“De domo sua” … Il sistema che vincola e il direttore che attua (III parte)

Dal fondo delle contraddizioni dell’avere o dell’essere, il pantano apatico dell’attualità politica suggerisce i temi della catastrofe della “grande bellezza”. La lunga esperienza di un arrampicatore le accoglie e le sviluppa, collegandole a posizioni di governance, a personali memorie, a decisioni e indagini sugli Arcani dell’egoismo che, secondo Tosatti, partecipa dell’inconoscibile artistico. Una libera avventura di strumentalità e di diavolerie, in un viziato tessuto organizzativo: narrativo senza romanzo di trama, saggistico senza umiltà di interpretazione.

1. Il discorso sull’esibizionismo ideologico, che è uno dei temi più scottanti e ricorrenti nella riflessione sulle contraddizioni e sugli editti emanati da Tosatti, viene affrontato calandosi nei suoi scritti furbeschi: “Esperienza e realtà” (2021; dove storpia Marcuse, trasformandolo in un ontologo rampante e si mette al posto di Duchamp con la quinta dimensione), “Il mio cuore è vuoto come uno specchio” (sorta di romanzo diario, pubblicato nel 2021). L’organizzazione del discorso tosattiano è “impenetrabile”, “oscuro” e va riunito in un pensiero unico: un livello Ideologico di Emulazione “per credere e far credere” e la sua unione con quell’idea fondamentale racchiusa tra il Direttorio e il Teorema dell’Assenza di Chiarezza: “la possibilità di esporre il proprio lavoro a una critica ha fatto chiudere le porte di alcuni studi. Legittimo. Ma, all’inizio, per me, difficile da capire”. Ma che significa? Non solo cattura tutti gli spazi espositivi italiani più in vista, ma in più mira ad impartire i modelli di comportamento culturale e le risposte agli addetti ai lavori? La domanda di Tosatti è: “Come può crescere una scena che non sviluppa alcuna dialettica al suo interno?”. Ma la crisi della scena artistica italiana, come parla il suo blocco dialettico, parla una lingua che Tosatti non conosce. A partire dalla quinta dimensione, Tosatti emana proclami come se fosse unico portatore di verità onnisciente; una verità che in effetti è tale dentro al suo discorso, ossia non riconducibile ad altro che a se stessa: “la quinta fuffa”. Ma quali sono le sue intuizioni di blocco, di frantumazione, di separazione dalla ricerca e da qualsiasi tentativo di sviluppo? Si può delineare una retorica che si distingua, si delimiti e produca efficacia? Nel suo caso, ovvero nel “viaggio al termine delle poltrone di potere”, viene in causa un modus operandi del tutto aggressivo e quindi abbastanza anti-deweyano e anti-marcusiano: non solo la scelta di comando, ma la selezione delle discriminanti espositive, l’articolazione della strategia, i rapporti delle figure e delle scelte politiche. Infine, forse la cosa più importante, c’è la posizione opportunistica dove Tosatti si colloca: da quale pulpito predica, colui che si professa titolare del pulpito! “Eros e Priapo” di Carlo Emilio Gadda è il testo che viene subito sottomano come esemplare dell’artista gallinaccio, come ha detto, in qualche luogo, lo stesso Gadda. Il divenire di Tosatti è un esercizio di aggressione, in effetti interminabile, e non solo per convenzione artistica: qui la performance, per dir così, rinasce dalle proprie ceneri, perché in ogni punto postula un eccesso ulteriore. L’elenco delle conquiste è uno dei suoi schemi preferiti: ma gli elenchi, le Quadriennali dell’ammucchiata incomprensibile (in maniera che tra i tanti si parli solo di lui) hanno lo stesso destino di una ferita che non si rimarginerà mai. Trattasi di “distorsione e arrivismo infinito”, che incrementa la violenza di un risultato incontrollabile e che si fortifica nella simmetria inarrestabile, a un tempo espositiva e centralistica: “io sì sì, io unico a cavallo, io enigmatico e posato sul nulla, alla conquista dei prossimi spazi e poteri internazionali”. Insorge un “ideale dell’io” in negativo, “osceno e feroce”, per la scarica delle potenze (auto)distruttive; impossibilità di arrivare alla creazione di quella ragione estetica, da cui procede l’assunzione affettiva del prossimo. Il Primate della Direzione, suggerisce ancora, a noi povero popolo di sprovveduti: “Mappare criticamente il territorio italiano perché, nella griglia, di domande cui essi sono chiamati a rispondere, oltre alle ragioni per le quali si ritiene significativo il lavoro di quel determinato artista o all’individuazione dei punti di forza della sua attuale ricerca, è previsto che si evidenzino anche gli elementi ancora irrisolti e su cui si chiede una ulteriore riflessione”. E ancora: “si fa arte ma non se ne discute”!

