Una leggenda popolare narra che Prosopon, alle origini degli insediamenti umani, percorrendo le terre impervie alla ricerca della sussistenza e di una grotta, si soffermasse talvolta affascinato, a osservare la mobile linea dell’orizzonte. Guardava il cielo Phersu, immaginava radure, montagne, fiumi, torrenti, sabbie e ghiacciai oltre la notte profonda: preso ad inseguire la linea di demarcazione tra il conosciuto e il conoscibile, tra l’affermato e da affermare, tra lo sforzo e il riposo, controllava le sue forze e imparava a mediare le sue energie, fissava la cappa notturna cosparsa di puntini luminosi, come fuochi remoti. L’intuizione di un al di là dell’orizzonte, difficile o facile da conquistare, eccitò il primo anelito di conoscenze, integrò eros e cognizione, il primo movente ad approntare medium, energia, strumenti attendibili a dilatare l’immagine luminosa, l’immaginazione del lavoro astratto. Era d’inverno e Res – Pers’una si inoltrò in una landa dai contorni mutevoli e dalla grigia atmosfera e si chiese perché mai quella regione, ove la natura smorzava la rada luce del cielo, fosse detta del Fuoco. Ebbe ben presto una risposta … Con il sopraggiungere della sera cominciò a scorrere qualche fiamma, che diede un senso alle voci ed ai lamenti che aveva sentito invocarlo: le luci di quelle, invece che schiarire le tenebre, le accrescevano e Res Perseuna sentì quasi il bisogno di fuggirle, ma dove volgeva lo sguardo distingueva i sinistri bagliori dei roghi e qui e là, dall’uno all’altro, correre delle ombre ricurve. Res Perseuna (Herectus), gravato e stimolato da quotidiani problemi di sopravvivenza, allargò il cerchio d’azione a una porzione di mondo sempre più ampia, definendo a propria misura un universo in cui considerarsi parte integrante: come un tutto indifferenziato, nacquero i prodromi della scienza, dell’arte, della religione e del lavoro.
Che cos’è, dunque, «contro il lavoro»? Nella definizione che ne fornisce Giuseppe Rensi indica un universo di contraddizioni e pratiche tanto vaste e varie che non può essere descritto come un insieme filosofico coerente: «Che m’importa che io sia oggi coatto al lavoro, perché, in regime di salariato, se non ho voglia di lavorare il padrone mi licenzia, o che domani in regime comunista, io sia del pari coatto al lavoro, perché, sebbene padrone anch’io, coi miei tremila compagni dell’officina, se un giorno non ho voglia di lavorare, la “commissione interna” non mi liquida la mia percentuale giornaliera? Che differenza? Nell’uno e nell’altro caso, lavoro per la pressione che esercita sulla mia volontà quel fatto esterno alla sfera della mia attuale attività di lavoro, che è il bisogno o il desiderio di guadagno. Nell’uno e nell’altro caso, io sono dunque del pari coatto. Dopo la rivoluzione che avesse istaurato il comunismo, nel gregario ingenuo e fanatico a poco a poco la delusione verrebbe a galla con questa espressione: “ma se si deve, come prima lavorare, allora è la stessa cosa” – espressione, con la quale tralucerebbe finalmente alla sua coscienza che la schiavitù non è il regime capitalista, ma il lavoro in sé e che è pressochè indifferente e tocca solo punti secondari ogni rivoluzione impossibile: – quella che tolga dalla terra la necessità del lavoro./ Il lavoro è schiavitù. La necessità del lavoro è perenne. Dunque perenne sarà e dovrà essere la schiavitù. Da queste verità già limpidamente viste ed affermate dallo spirito greco, non c’è via d’uscita» (WoM edizioni 2022, pp. 98-99). È la perdita di libertà della contraddizione tra amore e fatica, introdotta dall’ingiustizia primitiva ed originaria in lotta contro quelle stesse forze creatrici che negli anni dell’origine del mondo stavano plasmando l’attuale autorità e potere del necessario, dei bisogni sui piaceri. In ogni secolo, come in ogni momento della vita, l’evasione ha affascinato l’invasione dello stato di necessità. Sfuggire