Lorenzo Lippi, Donna con maschera, 1640

Curriculum vitae

Quer pasticciaccio brutto …

La furberia è una forma minore dell’intelligenza: però non è detto che nell’intelligenza vera non ci possa essere anche una parte di furberia. Ma anche laddove c’è solo furberia, ci deve essere un fondamento di realtà, da cui si attinge. Invece, l’occultamento e la confusione tra due vite sostanzialmente diverse è peculiare, specie in questi tempi in cui l’intelligenza sembra impiegata soltanto a procurare falsi meriti e comodità o, comunque, piaceri e usurpazioni a scapito di altri. Insomma, la furberia è quasi sempre applicata a danno dei nostri simili, ad ingannare chi con noi ha condiviso risorse culturali e potenziali energie, invece che a difenderci e a liberarci dall’inganno altrui. O meglio: la preoccupazione di tutelarci dall’eventuale furberia del prossimo, ci porta facilmente a sopraffare gli altri, a trarli in inganno, rovesciando profili, curriculum e valori, oppure utilizzando le potenzialità dell’altro per giustificare i propri fini e i propri meriti, anche se quasi sempre questi meriti non nascondono che bugie. 

Due ragioni immortalano i fuffaioli e le cattive storie. Una ricorda le loro usurpazioni, l’altra si attacca come una sanguisuga all’espansione della memoria dell’altro. La prima definisce una delle contrade più celebri e indubbiamente la più ambigua e più oscura della biografia e la seconda si barcamena all’ombra della sua stessa cattiveria. Attaccarsi al lavoro dell’altro, quando l’altro è messo a tacere, serve soltanto a raccontare una verità distorta, senza farsi contraddire. Si dà il caso, quindi, che la pratica più radicale della fuffa, da quando si è data da fare con l’applicazione costante della frottola all’infinito, non si è mai spenta!

Esiste una propensione pericolosa del nostro tempo, comune a molti artisti discutibili e/o operatori culturali di costume, ad acchiappare al volo ogni più piccolo mutamento nelle professioni di fede e a farne derivare una finta e generalizzata tendenza. Tale atteggiamento è senza dubbio da stigmatizzare, se non altro, di là dagli echi sensazionalistici del momento; ogni biografismo presunto e ogni falsificazionismo storico di se stessi, finiscono rapidamente nell’affogare nel mare del pressapochismo deontologico, nella posa modaiola da salotto secondo la quale ormai fa tendenza tutto e il contrario di tutto. Anche se il tutto è menzogna e il contrario è la sua espressione all’ennesima potenza. 

Anche la “confezione del curriculum”, come nel caso che prenderemo ad esempio qui di seguito, non sfugge a questo destino; per cui ogni anno di attività, ogni manifestazione citata, ogni rassegna resa evidente, ogni atto, ogni passo di letteratura manipolato e messo forzatamente al fianco di un’immagine, ogni titolo ostentato a scapito del prestigio e mirato allo sfruttamento di una figura professionale, diventa preda succulenta di chi si arroga carriera e curatorialità di qualcun altro, nelle quali iscriversi a proprio piacimento a tutti gli effetti, o di cui può dichiarare per opportunismo alcuni elementi di partecipazione, preludio a nuovi soprusi. Dichiarazioni di titoli, quindi, che rimbalzano sul proprio presente a esprimere presunti meriti o a supportarne legittimazioni di fantomatiche collaborazioni, quali strategie per una azione proiettata verso l’ambiguo e la confusione. La scrittura del proprio curriculum domanda innanzitutto una dose massiccia di candore, forse il contraltare ad una certa “stupida ostinazione”, quella di cooperative mai cooperate, di sodalizi mai avvenuti, di voci mai impiegate e di storie mai raccontate, e di relazioni parola/suono/immagine mai realizzate.

Secondo Giuliana Laportella, che nel suo curriculum (che ho avuto modo di leggere on line, su una nota piattaforma) emula una collaborazione coscritta all’infinito nella mia biografia, occorrono sette anni di presunte attività svolte insieme a me per darvi da imprimere del fango fuso. Purtroppo io, qui di seguito, mi trovo a raccontarvi quale distanza c’è tra me e la suddetta fotografa, a causa di alcuni lavori (di dubbia riuscita) svolti insieme ed alcuni episodi di mostre da me curate, in cui la sua presenza equivarrebbe ad una semplice partecipazione da artista, che lei ha trasformato in determinante collaborazione, o presunta e definitiva “esposizione personale”. Concretamente, veniamo alla lettura del curriculum. Nel 2010, Laportella partecipa alla Biennale del libro d’artista di Cassino con delle fotografie. Ciò avvenne perché ebbi occasione di segnalare il lavoro del poeta Vito Riviello – con cui avevo cominciato a lavorare già dagli anni novanta – di cui fu preso in considerazione Paesaggi di passaggio, lavoro fatto con Laportella (2008), in quanto lo stesso Vito mi aveva chiesto di promuoverlo, ma essendo scomparso  da poco lei si trovò a farne le veci. 