Tutto il libellismo di Tosatti, fin dal titolo de Il Sole 24 ore, si mette sotto il segno del priapismo (del resto scorretto) – come del resto non manca di rincarare l’autore, letteralmente – di una tensione continua, sempre più dolorosa perché incapace di ottenere uno sfogo effettivo in tanta messinscena. L’eiaculazione, dirò così, Tosatti se l’è riservata per l’intervista rilasciata ad Alessandro Beltrami de l’Avvenire di venerdì 23 giugno 2023 oppure per la progettazione della Tiara Papale. Una variante di non piccolo rilievo metapsicologico, si offre nel discorso delle Sette Stagioni: giustificazione dell’antisemitismo di Celine, importanza dell’empatia con il pubblico al posto della critica, il superomismo da macchina fotografica (“il mio cuore vuoto come uno specchio”) e il tentativo di giustificare “Il Quarto Paesaggio” (quello che non esiste ancora e che forse non esisterà mai). A caratterizzare qui l’aggressione del profilo artistico su quello politico e viceversa è il suo sistema strategico. Un poco come nel motto di spirito, al suo proporre è necessaria la presenza di un terzo elemento, uno spettatore piuttosto che un bersaglio. Il primo “altro artistico” al quale dobbiamo voler dare, e dal quale possiamo ricevere, siamo Noi Stessi: ma se Tosatti ha un cattivissimo rapporto con l’“Altro critico”, com’è che pretende attenzione? Gli altri – quelli veri – appaiono secondari, e non perché siano meno importanti, ma perché se non c’è un buon rapporto di attenzione col nostro dovere di direttori e di funzionari pubblici della cultura, non possiamo avere valide e profonde relazioni nemmeno con gli altri: se i critici non esistono più, come dichiara lo stesso Tosatti, è perché dalla sua generazione sono stati fatti fuori, confermando “l’operato coercitivo” del sistema e della situazione giornalistica precedente. Da più fonti ho letto che noi siamo qui, in queste città dove si fanno le migliori esposizioni, principalmente, per fare un’esperienza con noi stessi, per poter esplorare tutti gli ambiti ai quali siamo interessati: ma se poi questi ambiti non rientrano nelle mappature orchestrate da Tosatti et company, come la mettiamo?

2. Il berlusconismo politico è stato l’intreccio di tre fattori e le sue promesse di libertà, conservazione e modernizzazione, sincere o meno che fossero, sono state supportate da centinaia di artisti come Tosatti. Berlusconi, al di là di quello che ironicamente ne ha scritto Mario Perniola (con il quale comunque non siamo d’accordo), è stato il simbolo della grande paralisi progressista. La spina nel fianco e il manico di coltello di qualsiasi rappresentazione di innocenza, sacrificio e formazione apatica! Tosatti oscilla fra l’ideologia di Forza Italia e della Fornero, professando un riduzionismo priapesco. Il berlusconismo è stato un fattore formativo enorme, non soltanto per la polarizzazione che il controverso personaggio ha generato per oltre un ventennio, ma perché ha mostrato una frattura politica e culturale che oggi, in termini diversi, è ancora molto evidente nel paese. Infine, sul piano dell’organizzazione politica, Berlusconi è stato il precursore della creazione del partito personale (e dell’opera d’arte personale), privo di una organizzazione degli apparati e simile ad un comitato elettorale con caratteristiche di marketing aziendale, che ha suggerito al sistema dell’arte italiano di intensificare un modus operandi che può fare a meno della critica e allevare generazioni di artisti che riescono ad affermarsi per volontà del mercato piuttosto che per le loro qualità. La risposta di Tosatti, giovane commediante, non si fa attendere: Bicocca, Quadriennale e Biennale di Venezia! Il messaggio che Tosatti fa trapelare è che siamo in questo mondo per caso, gettati e nati in una pura accidentalità. L’essenziale è la contingenza. Voglio dire che, per definizione, la contingenza del desiderio del potere non è la necessità, è l’obbligo. Esistere, come artista, è esser lì, semplicemente, al posto di comando: gli esistenti appaiono, si lasciano rappresentare, ma non li si può mai interpretare. Non c’è nessuna ragione di fare l’artista in qualche altro modo, siamo in questo mondo e dobbiamo vivere nostro malgrado come critici d’arte, musicisti, scrittori, curatori, manager, storici, saggisti, professionisti dello spettacolo, attori, cineasti: tutto in una sola persona, è questa la traduzione più veritiera della gesamtkunstwerk. La consapevolezza della pura scommessa di potere nel potere: «io esisto, il mondo esiste ed io so che il mondo esiste. Ecco tutto». Essa, privata del diritto e della sua sacralità e necessarietà di essere, porta l’uomo ad un senso di estraniamento e inquietudine: eravamo un mucchio di esistenti impacciati imbarazzati da noi stessi, non avevamo la minima ragione d’esser lì, né gli uni né gli altri, ciascun esistente, confuso, vagamente inquieto, si sentiva di troppo in rapporto agli altri. La presa di coscienza della assoluta contingenza rende la vita non giusta e buona di per sé, senza un valore intrinseco, dovuto e necessario. Questa conclusione non porta però ad una rinuncia o ad una staticità, anzi, in Jean-Paul Sartre prende la direzione di un attivismo impegnato: «La vita artistica ha un senso se ci si sforza di dargliene uno. Bisogna soprattutto agire, gettarsi in qualche impresa, purchè l’impresa sia credibile e comprensibile». Dunque, la vita artistica acquista senso tramite le nostre azioni, uniche responsabili del senso della vita.