alla realtà del lavoro, sentita da Rensi come oppressiva, soffocante e angosciosa al pari di una prigione (da qui l’uso metaforico dello stesso verbo evadere col gioco), è sempre stato uno dei bisogni innati del pensatore, soprattutto nelle epoche in cui si sente “Re per ‘Sona”: e non c’è dubbio che quella attuale si offra in una varietà impressionante di mezzi di distrazione, siano essi relativamente innocui come il cinema, la letteratura d’evasione, la stessa televisione quotidiana dei videogiochi, il fumetto, il web e non ultimo il modello della “critica-lavorista” alla maniera di Giuseppe Rensi. Il consumo di droga, come è noto, è arrivato ad un punto tale di diffusione, soprattutto tra i giovani che un po’ lamentano la crisi occupazionale ed un po’ affermano il claim contro-lavorista, da preoccupare seriamente e da indurre politici e strizzacervelli a studiare l’applicazione di altri panopticon, di subliminali asylum per cercare i possibili rimedi alla legittimazione di nuove mosse engagé, magari mascherate da recenti evasioni!
Se questa è, molto approssimativamente, la situazione alla fine del primo ventennio del XXI secolo, in un periodo di crisi acutamente sentita, ma acutamente anche dileguata, cioè la fine del ventennio scorso, tra prima e seconda pandemia, non poteva mancare la ricerca affannosa del “paradiso perduto rensiano”, e si vedrà in quali forme e con quali mezzi. Come un occhio che tutto vede e interpreta, ma non può vedere se stesso: così è la reclama (claim) e a volte «l’ostilità astratta» ad essa. Il suo stile è il perpetuo cambiamento di significato, il suo carattere l’irrequietezza di senso, la sua natura è la promessa non mantenuta. “Contro il lavoro” è un ventaglio che tutto comprende, destinato alla mutevolezza eterna e ogni sua faccia definisce uno stile, un significato, una ragion d’essere, un modello politico, un sindacato, una protesta, un fronte, una ragione d’essere al mondo! E una classificazione appare ardua! Ma esiste la possibilità di interrogare una sollecitazione filosofica risalente al 1923, come quella tratta da un libro di Giuseppe Rensi? Così come da altri testi simili o giù di lì? Rensi – rappresentante di un pensiero altro, che impropriamente viene paragonato a E. Cioran e che si rifece al pessimismo di G. Leopardi (fu portato avanti da M. Sgalambro) – all’inizio del ‘900 affermò che lavorare è inutile e detestabile, vano e superfluo, ridicolo e repellente.
Prima di consacrarsi pienamente alla filosofia, Giuseppe Rensi (1871-1941) è stato un politico, un avvocato, un giornalista e un insegnante. Ha cominciato a scrivere prima della guerra. Ha pubblicato poi molti saggi contro le sue idee originarie, contro-battendosi ad esse con immensa freddezza. Il suo impegno filosofico si inserisce nella tradizione leopardiana e schopenhaueriana. Secondo il celebre filosofo scettico, che si migliorava sull’impronta di G. Simmel, lavorare non è una cosa di valore, ma nauseabonda, perché sviluppa solo asservimento! Secondo Rensi bisogna detestare il concetto di lavoro per mettere in discussione il suo valore. «Contro il lavoro», pubblicato da Wom edizioni, si inserisce nella collana Elementi, dedicata ai Saggi. Tutti gli uomini – secondo il veneto – odiano il lavoro. E necessariamente e con ragione perché il lavoro è concretamente insopportabile, imperdonabile, catastrofico, svalorizzante, usurpatore, sinonimo di tiranno e conquistatore di libertà. Giuseppe Rensi fu il filosofo che contrastò Croce e Gentile facendo propria una visione del mondo scettica e pessimistica. Nel “contro-lavorismo”, del 1923, Rensi opera una radicale critica della funzione umana, analizzando la vera natura dell’attività più odiata dall’uomo. Un saggio da riscoprire in questa versione curata da Matteo Pinna e introdotta da Francesco d’Isa. Il libro, nel 2012, ha visto un’altra edizione presso Gwynplaine (coll. Red), ma in quest’ultima WoM fa