Scorrendo oltre e prendendo a pretesto  Transgene (SudLab, Napoli, 2010), Fotofonemi eccipienti creativi (Roma, 2010) ed Experience Designer (Milano, 2011), si capisce da dove parte la intenzionale confusione di Laportella, sia per quanto riguarda la curatela, sia per il significato di multimedialità. Vorrei ricordare subito che l’opera Transgene faceva parte di una collettiva curata da me per lo spazio di Portici, così come  XD 01. User Experience Designer è stata una mostra ideata e curata da me allo SPAZIO CONCEPT, cosa che lei pretestuosamente omette in entrambi i casi. Mi chiedo allora cosa significa mettere nel curriculum personale: “Dal 2010 al 2017 collabora col prof. Gabriele Perretta”? In effetti, mi domando se si è posta il senso vero della parola collaborazione e se poi usando l’accezione prof. non voglia metterla sull’ambiguo, facendo credere a chi legge che lei sia stata mia collaboratrice, in quanto assistente del mio lavoro professionale presso istituzioni universitarie, musei,  gruppi editoriali …, visto che per tutte le mostre ideate e curate da me tralascia di nominarmi, lasciando il dubbio che possano essere di propria produzione. 

Mi sembra che anche per l’idea di multimedialità faccia un po’ di confusione: dice che la Collana d’Arte Fotofonemi (Eccipienti creativi) da lei diretta per le edizioni Onyx, era un progetto editoriale e multimediale (ideato insieme a Vito Riviello, evenienza alquanto strana dato che Vito quando parlavamo di multimedialità e di tecnologie in arte andava su tutte le furie), ma di questa enunciata promozione della ricerca parola/suono/immagine fotografica, sono stati pubblicati soltanto libri di foto accompagnati da testi letterari, senza alcuna documentazione multimediale, che non mi sembrano sufficienti a giustificare l’interesse per l’interdisciplinarietà delle arti e i metodi di traduzione fra linguaggi e, men che meno, l’inserimento del suono come terzo sistema comunicativo.

