L’artista e il suo curator tutto il giorno devono pensare a tirare avanti la vita e, quando hanno momenti liberi, s’interrogano sul perché, che li assilla e li seduce. Le domande rivolte alle “esibizioni” alla ricerca delle cause espositive, di ciò che succede “in mostra”, hanno attinenza con la medialità, di cui abbiamo prima sfiorato l’argomento, le domande rivolte all’intellezione dello scopo espressivo hanno rapporto con la religione e con l’arte della memoria.
È stato detto che l’arte è la rappresentazione di una preghiera, oppure è una preghiera rappresentata, ciò però riguarda lo scopo dell’arte, se invece volessimo renderci ragione di come avviene il fenomeno artistico potremmo dire che l’arte è abilità ad esprimere i valori che spingono l’uomo a capire e ad agire. Naturalmente attenzioni critiche, valori, preferenze verso forme comunicative di tipo puramente intellettuale o anche estetico, o verso particolari chiavi di lettura, costituiranno i motivi-guida di queste scelte. In altri termini, il filtro curatoriale fornisce gli strumenti per una maggiore efficacia al servizio dei valori esposti. Ma esistono visioni prioritarie rispetto a quelle poste dalle scelte di diversi stili espositivi, tutti ugualmente realizzabili: problemi sostanziali, a cui le conoscenze in tema di processi percettivi possono ancora dare un utile contributo. L’abilità, lo vediamo subito nell’opera di J.F., deve servire a creare quell’oggetto che dappertutto è presentato come connotazione, cifra artistica inconfondibile, ma più importante di tutto è indagare che cosa intende esprimere l’artista quando intraprende a creare la sua opera. Crediamo di poter rispondere che, per il fatto che l’opera d’arte per il suo contenuto, e in coerenza con i principi della teoria dell’informazione è un codice da trasmettere e quindi da decodificare, l’artista la crea e la viene componendo quando vuole mettersi in comunicazione con gli altri e con il mondo. Questo ci testimonia tanto il primordio dell’arte quanto l’epilogo dello stesso fenomeno. L’artista – alla Jan Fabre – più cerca di uscire da se stesso e più sprofonda nei suoi impenetrabili abissi: possiamo invocare aiuto e protezione, possiamo emettere grida di dolore, ma anche la disperazione è invocazione e l’invocazione è già preghiera.
L’opera di J.F. è uno studio preciso, sagace e documentatissimo delle più impercettibili variazioni di questa atmosfera indefinibile in sé, in cui rimane concentrato lo spirito intero di un’epoca con lo stile di una stessa temporalità stoica, distillato dalla macerazione dell’oggetto-feticcio. Fabre si sente coreografo, regista teatrale e scenografo: essere architetto totale del proprio progetto di espressione rappresenta una dimensione dello spirito, equivale per lui alla convergenza col disfacimento dell’universo-mondo! Piuttosto, l’arcaico è per Fabre quell’orizzonte umano in cui si è attuata una trascendenza nel di qua, di natura esattamente antitetica a quella nell’al di là dell’arte, determinata dalla scultura che segna per “l’autore come produttore stesso”, la grande frattura, la soglia decisiva della vicenda umana: The power of Theatrical Madness (cinque ore) che segna il suo stile parossistico e crudele e conferma la tendenza totalizzante e ipersimbolica della sua ricerca.

Nel 2017 J. F. presenta a Venezia una grande antologica accompagnato dall’occhio vigile di Giacinto di Pietrantonio. Nel suggestivo porto artistico Fabre trasporta la mostra Glass and Bone Sculptures 1977-2017, dove mostra 40 sculture che fissano gran parte della sua vita artistica, mettono in scena la ricerca sulla dialettica vita-morte, natura-artificio, durezza-fragilità. Questa coscienza ideativa che – nello sdoppiamento attuato dalla mimesi originaria – porta all’elaborazione indiretta, involontaria (non strumentale) del cosiddetto #fabretoo (contro il # metoo) è in realtà, come s’è detto, la coscienza estetica alla seconda, la coscienza proponente che si espelle nella pratica curatoriale di se stesso. Infatti, scrive Di Pietrantonio in un testo del 2018, incluso in Smoking … : “ … a noi piace vaticinare sull’opera Ecstasy & Oracles che J. F. ha creato e installato, nell’estate del 2018, nella Valle dei Templi di Agrigento, luogo oracolare della Magna Grecia per eccellenza. Noi diciamo che ogni opera è tratto, nonché autoritratto dell’artista e dell’uomo” (Dammi il 5, in op. cit., p.219).