riferimento alla terza edizione originale presente in «Critica dell’amore e del lavoro», edita dalla casa editrice Etna di Catania (1935). In questa edizione è stata ritoccata l’intera bibliografia, citata dallo stesso Rensi, e inoltre i commentari filologici sono intervenuti per ammodernare alcune grafie di nomi e certune forme grammaticali. L’avvertenza all’ultima edizione di WoM sottolinea che tutte le traduzioni in cui non viene riportato il rimando bibliografico, ad opera del curatore, così come le indicazioni all’interno delle parentesi quadre e tutte le note si trovano a fine testo. In G. Rensi forse le idee che si palesano nel saggio del ’23 partono dalla «Filosofia dell’Autorità» del 1920. Il conflitto bellico è la spirale della storia umana, e appunto per questo il passato è senza senso, è un vagabondare cieco verso un obiettivo che non abita il mondo, concede il quadro avvilente del movimento continuo da un’assurdità e sofferenza ad un’altra assurdità e sofferenza: l’incredulità si fonde col catastrofismo. L’attualità è intollerabile, si vuole fuggire, si desidera un futuro che sia diverso dall’assurdità e dal male che è nell’attualità: all’essere si contraddice una necessità. E così si crea il tempo: nel contemporaneo che è, si vagheggia un futuro che deve essere: e quando il dover essere si fa essere, precipita in quella stessa incongruenza e negativo che è l’odierno partecipe. Lo svolgimento della storia è progresso da «abbaglio a abbaglio», da negativo a negativo: se si fosse nel giusto e nell’effettivo, non vi sarebbe pensiero di uscire da esso, di far seguire all’adesso un poi: ci sarebbe continuità, non sviluppo. Prima de l’«Irrazionale, il lavoro e l’amore», Rensi aveva pubblicato a Firenze l’«Introduzione alla scepsi etica» e nel 1924: «Interiora rerum». Rensi suggerisce di ribaltare il principio dell’idealismo hegeliano: ciò che è reale, è irrazionale; ciò che è razionale è irreale. La ragionevolezza è visione onirica, è invenzione che tenta di truccare l’assurdità del reale, dando a vedere un universale che inutilmente tenta di far coincidere con la molteplicità incomponibile dell’individuale: non c’è un solo intelletto, vi sono tanti intelletti quanti sono i soggetti umani, anzi gli attimi delle vite particolari. La mente sorge nell’uomo quando questi contrappone all’essere un dover essere, che gli consenta di prodursi come conoscitore del concreto, caratterizzando il vero dal falso, il bene dal male, il bello dal brutto. La «critica scettica» dimostra che il reale si oppone alla richiesta della logica, dichiarandosi tenacemente come spazio libero al di là del vero e del falso, al di là del bene e del male, al di là del bello e del brutto (e accanto ai «Lineamenti di filosofia scettica in generale», il Rensi illustra la «Scepsi Estetica», 1920 e la «Scepsi Etica», 1921). L’analisi indifferente dimostra, da una parte, che quella ostentazione dell’intelligenza è una fantasia, e, dall’altra, che nell’uomo il perseguimento di questa chimera è la radice dell’infelicità. Ma v’è anche un’altra via, opposta alla prima: ed è quella di riconoscere un valore concreto «all’esperienza del male», nel senso che, nel cruccio per la conquista del male, nell’afflizione per la disfatta che il reale applica alla nostra percezione del dover essere, si attua l’elemento più distinto del nostro animo, si ridà vita all’aspirazione ascetica del divino: e anche questa via percorre il Rensi nelle sue ultime opere, quali «Testamento filosofico» e «Lettere spirituali», del 1938. Le cose, al di là del lavoro, sono degli aggregati di qualità sensoriali, secondo rapporti spaziali e categoriali: le cose che si oppongono al lavoro sono ciò che si tocca, si vede, si ode e così via. E lo stesso io che sfugge alla dimensione del lavoro è un fascio d’impressioni sensoriali. Il linguaggio comune chiama materia ciò che nella sua concretezza è oggetto di un sentire, che