Da qui parte il nocciolo della questione, per spiegare tutta la vicenda. Negli ultimi mesi prima della sua dipartita, Vito mi aveva sottoposto la possibilità di scrivere un testo per commentare la riedizione di Paesaggi di passaggio pubblicato, insieme ai cosiddetti fotofonemi di Giuliana Laportella. Fin dall’inizio, mentre Vito era desideroso di capire cosa fossero i fotofonemi, ella tirava fuori un’ansia grottesca con se stessa e con l’intuizione di cui si compiaceva, per ritrovare all’angolo di ogni porta e di una vernice sbiadita un suono, che invece era solo un’immagine. Infatti, con questa illusione Laportella era spinta a propinare dei suoni inesistenti e delle immagini che quasi sempre non avevano nessun procedimento concettuale fondato e nessuna identità creativa. E tutto ciò non è bastato a distogliere la direttrice di collana dall’insistenza di trovare una pezza d’appoggio, ai suoi inappropriati arzigogoli linguistici. L’organizzazione giustificatoria non ha mai funzionato, perché era pretestuosa in partenza e non faceva altro che insistere sempre e solo sulla trovata dei fotofonemi. Gli errori sono andati avanti e si è coperto l’errore con la fandonia di un termine inventato, senza cognizione semantica. Il fonema è un suono, l’unità minima che noi percepiamo della parola e che in più noi possiamo ricordare e classificare come autonoma. La fotografia essendo un prodotto stampato deriva dalla scrittura della luce e quindi entra in conflitto con la fonologia; tale conflitto si appiana solo quando la fotografia viene sottoposta all’attività fonetica del cinema. Soltanto perché Vito le aveva concesso di scrivere qualche verso banale alla pagina 2 della prima edizione di Paesaggi di passaggio, ella si sentiva autorizzata ad affermare che la fotografia può coinvolgere tutti i sensi e addirittura “emettere suoni”, così come la poesia. Quindi, mentre Vito nel suo testo per definire gli scatti parla di un’indagine critica, sfoderando il suo realismo ludico, Laportella se ne giova per vestire di bianco e nero la reclame di un prodotto industriale non finito e per affermare un suono della luce che non c’è. Nel frontespizio del libro con Riviello è abbastanza chiaro che la pretesa dei fotofonemi è sua e non del poeta; una pretesa che però, nel momento in cui è stata usata come arma insistente per delineare il lavoro di una collana, diviene una minaccia semiologica difficile da comprendere e da applicare. Ecco, dunque, la necessità di interpellare me come esperto per chiarire e giustificare, ma si dà il caso che nei volumi successivi editi dalla collana, dietro mia insistenza, la definizione di fotofonemi è stata elusa e sostituita da altro. Inoltre, il mio testo teorico sulla divulgazione dei fotofonemi, che manifestava le numerose criticità di tale idea, non è mai stato pubblicato integralmente (perché lei lo ha evitato non mancando di trattenerlo per sé), altra prova evidente che tutta l’idea di laboratorio sulle corrispondenze tra parola, poesia e fotografia, che doveva essere il motore di alcuni lavori che abbiamo tentato insieme, è fallita sul nascere, proprio per l’ostinazione della fotografa a volere perseverare e promuovere un’intuizione errata e irrealizzabile. La stessa Giuliana Laportella, però, per giustificare le sue foto, si tradisce dicendo che “la traduzione diviene arte e i fotofonemi spogliano le versioni di visioni evocando versi estroversi”. Dunque, i fotofonemi non esistono: esistono le poesie che parlano di visioni! Non c’è una sola fotografia al mondo che sia capace di emettere uno scricchiolio. Del resto una foto non è parola stampata, ma immagine ripresa. E l’immagine, di per sé, non ha alcuna componente sonora e ad essa non è associabile l’idea di suono scaturito dalla fonte luminosa. Nemmeno l’Urlo di Munch è realmente suono, ma solamente l’immagine della disperazione. 

La verifica sul conflitto tra fotografia e fonema si paleserà ancora di più nel momento in cui arriviamo alla presentazione della collana presso la RUFA e all’Accademia di Brera. A Roma nella sede di Via Benaco (RUFA), Aldo Mastropasqua, allora docente di Letteratura Italiana Contemporanea, disse in maniera chiara che i fonemi non sono in grado di accoppiarsi alla fotografia, perché da soli non rappresentano unità di significazione da affiancare al salvagente “foto”. Inoltre, intendeva approfondire anche le cattive interpretazioni della nozione di corrispondenza dei sensi in Baudelaire. Infatti, in quella stessa occasione, si dedicò soltanto all’eloquio della poesia di Vito, bocciando totalmente la parte iconografica, perché risolta, a suo parere, in maniera inconcludente. Nella presentazione all’Accademia di Brera gli esiti furono altrettanto disastrosi, nessuno dei miei colleghi del dipartimento di fotografia vide di buon occhio l’azzardo della trovata di Laportella.

Ricordo che con Vito passavo lunghe ore al telefono, dove mi raccontava dei suoi progetti editoriali e dei risultati critici avviati dalla mia postfazione a Livelli di coincidenza (Campanotto, 2006), dopo una lunga fase di gestazione e preparazione, in cui fa fede un’ampia discussione fra di noi sul ruolo della parola in rapporto al paradigma fotografico, da lui stesso usato sin dagli anni settanta. Infatti, parlando con Vito si nutriva il sospetto poetico che il paradigma fotografico rimanesse tale fino al tentativo di traduzione legato alla collaborazione con Giuliana Laportella, che si conclude nel 2009 perché è lì che si compie la sua forza fisica per sostenerlo. Adesso io, non voglio entrare nella vita privata di Vito e neanche in quella di Giuliana Laportella, per stabilire il livello di partecipazione e di relazione professionale che ci fosse fra loro. Devo precisare, invece, ciò che attiene alle sue dichiarazioni di collaborazione con il mio lavoro di scrittore, di curatore d’arte contemporanea e di insegnante universitario: ciò che lei scrive nel suo curriculum personale coinvolge impropriamente la mia persona e la mia professionalità. Ovvero, è molto importante per me chiarire ciò che realmente è attestato dai contenuti di una esperienza storica e ciò che invece non è vero, e che si deposita nel suo curriculum solo come equivoco e inverosimile inattendibilità. In altri termini, ella tende a trasformare il suo curriculum in una fonte inesauribile di corbellerie, che hanno leso e continuano a ledere la mia autonomia professionale. Le sue immagini a stento realizzate hanno aggiunto sempre più demotivazione alla mia curiosità critica: per produrre analisi critica, le combinazioni logiche delle grammatiche compositive devono essere corrette, non c’è spazio per le incertezze banali e per le maschere di senso, che fanno intendere solo giustificazioni inappropriate. Ella, per la ricostruzione della sua carriera,  fa uso di testimonianze giornalistiche costruite male e pretestuosamente interpretate, ovvero causate da una cattivissima gestione informativa, che usa in modo scorretto le mie parole e favorisce quasi sempre l’astrazione del suo lavoro. Vorrei ricordare alla compilatrice di quel curriculum, che i documenti in rete non corrispondono ad alcuna verità inconfutabile e sono la conferma della fuffa mediatica della sua biografia.