Da un punto di vista ontologico, Tosatti afferma che “l’esistenza artistica e performatica precede l’essenza”, ovvero il performer prima esiste, poi si definisce (storico-artisticamente), e solo dopo darà un senso alla sua vita tramite le scelte di facciata. Per Tosatti la vita non ha un senso di per sé, sono solo le sue performance politiche a darglielo, attraverso il “suo spingere e martellare sul potere”.

In Tosatti il politico e l’artista si amalgamano nell’operatore stratega che vive la sua politicalità, tentando di incidere su intere generazioni di curatori. Con lui infatti l’arte torna ad essere una piattaforma dell’utile, del materiale, dell’antidemocratico mascherato da New Deal. Gli artisti non sono più accademici che fanno e basta, esperti militari che dall’alto della loro conoscenza guardano il mondo con occhio critico e distaccato, ma vivono nei locali notturni, si occupano di vita reale, fanno arte su questioni esistenziali e pratiche concentrate nel “Viaggio al termine della notte”. Un tale approccio all’opportunismo non poteva lasciare indifferente l’Europa post-2000 e milioni di giovani presero a definirsi “artisti dell’occasione”, spesso associando a tale termine uno stile di vita post-berlusconiano e talvolta strategico, investendo anche l’ambito dell’arrivismo, con il canonico kit di opere senza critica, divenuti simbolo di una generazione e di una ricerca di senso da dare alla vita. La società dell’epoca, della nostra epoca, è devastata dalle guerre liberiste, i valori dell’arte sostenuti dal sistema ristretto entrano in crisi: Dio è morto (mentre Tosatti si reca alle udienze del Papa) e la società brancola nel buio con l’obbligo di dover ricostruire una morale, mentre la popolazione del sistema artistico è votata al nichilismo ed al governo delle destre. 

Noi, con il nostro potere di occupare e di disoccupare i posti di comando, perlomeno in arte, siamo il nostro vero punto di partenza. Noi siamo i nostri veri compagni di vita, le nostre prime “anime gemelle”: ma se le anime gemelle di Tosatti sono state contate per consorterie, la stessa cordata che lo ha messo in carica e lo stesso spirito politico contro il quale lui – recitando, naturalmente – stesso sembra scagliarsi che cosa fa? Nel momento in cui abbiamo trovato noi stessi e abbiamo imparato a darci quello che sentiamo di meritare, allora saremo in grado di riuscire a ricevere dalla vita e dagli altri ciò che abbiamo dato. Quindi, potremo raggiungere un equilibrio tra il dare e il ricevere, e la frase “si riceve quello che si dà” avrà un senso compiuto. Mi sono personalmente accorto di quanto l’inconscio politico e artistico possa essere condizionato nel dare risposte negative, quando è stato abituato a ricevere input negativi. De-condizionarlo può risultare davvero più impegnativo di quello che si vorrebbe, ma vale sicuramente la pena farlo: e mi sembra che Tosatti non abbia nessuna voglia di farlo. E per non farlo nel 2022 ha lavorato per realizzare l’anno domini, idoneo a denominarsi: Tosatti docet! Si può iniziare il de-condizionamento proprio imparando ad apprezzarsi davvero e desiderando il meglio dell’Altro da sé stessi. Anche solo continuare a ripetere frasi come queste: “io mi attendo e non mi riproduco” e ”io desidero il meglio per l’arresto della mia riproduzione”, come un mantra, può aiutare a ricondizionare positivamente l’inconscio? Ma siamo sicuri che Tosatti lavora per il bene comune e per la critica dell’uomo e dell’arte ad una dimensione? Siamo sicuri che Tosatti si è accorto che Marcuse aveva l’obiettivo di criticare l’alienazione istituzionale? “Non si dà al fine di ricevere”. “Si riceve per quel che si è dato”. 