si spinge oltre il travaglio, senza complicazioni di significati metafisici: ma l’ingranaggio del lavoro, che dovrebbe aiutare l’elevazione ascetica, in realtà, ne è il suo intralcio e diventa la dimostrazione al soggiogare. In questo senso, per Rensi, il realismo è materialismo. E il materialismo è fenomenistico o critico. Rensi, demolendo il postulato dei postulati, il lavoro nobilita l’uomo, da esemplare filosofo di taglio nietzschiano prova come l’effettiva ventura umana sia l’ozio e il gioco, l’arte, la passione per le scienze, qualsiasi laboriosità soggetta a sfuggire al dovere e all’intimazione del denaro, e che quindi un’organizzazione sociale basata sul «lavoro salariato» è un’istituzione che riconosce, esegue e costruisce il più sfrontato sistema oppressivo, esattamente in linea con quanto ebbe a dire – poco dopo Rensi – Andrè Breton in Nadja (1928), ma poco prima dei situazionisti: “Non serve a niente essere vivi, se bisogna lavorare”. Nello scetticismo morale si afferma che ragione e passione hanno gli stessi diritti (è la posizione ad esempio di D. Hume). Nessuna è più buona o cattiva dell’altra. Non esistono ragioni o principi morali validi per tutti che possano giustificare la presa d’atto del lavoro. Eventuali conflitti tra ragione e passione si risolvono di volta in volta a seconda delle attività soggettive e delle circostanze pratiche della propria azionarietà. Il ragionamento rensiano si muove in tal senso, nel tentativo di depurare conoscenza de facto dalla cornice antropomorfica che la razionalità impone. Questa è una delle più semplici operazioni compiute nell’approccio conoscitivo, che egli instaura con la realtà naturale che gli si offre dinnanzi e, agendo su di essa, mira a scoprire le cause dei fenomeni che in essa si svolgono. «Perché l’uomo, questo impercettibile animale, possiede siffatta facoltà di porre e trovare, nella sfera della sua attività pratica dei perché, delle ragioni, ecco che egli pretenderebbe che tutto l’essere abbia un perché, una ragione». In altre parole l’uomo «pretenderebbe che quella che è una caratteristica o disposizione sua, la deduzione razionale, il bisogno di razionalizzazione e spiegabilità, il perché insomma, diventasse una proprietà di tutto l’essere. Ma ciò è antropomorfizzare l’universo» (Apologia dello scetticismo, Roma 1926, p. 39). Liberato il campo metafisico dell’essere dalla ragione e dalla verità assoluta, Rensi può intraprendere l’edificazione di una filosofia della storia che sia il traguardo più elevato di consapevolezza della esplorazione scettica del mondo. Nei capitoli della sua analisi sintetica dedicata al corso degli eventi umani, sembrano risuonare alcune note fondamentali, che tornano come fossero toniche di un ritornello infinito, alle quali è affidato il compito di rispecchiare dei contrasti accordate in minore. Nel rompere la grammatica dello storicismo, nel disconoscere la filosofia della storia, nata col De civitate dei di Agostino, Rensi approda a conclusioni pesantemente distanti da contributi teorici come quelli di un Condorcet, un Turgot, un Bossuet, un Kant, un Comte, un Marx, perché dominati dalla parmenidea distinzione fra essere e non essere, cui Rensi vuole restituire piena dignità filosofica. Dunque, tornando al contro-lavorismo, accanto alla reazione violenta di classe, alla rivolta del disagio che affonda le sue necessità nei bisogni primari, alla negazione attiva di un modo di vivere oppresso e pianificato dalla società del lavoro totale e assoluto, si presenta anche questo secondo aspetto, meno clamoroso del primo, ma forse più sottilmente diffuso e ad esso dialetticamente complementare: il tentativo di allontanarsi dall’irrazionalismo liberista assoluto, triviale, putrescente, che si intuisce prossimo alla rovina. Sovente in uno stesso autore, in uno stesso artista che gioca e fa sul serio, i due atteggiamenti sono coestensivi, intimamente