La mia difficoltà rispetto alle sue dichiarazioni curricolari si amplifica nel momento in cui Giuliana Laportella si sente in diritto di utilizzare e divulgare il mio materiale originale ancora in suo possesso, senza averne l’autorizzazione. Caso evidente è l’aver fornito alla curatrice dell’Antologia Vito Riviello: Tutte le poesie (Sapienza Università Editrice, Roma, 2019) il pdf del mio testo di “Paesaggi di passaggio”, manipolato ad hoc. Mi sono trovato costretto a segnalare alla curatrice dell’opera a stampa di Vito, quanto segue: “A ben guardare tale pubblicazione (ed. Onyx), a come fu gestita l’edizione e, soprattutto, a come vennero trattate le note, si capisce il suo carattere di provvisorietà e della necessità di essere rivista, rimaneggiata e ristrutturata. Ma senza volermi addentrare troppo nelle vicende editoriali, la pubblicazione ha visto scadere i diritti in brevissimo tempo ed ha esaurito anche la sua funzione di biglietto da visita per la collana diretta dalla signora Laportella. A partire da questo mi duole dirle che non considero valido quello stralcio da lei antologizzato, perché con l’ulteriore frammentazione che ne è stata fatta non testimonia correttamente la ricerca di Vito, ma propende per una deriva iconica legata ad una apologia dell’immagine, che in questo caso non mi appartiene. Infatti, nel testo ho detto “l’andatura grafica e iconica della fotografia non riesce mai a sostituirsi all’autonomia della poesia”; ho detto che la poesia assimila l’emozione dell’immagine, ma non ne viene mai adombrata; ho detto che l’immagine rappresenta “un mondo interiore che non si fissa ancora”. Inoltre ho scritto che, grazie alla spericolatezza di Vito, il faccia a faccia tra poesia e fotografia è una “leggerezza neo-pop” destinata ad essere approfondita: il “cosismo” non può rimanere per sempre “cosismo” e purtroppo, quando uno dei due autori viene a mancare (come è stato per Vito), la vivacità della corrispondenza decade e soprattutto è difficile rispettare le promesse che scaturiscono dal suo volere e dalla sua poetica. È per questo che più volte avevo fatto presente alle edizioni Onyx che non è possibile portare avanti i desideri e i voleri di Vito, prendendo per buono, indubitabilmente, ciò che la parte fotografica di questa esperienza di corrispondenze ci ha raccontato e ci racconta in maniera blindata, proprio perché si trattava invece di un progetto aperto e work in progress.”. L’iniziativa di fornire quel testo fasullo, montato male e pretestuosamente tagliato, lascia spazio all’equivoco e al sopruso. Dopo tutto la vicenda di quello scritto lascia il tempo che trova, perché più volte ho avuto modo di dichiarare, e tante altre ancora lo farò se fosse necessario, che esso non è più parte del mio percorso critico, che non corrisponde al mio lavoro, alle mie metodologie di analisi ed alla mia visione della relazione parola/immagine, di cui da sempre sono un onesto studioso. Continuare ad apporvi la mia firma è un atto improprio, che forzatamente vuole tenermi dentro ad una situazione che non mi rappresenta e a cui mi sono sottratto, totalmente demotivato dai deludenti risultati. 