Purtroppo la mentalità di Tosatti e di tutti i suoi sponsor, invece, è semplicemente questa: “Ti faccio una domanda (e ti do anche una risposta)”. Il contesto può variare, le sfumature possono cambiare, ma c’è una costante che rimane invariata. Prendiamo le nostre decisioni da Direttori artistici e da semplici artisti basandoci su un criterio molto ingenuo, su domande molto banali: “Qual è la scelta che meglio soddisfa i miei bisogni? Qual è quell’opzione che mi offre maggiore valore?”. Valore. Eccola qui la parola magica di sei lettere che Tosatti, “eccezione forzata” della sua stessa generazione, ha blindato per avere tutto quello che desiderava. Il valore risulta solo per il suo tornaconto e, nonostante aspiri a divenire un “artistar”, non sappiamo quale criterio si possa usare per dare un’economia alla sua opera: forse quello delle tattiche di potere. 

A un passo dal fatidico anno conclusivo della reggenza quadriennale, si alza finalmente il sipario sulla misteriosa esistenza della quinta dimensione: si fa avanti, il personaggio più discusso ed odiato, ma anche desiderato, nella storia dell’arte recente. In uno scoppiettante fuoco d’artificio di domande e di risposte insolenti, fra un calice e l’altro che accompagnano lo stimolante Viaggio al termine del nulla, il vero altro non solo dice la sua sui poteri più dibattuti di questa inquietante parentesi – tra una minaccia e l’altra di bomba atomica – ma ci racconta anche i segreti della quinta dimensione, ovvero cosa accadrà durante la fine del mondo e quali saranno le opere d’arte e le pene dell’inferno post-moderno. Tronfio e pieno di sé come un gentiluomo della fregatura, concreto come un manager di se stesso, amante di tutti i piaceri ma paladino della giustizia del Leviatano: chi avrebbe mai sospettato, dopo secoli di grotteschi identikit, che sarebbe stata questa l’autentica immagine del Self-made Artistar!

Succede a Tosatti, e succede a persone ben più in alto di lui, di trovarsi di fronte a chi lancia sul tavolo problemi senza proporre soluzioni: chi non rispetta il tempo dell’artista a cui sta chiedendo tempo e attenzione; chi chiede, pretende, esige, ma spesso non pensa prima a dare (fosse anche solo una ragione per cui dovrebbe essere ascoltato). L’insolente di turno potrebbe incalzare così: 

Crei valore artistico nella tua vita di Direttore? Quando? Mentre sei concentrato a investire solo su te stesso? Scegli, ad esempio, di rinunciare ad un’offerta di incarico, per concentrarti sulla realizzazione di un’opera? 

No, Tosatti no! Tosatti non ce la fa a dire no al potere; anche perché il potere dell’opera e sull’opera e il potere dei tempi politici di essa sono gli stessi del ready-made!

Per creare valore nelle relazioni, bisogna saper ascoltare. Crei valore nelle relazioni, quando ti prendi cura dei tuoi rapporti con l’opera d’arte e con l’organizzazione politica che ti circonda. Così come le piante hanno bisogno di luce e acqua per sopravvivere, le nostre relazioni hanno bisogno di un nutrimento fatto di tempo, attenzione e condivisione per prosperare. Crei valore quando dai spazio agli altri per raccontarsi. Non solo sei lì pronto a fare il direttore per gli altri, ma ancor prima a prestar loro orecchie per ascoltarli, per diffondere un’arte e una riflessione diversa dalla tua. Offri una mano, motivazione, o anche solo un esempio o un’ispirazione.  