legati e confusi, per cui è difficile distinguere fino a che punto il tentativo di evasione non sia una forma di protesta e di rifiuto. Certo è un tipo di rifiuto più consono allo spirito che si è cercato di definire supra come “scettico-cinico-pessimistico”, più decisamente abolizionista, luddista, attivo, ma catastrofista, proto-situazionista (visto che Rensi, come si segnala nelle note, piace tanto a G. Sanguinetti), che è quindi più propenso a darsi a un gioco interiore di irrazionalismi, che non all’azione decisa e violenta di rottura, di rivoluzione d’ottobre; azione che sempre richiede una forza di impegno morale, programmi della Nep al posto di finanziamenti ai narcotrafficanti, che pur ne sentono il fascino eroico. La stessa evasione controlavorativa rensiana è da essi sentita (dico dei nietzschiani senza Sangueinetti) come una necessità spirituale, più che materiale: soltanto in alcuni casi, celebra fra tutti quella delle “Antilogie del lavoro”, della morale, della svalutazione economica, del giusto nell’ingiusto, dell’apologia del gioco, della contemplazione, delle laudi dell’ozio, del negativismo, del progresso operativo, la vanità delle rivoluzioni demagogiche, del realismo della schiavitù, l’inesistenza del diritto naturale, esse si realizzano con una fuga decisa ed un abbandono del mondo, per la ricerca di una vita diversa sotto climi ludici e cieli e rovesciamenti estetico-contemplativi. Più spesso sono i paesaggi interiori che acquistano sfumature e atteggiamenti diversi, ben conscia la penna di Rensi, nell’impossibilità di sfuggire totalmente a se stessi ed alla necessità della propria autovalorizzazione d’avanguardia. Certo non viene meno il fascino della rivolta astratta della sua similitudine con l’avanguardia, ma è una rivolta immaginata, accarezzata nell’intimo delle sue contrarietà gius-lavorative, che sfugge ad una vera e propria realizzazione, nella quale perdere gran parte di quella vaga imprecisione che ne costituisce il prepotente richiamo. Si può così stabilire l’identità di uno dei mezzi di contro-lavorismo di questa intersezionalità rensiana, come di tutti i tempi, senz’altro il più innocuo: il gioco, dalle scacchiere di avorio e di corno, come direbbe il dadaismo perbenista di Marcel Duchamp, a volte ai limiti della risata irrazionale, sempre aperto nelle più diverse direzioni e a tutte le avventure spirituali. Il “contro” però a volte non basta: alla stanchezza dell’oppressione sempre più spesso si supplisce con gli stimolanti, alcool, droghe, oppio, brillanti visioni e paradisi critici, il “Contro” in una sfera magica avanguardistica e post-avanguardistica, diversa, perfetta, coronata dalla fede teo-performativa di Carmelo Bene, dalla voce stanca di Narciso, per cui sempre più difficile sarà il ritorno ad una meschina realtà colombiana o ad una banale realtà populista pasoliniana, come la descrive Bifo, difendendo l’astratto operaismo di Nanni Balestrini e dimenticandosi del funambolismo di Emilio Villa! La povertà fa aumentare la produzione di morte e di tossicità generalizzata; leggendo questo fenomeno alla luce dell’analisi di Rensi di Contro il lavoro, dovremmo considerare lui e Cioran come degli sdoganatori di morte, sdoganatori ossessionati dalla filosofia di Burke, De Maistre, F. Nietzsche e tanti altri paladini di un pessimismo leopardiano, che non c’era e non c’è mai stato! Comunque, ritorniamo a ripetere che la povertà fa aumentare le piantagioni di coca. Nel 2021 in Colombia la superficie di campi coltivati con le piante da cui si produce la cocaina (e vi assicuro che non sono delle istallazioni di Land art, magari lo fossero) è cresciuta del 43 per cento. Una cattiva notizia per il presidente Gustavo Petro: secondo il rapporto presentato il 20 ottobre dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine, nel 2021 la Colombia ha raggiunto i livelli più alti di sempre nella lavorazione di coca e nella