Un’ulteriore  conferma di questa tendenza all’alterazione dei fatti, si riconosce anche in quella parte del curriculum di Giuliana Laportella, in cui si fa menzione della presentazione di Riverberi (2013). In questo caso la fotografa elenca i nomi dei relatori della serata al MAXXI, ma omette quello di Daniele Fragapane, proprio perché fu colui che disse a chiare lettere che le fotofonometrie non esistono e che in particolare la sua risoluzione fotografica è soggetta ad una resa di stampa e di espressione editoriale di scarso valore  e nessuna qualità. In quelle saltuarie occasioni di lavoro che abbiamo intrattenuto, non mi sono sottratto alla critica alle fotofonometrie, essendo queste ultime frutto di un delirio classificatorio che vorrebbe giustificare i precedenti  fotofonemi, senza dare alcuna dimensione reale del materiale fotografico e dei suoi limiti linguistici, rispetto al confronto con la parola in Riverberi. Anzi, per quanto concerne il lavoro di Riverberi ci troviamo di fronte ad un prodotto editoriale completamente inventato e trascritto da me medesimo, a partire dal titolo fino ad arrivare alla spiegazione della quarta di copertina. Del resto, nonostante nel suddetto curriculum si legge che Laportella è stata editor e direttrice di collana, di progetti editoriali e grafici, le quarte di copertina di tutti i volumi editi nella collana Fotofonemi eccipienti creativi sono stati scritti da me, senza aver mai ricevuto un riconoscimento di lavoro adeguato sia economico che di merito, né da lei né dall’editore. Facendo degli sforzi immani per cercare di limitare gli errori e i rischi delle fotofonometrie, il mio essere vigile è stato inutile, perché nel procedimento editoriale prevaleva il potere del pubblicare “a tutti i costi”, strumentalizzato dalla curatrice a favore di tempestive stampe.

Sulla questione delle edizioni e della curatela di Giuliana Laportella per la Trilogia del grigio (altra mia invenzione), vorrei infine ricordare anche la vicenda del volume Stimmung e della strumentalizzazione da parte sua del lavoro editoriale di chi scrive e del brillante Giorgio Cutini. Qui mi sento di esprimere un parere comune con Giorgio: siamo stati raggirati e costretti ad assistere al triste esito di una pubblicazione, che non è stata mai promossa e mai realmente distribuita, pur avendone garantito l’acquisto di buona parte delle copie. Stesso destino di tutte le pubblicazioni di cui lei vanta la curatela: tali pubblicazioni che figurano sul web, non sono in realtà acquistabili perché le copie non sono in circolazione, e comincio a dubitare che esistano ancora, o forse stanno marcendo tra gli irrisolti negli scantinati delle tipografie.

È questa la maniera di usare il concetto di collaborazione? Collaborare per i propri fini significa forse collaborare per usurpare i fini degli altri? Ebbene, la razionalità politica italiana ci dice che il fine giustifica i mezzi, ma qui non c’è fine che tenga, se non mezzi che mirano a distruggere la parola, il rispetto e l’educazione verso l’altro. La collaborazione nasce dal dialogo ed io, negli anni successivi alla scomparsa di Vito, ho creduto di poter avviare un dialogo di sperimentazione sempre sul rapporto parola/immagine con Giuliana Laportella. Ma al di là delle difficoltà pratiche, per cui i progetti che tentavamo di portare avanti venivano diluiti in tempi troppo lunghi, questo dialogo si è rivelato molto presto essere un monologo. Si dà il caso che abbiamo consumato estenuanti discussioni fatte di idee, prospettive e risultati diversi e inconciliabili. Da parte mia perdevo via via interesse a portare avanti il discorso artistico sulle corrispondenze, che con lei si rivelava assolutamente irrealizzabile, e gli appunti che avevo prodotto divenivano sempre più testimonianza di qualcosa che andava ad alimentare l’ignoto. Speravo almeno di poter concludere questa esperienza lasciando tracce positive, ma lei si è sottratta alle mie richieste di terminare le impraticabili corrispondenze e invece di restituirmi il materiale, che per comodità avevamo in una casella di posta elettronica comune, me ne ha tolto l’accesso e successivamente ha iniziato ad utilizzarlo senza autorizzazione. Adesso non voglio sentenziare sul tempo perduto, ma ho bisogno di rivendicare la proprietà di ciò che rimarrà inedito e la possibilità di dissociare il mio nome dal suo e chiedere di non utilizzarlo a proprio piacimento.