Una prima conseguenza del modello #fabretoo è l’atteggiamento che il curatore deve assumere nei confronti dell’installazione dell’opera. Quindi, le pagine che nella sua “parola in croce” Di Pietrantonio ha dedicato alla trattazione della mitologia Smoking Stella rappresentano una radicale critica della visione e del rapporto fra arte e spettacolo in J.F.: esse si oppongono alla mera liquidazione estetica di quest’ultimo. Al tempo stesso, l’interpretazione di J.F. permette anche di capire come sia sorta la loro connessione: l’estetico vi si configura come una proiezione della modernità – che confonde l’ineffettualità dell’arte del presente col depotenziamento della realtà messa in atto dal mito classico. Cosa significa che una letteratura curatoriale riesca? Cosa significa che un contenuto determinato, qualcosa di inteso in modo determinato, per il “solo fatto che un ficcanaso c’è”, giunga per così dire a sciogliersi nella cifra poetica di un singolare artista come J.F.? Il contributo curatoriale e letterario di GDP sulla “persistenza dell’arte”, sull’ereticità della persona, sul finito e l’infinito, sulla vita, la morte e la resurrezione dell’immagine, sul simbolico e la nostra carta d’identità del planetario sulla disidentità dell’identità territoriale, sulla pietas cristologica, sull’essere e il non essere, sul luogo comune e il principio di trasgressione, è in realtà l’evento-limite tra l’opera e la sua forma di esposizione.
Quando si pensa alla curatela di GDP, la scrittura mette chiaramente in luce le anticipazioni teoriche che guidano i simboli nella loro prassi espressiva … Infine, ma non proprio alla fine, per prendere a prestito la locuzione di un’opera di una delle esposizioni seguite da Di Pietrantonio vs Fabre, siamo di fronte alle diverse coniugazioni di una stessa fenomenologia del visibile: poetica e teatro in questo convergono, nella messa in luce di tutto ciò che non è pura verità di superficie, pur rischiando di cadere nella trappola della dramatis personae, o magari dell’assurdo o del non senso. Ma correre questo rischio è la sfida di ogni tipo di #fabretoo, comunque legato al metateatro.
La domanda è: qual è la letteratura critica e la passione per le arti della mia generazione? Il campo è così vasto, che anche a volerlo circoscrivere alla sola arte contemporanea, come ci proponiamo di fare, impone una premessa. E non solo per la mole spregiudicata dell’opera di J.F. – che occupa oltretutto un arco di tempo considerevole, qualcosa come quasi mezzo secolo – ma per il carattere stesso, poliedrico, per eccellenza, della personalità di Fabre a confronto con quella del curatore. Ed intanto, Fabre non è solo un artista visivo e uno storico dell’archeologia perturbante, uno dei primi del secondo Novecento, così come GDP, si può ben dire, che non è solo un curatore, un bravo architetto di mostre d’arte contemporanea, ma anche un valente ficcanaso, non dico nel grembo stretto della poetica, ma certamente nel cuore di una attività “concettuale-espositiva” assai complessa, per la nostra stessa generazione. Le opere degli artisti? Ricercarle è un bisogno essenziale, che si fortifica in tutta la nostra attenzione. Non è possibile prescindere dalla loro costitutività (nel senso di dingheit), anche se questa istituisce un parametro sottinteso della nostra critica della vita quotidiana, più che come oggetto vero e proprio che ci sta di fronte come un elemento col quale si debbono fare i conti!
Il nostro colloquio con le opere d’arte sembra determinato dalla ricerca del pieno e del vuoto, dell’apparenza e della sostanza, dell’attendibilità e della frequenza e porta con sé l’esigenza di entrare e ri-uscire. Si dirà: il colloquio è un procedimento che implica una risposta; se non c’è risposta, non c’è colloquio. Vero, ma le opere – grazie ai loro enigmatici interstizi – rispondono sempre ai probabili interrogativi della parola curatoriale: come arte visiva, come sceneggiatura teatrale, come cassa di risonanza della poesia, come una forma suadente o scandalosa. Le venature dell’immagine della parola sono le risposte alla nostra volontà di vedere.