produzione potenziale di cocaina. La coltivazione è cresciuta del 43 per cento e la produzione del 14 per cento. Le coltivazioni si sono estese su un’area di 204mila ettari, invertendo la tendenza al ribasso dei tre anni precedenti; nel 2020 gli ettari coltivati con le foglie di coca erano 143mila. La produzione potenziale di cocaina è arrivata a 1.400 tonnellate contro le 1.228 nel 2020. L’aumento dipende dal fatto che il prodotto è molto redditizio e le tecniche per la lavorazione della cocaina sono migliorate. Il rapporto è uscito mentre il governo del presidente Gustavo Petro, di sinistra, sta cercando di rendere esecutiva la politica sulle droghe, stabilita dagli accordi di pace firmati nel 2016 tra l’organizzazione guerrigliera delle forze armate rivoluzionarie e il governo di Bogotà. Resta chiaro che se si eliminassero le piantagioni di coca l’economia ne risentirebbe. La nuova politica vuole trasformare la coltivazione della coca in un’economia legale, senza però legalizzare la cocaina: non si tratta di sradicare le piante, ma di avere un’economia sicura, ha detto il ministro della Giustizia Néstor Osuna. Se i bisogni coatti creati dalla necessità della produzione di morte, sono i mezzi più diffusi per raggiungere la sfera del controlavorismo, essa si realizza in forme diverse. In Colombia e nel resto del mondo la domanda è: siamo contro il lavoro o siamo contro la droga e il sistema societario di corruzione che lo mantiene? Sarà talvolta la fuga verso immaginari sistemi filosofici, contrade – apparentemente – non contaminate, un’evasione metafisica o stoica, in cui si recuperano quei valori di purezza primitiva verso i quali è teso nostalgicamente l’animo umano. Ma la purezza primitiva del gioco e dell’arte che consiglia Rensi, si ritrova anche con una fuga temporale, verso il remoto resistere di una scelta economica di morte: mitico eden, o verso il destino di un consumo di droga?
Nel tentativo di sfuggire ad una realtà dura e frustrante, la dimensione spaziale e quella temporale vengono frantumate ed abolite: dilatando all’infinito i bisogni, i giochi e le necessità; non esistono più differenze tra il bene e il male. Vera e propria bibbia dell’antilavoro è l’opera rensiana, da cui sono sottolineati il capitolo sulla positività del gioco e quello sulla vanità delle rivoluzioni demagogiche. Ricorda Rensi: “Ciò che, invece, è fatto seguendo la china delle nostre tendenze, in conformità alla nostra inclinazione, per il piacere soltanto di soddisfare questa mediante l’attività dispiegata (e quindi i giuochi …. ) tutto questo è, del pari, giuoco”. La certezza del contro-lavorismo non ha più alcun rapporto con la speranza o l’immaginario utopico-sociale o socialista, fino al punto che Rensi attacca Georges Sorel, dicendo che produce solo «frasaiolerie» e che “qualunque sia il sistema sociale il lavoro sarà sempre sentito come non proprio, ovvero come coazione e schiavitù” (WoM, p.80). Di qui, l’importanza della contrarietà filosofica dello scettico, al quale si attribuisce un valore ontologico assoluto. Siamo ben lontani dagli esercizi formali del razionalismo, sempre al servizio di una tecnica di rifiuto, di un realismo o di un’arte trasgressiva: l’esplorazione delle possibilità dell’antilavorismo non è un gioco, ma un’avventura ludica e scettica, in quanto non si cura di adornare le idee del progetto utopico, ma di sostituirsi ad esso abbracciando la pratica infinita del gioco. Dalla gelosa consapevolezza non solo delle difficoltà e del rigore che si impongono a chi intraprenda il duro cammino scettico, ma dell’essenza stessa del gioco, nasce lo sdegno con cui l’astratto rensiano afferma, in queste pagine contro il lavoro, la necessità di avvolgere l’arte di mistero: non è una scienza, a buon diritto divulgabile e acquisibile mediante studi, anche severi, ma una ortodossia agnostica, al cui «sancta sanctorum» hanno accesso solo gli eletti.