Ma Laportella non fatica a fornire una versione “diversamente vera” dei fatti. Con la pubblicazione del suo curriculum va in scena la strumentalizzazione della realtà, del mio nome, del mio profilo autoriale e del rispetto della mia parola. Ma attenzione: riportando il ragionamento all’ambito lavorativo, ci sono delle (altre) precisazioni da fare. Inserire infondate informazioni nel curriculum, solo perché spinti dalla smania di apparire anziché essere, si può trasformare in una mossa più che azzardata: esperienze lavorative mai svolte, come l’appartenenza ad una associazione di nome MeArtè, mai esistita e mai registrata; titoli mai conseguiti, come la partecipazione a mostre e a libri curati dal sottoscritto inficiate da una mancata convalida da parte mia. Pubblicazioni come Paesaggi di passaggio, o Riverberi, dove i diritti sono scaduti prima che lo prevedesse il contratto, e mostre essenzialmente volute e concepite da me soltanto, in cui lei rivendica una personale, mostrano una volontaria ed insistente manipolazione della mia vita ed attività di critico. A ciò si aggiungono presentazioni di video mai completamente realizzati, usando miei materiali e mai depositati alla SIAE, perché non le ho sottoscritto alcuna liberatoria non ritenendo abbastanza soddisfacente il materiale prodotto. 14 dicembre 2010  o In cerca  di veri indugi sono due promo, di cui sarebbe molto lunga la disamina dei dettagli per distinguere qual è effettivamente il mio lavoro e quale la parte realizzata da lei; ma basti dire soltanto che ella tende a scartare il valore del mio contributo, cercando di farlo risultare come supporto alla sua regia, senza una definita attribuzione dei ruoli artistici. Per questi due esperimenti però tengo a ricordare che il soggetto è mio, mio è lo storyboard, mia è la traduzione e l’adattamento e mia è l’interpretazione, la dizione e l’impostazione delle voci che si susseguono nella parte sonora. Ed è per questo che, quando lei ha chiuso questi promo, non ho dato un mio consenso formale alla diffusione.

La corrispondenza avviene tra più soggetti e più tecniche che cercano di compenetrarsi ed emanciparsi in un divenire artistico, quindi – se uno dei soggetti viene meno – tutto l’impianto della corrispondenza decade. Se io come autore, non mi riconosco più in quella corrispondenza ho il diritto (ammesso anche legalmente) di ritirare dall’opera a più mani la parte che mi riguarda e gli altri autori non possono più utilizzarla, perché nelle opere collettive l’utilizzazione presuppone il consenso dei singoli autori. Inoltre, la modifica dell’opera è prerogativa dell’autore, perché quand’anche avesse ceduto i diritti, può opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione o altra modificazione dell’opera che possa essere di pregiudizio al proprio onore o alla propria reputazione. Per lesione dell’onore e della reputazione si intende alterare il carattere e il significato dell’opera nel giudizio del pubblico, sottoponendola a diverse interpretazioni o a modifiche (quali i tagli) che ne compromettano l’integrità e il significato. Ma mi pare che in spregio a tutto ciò Laportella, come ho spiegato, pensa di poter saccheggiare a proprio piacimento tutto il mio materiale in suo possesso e di poter utilizzare il mio nome come più le conviene, nonostante io abbia preso le dovute distanze dal suo lavoro e dai tentativi di corrispondenza.

Non comprendo l’ostinazione di Laportella a tenermi “dentro” al suo curriculum, considerato che c’erano incompatibilità culturali profonde che più volte si sono manifestate; altro esempio, quando analizzando l’attività del poeta Celan, la sua origine e cultura ebraica emergeva in maniera forte, lei faceva fatica a confrontarcisi, come era uno sforzo comprendere l’empatia della mia stessa cultura e coordinarla alle immagini da lei assemblate, finendo semplicemente per metterle accanto alle mie parole che selezionava e bruscamente tagliava. Tornando alla questione del curriculum, l’operatrice culturale o aspirante tale che esagera, o nasconde le proprie esperienze dietro a dichiarazioni di collaborazione continuata col sottoscritto, è solo pregna di pressappochismo. Un atteggiamento banale che non permette di recuperare niente di quelle poche, direi pochissime, esperienze condivise, ma che spinge alla radicale decisione di chiederle definitivamente di cancellare il mio nome d’autore da tutto il suo curriculum. Anche per le mostre curate da me, a cui dice di aver partecipato, può ritenersi esonerata, perché nel frattempo ho totalmente riconsiderato il suo narcisistico e ostentato approccio al lavoro artistico.