È inutile pensare al Museo come un oggetto iperreale. In quanto tale la sua presenza è un di più di realtà, non una rappresentazione in cerca del suo referente lì dentro, ma nel teatro della memoria. Anche il suo cervello, la versione del passato che il Museo contiene ed evoca, è il frutto di una ricostruzione, di un lavoro anodino intorno alle sequenze di interstizi. Il museo personale come il “Room of the Portable Museum” di Marcel Duchamp è una scatola racchiusa in una valigia di pelle, contenente le riproduzioni in miniatura di molte opere accumulate (1935). Per questa operazione, il Museo pesca di solito in un universo della memoria. Lo fa però non alla maniera dell’indice della morfologia, intesa come disciplina o forma di sapere codificato, che pretende di riportare alla luce l’oggettività del passato, le cose come veramente erano. Il Museo della “correspondance istallativa” opera piuttosto in modo reticolare, non sequenziale, con attività di riemersione degli interstizi. Da questo punto di vista Jan Fabre conferma la sua identità postmoderna: essa è una trama contemporanea per eccellenza, se con questo termine intendiamo il tempo dell’opera in cui tutti i tempi dell’opera si rimescolano e accadono insieme, la condizione nella quale i vari momenti della propria esperienza artistica si rendono disponibili alla camera della memoria, nell’interstizio appunto. C’è una stretta vicinanza tra il Museo e la nuova “Room of the Portable Museum”, una delle scenografie ideali dell’istallazione-Fabre è il nec-otium della memoria, di Son of the Canaries e Song of the Gipses. Chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una raccolta di libri, una lista d’oggetti, un catalogo di stili, dove tutto può essere incessantemente rigirato e rassettato in tutti i modi possibili. Dal 31 gennaio al 1 marzo 2025, Roma ha accolto l’arte visionaria di Jan Fabre, con una mostra che, per la prima volta in Italia, ha raccolto i due più recenti capitoli della sua produzione artistica: Songs of the Canaries (A Tribute to Emiel Fabre and Robert Stroud) e Songs of the Gypsies (A Tribute to Django Reinhardt and Django Gennaro Fabre). Il primo capitolo Songs of the Canaries (A Tribute to Emiel Fabre and Robert Stroud) è un tributo alla gracilità della vita, all’inseguimento dei sogni e alla continua ricerca dell’umanità di comprendere il cielo. Fabre esplora queste tematiche attraverso un’installazione composta da opere meticolosamente scolpite in marmo di Carrara e intimi disegni a matite colorate su Vantablack. Dettagli come le piume di un canarino o le vene di un cervello si trasformano in una scultura che fonde i suoni del cielo con l’eco dei pensieri umani, attraverso titoli evocativi come Thinking Outside the Cage (2024), Sharing Secrets About the Neurons (2024) e Measuring the Neurons (2024). Questo primo capitolo Songs of the Canaries è anche un omaggio a Robert Stroud, detto “Birdman of Alcatraz”, un prigioniero che divenne un rinomato ornitologo, specializzato in canarini. Il secondo capitolo, Songs of the Gypsies , mescola il jazz e l’arte con la vita personale dell’artista, per esplorare la relazione tra fragilità e creazione in opere sorprendenti, che uniscono memoria illustrativa e rinnovamento coevo. La struttura centrale dell’installazione è costituita da tre grandi sculture di marmo di Carrara in cui Fabre raffigura un lattante fuori scala, suo figlio all’età di 5 mesi e mezzo, ma alto come il padre. È interessante dunque riflettere su quest’aspetto della mostra di Roma di Jan Fabre, attraverso le parole di GDP: ricostruttiva e combinatoria, irriguardosa nei confronti delle sequenze temporali, la memoria che opera nel kit di Fabre si comporta come una scultura monumentale, scarta continuamente di lato alla sua stessa architettura, pesca nei virtuosismi disordinati di gitani e musicisti del dissenso, nelle cantine di “The Man who Measures his Own”.
Del resto, i materiali di Fabre non si accumulano verso un solo piano. Più i tempi dell’innovazione si accorciano, più frequente e massiccio diventa il precipitare del presente nel passato. Futuro e passato, anticipazione e memoria, invadono il campo semiosico con un movimento parallelo – fra le tecniche di espressione – lo spazio del presente in mostra, riducendolo ad una disposizione architettonica. Da un lato si anticipa, dall’altro si espone, il presente svanisce dentro la messa a punto del Nuovo “Room of the Portable Museum”, in cui la parola della critica si annuncia in una duplice operazione proiettiva. In “Just a few words”, come dice Giacinto di Pietrantonio, ci si imbatte spesso nei termini di “Fragments, Smoking Stella, Alway simply art, A heretic artist, Between Finite and Infinite, Life, Death and Resurrectuion of the Image, The Symbolic is our Planetary Identity Card, This is fire, Ceci n’est pas un Belge, Beyond god and evil, Christus Pietas, Image of the distant word of the ‘to be or not to be”, Give me 5”!

