ARCO Lisboa
Dancing at the Edge of the World, curated by Marcelle Joseph, installation view of the second room, z2o Sara Zanin Gallery Rome, ph Sebastiano Luciano

Donne che danzano ai margini del mondo

Dancing at the Edge of the World la mostra di 9 artiste il cui titolo, potente e coraggioso è una citazione della sfaccettata scrittrice Ursula K. Le Guin

Dancing at the Edge of the World, titolo della collettiva tutta al femminile curata da Marcelle Joseph alla galleria romana Z2O, è un titolo potente e coraggioso, una citazione della sfaccettata scrittrice Ursula K. Le Guin: donna, scrittrice di fantascienza, taoista, promotrice di un femminismo che rifiuta i termini oppositivi in un’utopia non binaria, fortemente interessata alle scienze sociali, convinta ambientalista, pienamente immersa nel clima tardomodernista statunitense e teorica di quello che poi venne definito “anarchismo postmoderno”.

Le parole di Le Guin riecheggiano nelle stanze della galleria, affollate dai dispositivi di 9 artiste diverse, tutte occidentali, tracce delle loro “danze ai margini del mondo”, specchio di una realtà alternativa descritta attraverso, come ci fa notare la curatrice, “quella che Le Guin chiama la lingua madre, ovvero un linguaggio che incoraggia le relazioni, le connessioni e gli scambi, al posto di una lingua paterna biforcuta”. Le tre stanze che compongono la mostra diventano tre tappe, grazie ad una curatela “forte e chiara”, di una sorta di percorso iniziatico all’utopia sopracitata. Tre ambienti, che sempre più in profondità, parlano di un femminismo non tossico né rabbioso, che volta le spalle ad un mondo populista e patriarcale, oppressore delle alterità, per guardare ad un universalismo queer libero e comunitario nell’ottica di una libertà sessuale presupposto di una più robusta libertà sociale.

La prima stanza, attraverso la scultura di Zsofia Kerestez e i lavori su carta e terracotta di Monika Grabuschnigg, ci mostra sottili speranze e paure, intimi e sensibili pensieri che destabilizzano e che riportano ad una specifica frase di Le Guin: “When we women offer our experience as our truth, as human truth, all the maps change. There are new mountains”. Nella seconda stanza, tra gli espressionistici corpi nudi avvinghiati dipinti su carta della performer Florence Peake (che per l’opening della mostra ha prodotto anche una performance assieme alla sua compagna Eve Stainton) e l’enigmatico The Lament composto da materiali tessili inconsueti di Megan Rooney (che qui presenta anche un lavoro che riflette sul corpo femminile e sulla sua rappresentazione dal titolo emblematico Goods & Service), ci troviamo davanti un negozio di scarpe in terracotta smaltata. Nell’accattivante ambientazione, “paradiso per eccellenza cui aspira il desiderio femminile”, prodotto dal duo artistico Proudick sono presentate 10 opere, 10 paia di scarpe che oscillano tra l’organico “ritorno alle origini” di Lindsey Mendick e l’universo dalle sfumature post-human e fetish di Paloma Proudfoot.

Nell’ultima sala siamo colpiti da due energie simili ma molto diverse tra loro: da un lato i tessuti stampati e ricamati di Alexi Marshall, senza tempo e senza spazio, incontro di culture tra archetipi, metafore, tradizioni e figurazioni contemporanee differenti, intrappolate nella trama di un supporto che apre al mondo; dall’altro i tre lavori di Saelia Aparicio, due dei quali anch’essi raffigurazioni su tessuto, questa volta di corpi femminili mostruosi e innaturali, inquieti ed inquietanti, rappresentazioni che guardano alla tradizione cinese e mostrano un inconscio femmineo che si presenta in tutta la sua crudezza. Il terzo lavoro, invece, copre un’intera parete ed è un’opera murale prodotta appositamente per la mostra, dal titolo Catfight: una moltitudine di corpi nudi femminili che tra l’orgia e la rissa riecheggiano le scene manieriste. Nell’intreccio di linee fluenti che disegnano corpi senza alcun chiaroscuro appare, chiaramente percepibile, una forza simbolica, primigenia e pura.

Ad unire queste figurazioni troviamo al centro della sala Art Bed, Sleep and Fairy Tales di Charlotte Colbert, letto a baldacchino d’un fascino straniante: dalla struttura tenue e leggiadra, che regge non a caso una corona, è investito da una forte violenza sui cuscini e sulle lenzuola, su cui appare la frase “cement my soul”. Della stessa artista sono anche MameriaMotherhood, sculture alienanti che trattengono numerose connessioni semantiche. Poste una all’inizio e una alla fine della mostra, sono manufatti che raccontano il corpo femminile e che portano alla mente le operazioni surrealiste per materiale, soggetto ed effetto sul fruitore.

In definitiva le opere, tutte prodotte a partire dal 2018, pongono l’attenzione sul rapporto della donna contemporanea con il mondo, senza mai entrare in opposizioni specifiche, sprigionando un desiderio costruttivo e non distruttivo. D’altronde, per tornare un’ultima volta alle basi teoriche dell’esposizione, Le Guin nella raccolta di scritti da cui prende il titolo la mostra ci dice che la danza di rinnovamento che plasma il mondo è sempre stata ballata ai margini delle cose, sull’orlo di una realtà sentita ormai perduta. Perduta come le danzatrici di questa mostra che non si voltano mai al passato ma diventano “demiurghe” del nuovo, migliore, libero, egualitario.

Dancing at the Edge of the World
a cura di Marcelle Joseph
dal 7 febbraio al 15 luglio 2020
Z2O – Sara Zanin Gallery
Via della Vetrina, 21 – Roma
Orario: dal lunedì al venerdì 13-19 (sabato su appuntamento)
tel: 06 7045 2261
email: info@z2ogalleria.it
sito: www.z2ogalleria.it

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