di numerose teorie e di una continua ricerca. C’è qualcuno che nel 2013 ha rivelato che già nel 1936 il corpo di Mallory fosse stato individuato, mentre invece nel 2010 lo storico Tom Hazel ha annunciato di aver localizzato il luogo in cui si troverebbe il corpo di Irvine. Su questo nucleo di mistero si fonda la storia che vorrebbero raccontare gli ASS, cucinando questo enigma storico con Orson Welles, con lo scrittore H.G. Wells e con le maschere di Putin ed altri politici annessi! Per saltare l’ostacolo della comunicazione simbolica e comprendere più a fondo le tematiche messe in campo da ASS sarebbe meglio leggere delle informazioni aggiornate su: le spedizioni dell’Everest, Orson Welles, le tecniche dei giocatori di Badminton (baseball), i siti web di fake news, i droni che spiano, perché cade la neve, gli schermi mobili, la mappatura delle immagini frammentate, l’appropriazionismo del filosofo del linguaggio che simula Putin e che ci parla di fiducia e verità.

Mi fa molto piacere rivedere The Mountain, ma se oggi mi mettessi seduto a scrivere un trattato sui movimenti illustrati in questa sceneggiatura multimediale, scriverei qualcosa di completamente trasversale alla medialità. La compagnia ASS è stata fondata da Alex Serrano a Barcellona nel 2006 ed è nata come momento di concentrazione e di lettura del contemporaneo. Gli strumenti di lavoro che amano utilizzare sono i medium tecnologici – innovativi e vintage – per produrre una sorta di teatro espanso dei mezzi misti. Un teatro espanso è un indistinto insieme di connotazioni che sono intenzionalmente attribuite ad un particolare gruppo di materiali da parte di artisti che possono o meno far parte di tale “gruppo di espansione”. È irrilevante la questione se gli artisti aderenti a questo approccio gradiscano o meno una simile identificazione al paradigma espanso. L’incipit dell’espanso è una categorizzazione emotiva oltre che tecno-mediale (vedi Gene Youngblood) e spesso lo sguardo ravvicinato dimostra che le scelte mediologiche sono intricate dal punto di vista concettuale. La post-avanguardia spesso nei suoi spettacoli appare tanto “critica” nei confronti di McLuhan quanto disancorata dalla specifica tradizione debordiana e situazionista. Una sensibilità è la consapevole attribuzione di un aperto e indefinibile insieme di convinzioni a un artista (in questo caso regista), o a un gruppo di registi-artisti-performer. È una categorizzazione emotiva, per molti versi simile a una tecnica di raggruppamento espanso, ma con connotazioni molto più positive. La tradizione degli happening multimediali interattivi è un insieme di convinzioni e usanze tramandate da una generazione all’altra (penso alla mia situazione italiana del Medialismo degli anni ’90 che tramite Tommaso Tozzi ha trasferito l’happening interattivo multimediale nell’esposizione pubblica), solitamente nella forma di pratiche specifiche e/o di un discorso concettuale-visivo (medialismo analitico da me teorizzato sin dal 1984-90-91). Ma le posizioni di cui ASS si è occupato in questo spettacolo, denominato The Mountain, fondono performance, testi video, suoni e modellini in scala per mettere in scena riflessioni concettuali sugli aspetti discordanti dell’esperienza umana di oggi. Nell’agosto del 2015, a ASS è stato conferito il Leone d’Argento per l’innovazione teatrale alla Biennale di Venezia. Ma cos’è oggi l’innovazione teatrale e artistica alla luce della catastrofe mass-mediatica che lo stesso ASS pare denunciare? Molto di ciò che è stato scritto sulla macchina multiteatrale o teatral-multimediale consiste semplicemente in aneddoti da una storia mitologizzata. Anche il giornalismo anglofono che ha cercato di rompere questo circolo vizioso adottando una tecnica di libere interpretazioni, ha dimostrato solo il fallimento della propria immaginazione tornando sempre sugli stessi episodi chiave dell’happening storico, di Fluxus, del teatro dei mezzi misti degli anni Sessanta e Settanta, dell’installazione video, dell’input del cinema digitale, etc … Vi sono numerose analogie tra il post-situazionismo di questi gruppi multimediali e il teatro di ricerca degli anni ’70. Non solo molte scritture sceniche rispecchiano con uno stile analogo a quello specto-virtualista degli anni 90, ma sono anche attratti dagli stessi temi. Per tornare alla tecnica della libera associazione multimediale, benché gli ASS la pongano nello stravolgimento, essa può dare risultati interessanti. Più di qualunque altra cosa, la pratica di espansione meta-mediale vuole trasformare il modo in cui percepiamo il mondo del quotidiano, tentando di sovvertire l’immagine del consenso. Da tempo, tra gli “economisti radicali”, è divenuto una banalità affermare che la scelta nel “libero mercato mediale” è già e sempre ideologica, che anziché esser “libera”, la scelta (che è inevitabilmente precondizionata) è un arbitrario valore aprioristico. Il libero mercato non è mai esistito, è una costruzione utopica designata a mascherare le vere forze sociali che danno forma all’economia. Storicamente, è proprio nella fase in cui “le arti” si emancipano dai vincoli del patronato divenendo arte nell’accezione moderna che la mercificazione della cultura porta alla possibilità di una sua autonomia ideologica e nasce l’istituzione per regolare il terreno della cultura. Ne consegue che oltre a criticare le fake news e la costruzione della menzogna contemporanea, la ricerca multimediale dovrebbe sviluppare una critica dei rapporti mercantili.