I diversi concetti sono stati teoricamente discussi per la prima volta da Fabre, e da allora sono stati impiegati per spiegare fenomeni anche molto disparati fra di loro. Secondo il senso specifico voluto da Fabre, e commentato da Giacinto di Pietrantonio nel ricchissimo libro “Quattro parole in croce” (in Smoking Stella, 2020 Parallelo42 contemporary art), la camera della memoria è una catena costituita da vari anelli ognuno dei quali occupa un posto ben definito. Seguendo i suggerimenti di Giacinto di Pietrantonio riferiti a Smoking Stella, quando noi entriamo nell’opera di Fabre, mettiamo tra parentesi le sostanze della catena e sviluppiamo una concretezza estetica che abbiamo visto e toccato con mano; affine ad una intramatura fitta e organica di segni, una vera e propria struttura autonarrativa, in cui il percorso di peripezie, di intrecci, di fabula, è in grado di costruire la storia che il ricevente potrà poi interpretare. L’identità dell’opera di Fabre è il risultato – secondo Giacinto di Pietrantonio – di un complesso tessuto semiotico ed extra semiotico. Il segno del diventare-scatola della memoria, insomma, pare essere la declinazione dell’oggetto originario, la sua ripetizione variata negli occhi della critica. Nel volume Smoking Stella, il curatore imbastisce poi un’ipotesi, un esempio intrigante che mostra il percorso di J.F. in modo, per così dire, letterale: raccoglie la crocifissione del verbum a commento di alcune delle sue opere più note. Così ad esempio Giacinto di Pietrantonio immagina il finale di una procedura che ha come protagonista i soggetti e gli oggetti di J.F.: “Quando la scienza avrà rimesso tutto in ordine, spetterà ai poeti mescolare di nuovo le carte. Quindi sottraendo l’oggetto del suo impiego utilitaristico-meccanico, Fabre mescola le carte ingaggiando una battaglia continua tra eternità e cambiamento, tra tempo sospeso e la vita che passa in una metamorfosi finalizzata alla ricerca mitica dell’origine di umanità, dove la relazione tra essere, o il tentativo di risolvere la rottura tra natura e cultura, tra arte e scienza, è lo sforzo continuo di dare una forma al mistero dell’identità” (In Forma, 2012, op. cit., p.109).
Il volume esplora il mondo dell’autore di “Song …”, un universo al suo massimo grado di condensazione, costituito da eventi, personaggi, oggetti di allestimento, installazioni, musiche, espressioni comparative a cui può essere attribuito un particolare significato culturale. In alcune installazioni è infatti racchiusa una forza comunicativa, una potenza simbolica che va ben oltre il loro semplice contenuto espositivo. Dalla compagnia teatrale Troubleyn a Glass and Bone Sculptures 1977-2017 (4° sculture che ripercorrono gran parte della sua vita artistica) i binomi vita-morte, natura-artificio, durezza-fragilità hanno fatto il loro ingresso nella macchina del desiderio perturbante e, seguendo percorsi spesso imprevedibili, vengono restituiti al mondo completamente trasfigurati, a uno stadio iperreale del proprio valore.
Davanti alle opere di J.F. crollano parametri, come quello di valore d’uso, fino a poco tempo fa ritenuti indispensabili per valutare il mondo della provocazione. Una scultura non sarà più soltanto un veicolo di installazione, un dettaglio di Angel of Death (2003); non servirà semplicemente a segnare il tempo di una ricca esposizione. In questo regno l’installazione teatrale è molto di più del teatro: diventa un crocevia verso il quale convergono un’infinità di semi-simbolismi e suggestioni, un indomabile vortice del desiderio, un oggetto-da-pensatoio, ci ricorda Di Pietrantonio, di fondamentale importanza per la comprensione del nostro tempo.
Jan Fabre Smoking Stella
con Quattro parole in croce, raccolta di testi dal 2003 al 2018 su Jan Fabre di Giacinto Di Pietrantonio
a cura di Melania Rossi
Editore Parallelo 42 Contemporary Art, 2019