Suggerisci una risorsa che hai trovato utile e pensi possa esserlo anche per l’altra opera. Il regalo più grande che puoi fare ad una vera esperienza organizzativa non è condividere le tue ricchezze, ma far scoprire ad ognuno dei 700 artisti avvistati le loro opere, senza il tuo specchio. 

Purtroppo l’unico risultato di questo procedimento tosattiano è che il 2022 è stato l’anno di Tosatti”.

Per quelli che sanno di essere “cospiratori del nulla” (non è riferito al senso che gli affidava Sartre), l’arte non sarà mai poco né troppo. Quando sento le pseudo-politicalità con cui sono massacrati “spirito artistico” e “amore per la cultura”, avverto una tristezza che mi spinge sempre più alla dissidenza. Nel caos infodemico di questo tempo, abbiamo anche assistito alla tendenza strisciante da parte della classe degli artisti wasp (tradotto in italiano significa: figlio di papà) a demolire e smantellare tutto. Persino le competenze tecnico-scientifiche, diventate bersaglio di fake e dei “si dice che”, indotti ad una narrazione paranoica della storia che, nei fatti, attesta la severa difficoltà dell’arte all’esercizio del pensiero critico, che attanaglia la nostra società e quello “specchio rotto”, che è il sistema delle arti contemporanee. Sembrerebbe quasi una fuga dal logos critico, per rifugiarsi nelle rassicuranti, facili e  proverbiali soluzioni pret-a-porter offerte dal mercato, mascherato di “progressismo engagé”. Nella loro illimitata presunzione, sostenuta da quella impreparazione artistica e storica che tanto li distingue, i cosiddetti artisti alla G.M. Tosatti si ritengono gli scopritori di una nuova politica della cultura, del management, del savoir-faire storico-artistico; di quella tecnica di governo, cioè, per cui si cerca di lasciare all’impasto del caos e del contro-caos (pseudo-dada) tutta la loro spocchia e strategia. Essi ignorano, o fingono di ignorare, che a questa maniera comportamentale sanno emulare molto bene sia i nobili artisti ed intellettuali, di centocinquant’anni fa, a cui si rifanno, sia la trentina di scagnozzi,ai quali non era certo riconosciuto quel senso del “niente”, pensato a torto, peculiare dell’impresa manageriale. Di peculiare, oggi, crediamo vi sia soltanto, se mai, l’esasperazione di tale senso. E non solo, tali sedicenti organizzatori insieme “all’alchimia del nulla” di G.M. Tosatti, si ritengono gli scopritori di questo “identikit della scena italiana”, di cui tanto non si è parlato (come lamenta lo stesso Tosatti), ma paiono convinti d’aver fatto dono di tale scoperta alle correnti neo-reazionarie e neo-progressiste che, dai meno intransigenti propugnatori del vero, vengono addirittura considerate derivazioni dell’arte post-tutto.

Che cos’è, nell’«arte italiana» questo senso del “cervello critico che riflette”, questa ricerca “dell’interconnessione”, questa non episodicità” – di cui parla Tosatti – “per aiutare l’arte italiana a pensarsi, garantire al pubblico di poter leggere gli artisti”, allevare il “momento d’oro del XXI sec., in corrispondenza con la “nuova fandonia”? Tosatti si identifica con una vera e sentita alleanza tra il performer che non c’è, l’attore in “continuo sciopero sindacale” (naturalmente si tratta dello spirito sindacale di adesso) e la stessa stanza sclerata su cui agisce una fibrosi o cirrosi del sistema di raduno dei poteri. È un patto di corrispondenze politiche sulla messa in malattia dell’Arte Italiana del XXI sec., nel cui ambito, su basi di falsificazione e di reciproco disprezzo, i collaborazionisti del fenomeno di ristrutturazione possono intervenire alla creazione del “terra bruciata”, senza che da una parte o dall’altra si verifichino atti di debolezza, o di performance fuori controllo. Nella prestazione strategica e nel principio politico-organizzativo dell’opera d’arte e dell’arte italiana (quella si intende diretta da G.M. Tosatti) l’idea, quando c’è, è completamente asservita al proprio interesse, per non dire che si annulla in esso, lasciandogli ogni responsabilità, ogni compito, compresi quelli che non le spettano. Diremmo, per “cancrena curatoriale”.