The Mountain

Mi sono avvicinato alla materia di The Mountain incontrando a Venezia – negli anni scorsi – una testimonianza d’eccezione del metodo. La forzatura del vero è infatti espressione unica dell’artista multimediale ed è da questo che ASS parte per riflettere sul fatto che il loro metodo deve rivolgersi non soltanto agli attori (che poi sarebbero gli animatori stessi della Compagnia) e quindi al teatro, ma all’essere artistico tout court in quanto ha come caratteristica intrinseca quella di esprimersi attraverso l’isolamento della verità fittizia: e questo processo deve essere significativo, deve scrivere nel tempo e nello spazio. Il loro è davvero un metodo fondato su un concetto semplice ma allo stesso tempo sorprendente: il recupero del nostro essere (nella fiction) spinti all’estremo della prova. Le diverse declinazioni del soggetto “verità contro la fabbricazione dell’attendibilità” sono tessute, intrecciate sul palco con grande provocazione fake (anche musicale, opera di Nico Roig) e grazie all’utilizzo di medium sovrapposti: recitazione dal vivo, videoproiezioni in differita, teatro di oggetti “table-top” con riprese live, elaborazioni sonore in tempo reale su voce, creazione di pagine social (informazionali) ingannevoli e face-swap, con una insidiosa maschera digitale putiniana calata sul volto di Anna Pérez Moya, i simulacri si animano. Il tutto con tre schermi di proiezione dall’installazione mobile, oltre a un eloquente corredo di artifici, attrezzature meccaniche e applicazioni digitali. Lo spettacolo fuoriesce dai suoi “quadri di esposizione” per 70 minuti, con pochi momenti di emotività e diverse parabole di insistenza ossessiva. Ed è proprio Vladimir Putin, interpretato dall’attrice principale (con una maschera proiettata in 3D), che ci porta tra le valutazioni più insidiose. Con una certa pungente ironia The Mountain ci mette dinanzi alla dura verità delle fake news. Buffo lo sketch in cui si annuncia un test rivolto al pubblico che deve decidere quale tra due notizie date sia vera o fraudolenta. Naturalmente, la votazione viene immediatamente interrotta con una enunciazione di potere: “I test sono fuori moda come la democrazia, non vi chiederemo di votare”. Oggi sembra molto più facile credere alle fake news, o alle ipotesi complottiste che dilagano sui social, anziché seguire il desiderio della vetta, ovvero cercare la verità attraverso il raggiungimento di un’esperienza autentica. Una missione impossibile nell’era della asocialità dei social. I social producono un mondo asociale: da qui due considerazioni. La prima: se Zuckerberg è uno degli uomini più potenti del teatro contemporaneo – pur non essendo stato eletto da nessuno e non avendo un contropotere democratico che ne bilanci e controlli il potere personale e d’impresa – ciò significa che miliardi di persone, a prescindere dai confini nazionali e dal potere dei rispettivi governi sono governate (cioè la loro vita è prodotta da una fiction, amministrata, addestrata, manipolata, guidata da un palcoscenico di fake news) da un autocrate, egocentrico, iper-narcisista, ladro di identità personali: incarnazione totale del Grande Fratello. Dovrebbe essere imbarazzante per ciascun componente di quei miliardi di persone, ma purtroppo non lo è. La credibilità è la moneta sonante della comunicazione e del teatro sociale, la condizione di opportunità di qualunque impresa o commercio, la base necessaria per poter fondare relazioni sociali basate sulla fiducia tecnologica, la condizione stessa del “munus” comunitario. Minare la credibilità degli attori sociali vuol dire sempre minare una società nelle sue fondamenta. Chi lavora con l’informazione o con l’happening sociale sa bene quanto sia complicato conquistare la fiducia degli spettatori, siano di un “palcoscenico” cartaceo o digitale, perché è sulla base della credibilità che si acquisisce autorevolezza e si diventa Putin, ed essa si accresce ogni qualvolta esce vittoriosa dalla prova dei fatti, da quella prova che sfugge alla dinamica economica e riesce a raggiungere “la vetta”, secondo quella che è abitualmente chiamata digital reputation per i media e The Mountain per i «liberi artisti».

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