Nano Gobbo
Gabriele Perretta, Asfalto rosso a senso unico, Roma 2020

Allegorie Storiche: sulla questione del Nano Gobbo [prima parte]

Invito alla lettura: Ecco il reinizio della Rubrica! Novembre è un mese che amo, che mi riconduce lontano … anche paesaggisticamente, dato che «sti» fiori gialli, anche qui cimiteriali, mi ricordano I Fiori del Male. Quelli che crescono qui, se dello stesso giallo, sono certo di altro ceppo botanico, ma paiono proprio quelli. Ed io mi accontento di un profumo semplice, di una brezza, di qualche delicata e fugace sensazione. Possibile, si è chiesto qualcuno, che le mie scorribande critiche e le mie fisime di scrittore non mi abbiano mai portato a tirar fuori qualcosa di ciò che ho accumulato nei miei quarant’anni e passa di scrittura critica? Fatemi pensare. Ebbene, se si eccettua un racconto su trenta o un saggio su venticinque, dal titolo “Le Notti di E.A. Poe”, incluso nel mio secondo libro “C’è una novella in più … la lasciamo?” (sempre La Pleiade ed., Paris 1980) mi pare proprio non vi sia altro. Forse era gà scattato il venerdi 6 novembre 2020 quando: c’è chi mi telefona e mi chiede se conosco qualcuno di quelli che soprattutto in TV parlano di lockdown e di distanziamento. Se sì gradirebbe che glieli presentassi!
No, rispondo, non conosco nessuno, proprio nemmeno uno.
Ed allora perché si permette loro di dire tante cose che non colgono il momento?
… capisco … è un momento in cui, per effetto della terribile pandemia dilagante in quei modi di dire se ne parla moltissimo. E noi tutti avremmo voluto sentire di quel nuovo articolo, di quel nuovo saggio che commenta, di quella o di questa rubrica che si rinnova, storicamente e in tutti i campi … su e giù per quelle nuove uscite e quegli acrocori. Qualcuno che dicesse di miserie note e di ricchezze segrete. In questo momento, scrivere val più che discutere e farsi dispetti o mancare il superamento di un concorso fasullo. Le questioni e gli Aliquid ci sono.
Ed allora? Attenzione da questo punto in avanti la lettura è obbligatoria … rileggendo W, H, X, Y, mi appassiona rileggere me stesso, ho la sensazione di trovare ricordi in punta di penna dai quali, almeno io, sto cercando di dil/azionarmi in punta di piedi…

I saggi e i frammenti qui raccolti sviluppano le concezioni di Walter Benjamin sull’analisi dell’allegoria storico-teologica, la simbologia del Nano Gobbo e i frammenti sulle Tesi di Filosofia della Storia. Nel costellato universo critico di W. B., la scrittura interpretativa del Nano Gobbo sorge come spazio che polarizza il vociferare diverso, favolistico e cronachistico dei fatti storici. La sua penna quotidiana e insaziabile è la vocazione paziente di una scrittura frammentata e corale: il Nano Gobbo si fece lavorio della domanda e frammento di una pratica di osservazione inesausta, prorompente e interstiziale. Attraverso una scrittura di sé e dell’altro, composita e travagliata, Gabriele Perretta a confronto con delle apparizioni biografiche di W.B. trascrive le trasformazioni del presente, dando forma alla realtà della letteratura e della critica. Ciascuno dei passaggi qui presentati indaga tutte quelle formazioni concettuali in cui comincia forse, a diventare chiaro quanto pensiero c’è nel percorso di un confronto col Nano Gobbo e quanta visione è già sempre costituita in una forma di pensiero in divenire.

1. Le radici Gobbe dei racconti allegorici. La diversità tra “favola” e “melodramma critico”, a livello della struttura della narrazione, si spiega in primo luogo con le modificazioni della visione e dell’organizzazione del mondo intervenute con la rivoluzione industriale; si riflettono cioè i maggiori cambiamenti portati dal nuovo modo di produzione, riassunti sotto (entro) la figura allegorica di mitologie infantili e in tutto quanto concerne il rapporto con la natura. L’allegoria drammatica e catastrofista sembra per la verità annullare il ruolo dello storicismo all’interno dell’assimilazione dell’immagine dialettica; in realtà non fa altro che sostituirla con una nuova serie di stimoli epistemologici. È il Nano Gobbo, che si tratti dell’equipaggio di una grande metafora o di un’intera forma narrativa sperimentale, ad assumere il ruolo della medializzazione. È chiaro che la scelta del nuovo soggetto non casuale consentirà di volta in volta di esprimere ideologie differenti; ma nel passaggio dal documento storico all’allegoria catastrofista si legge, en general, una rarefazione emozionale, un progressivo disfarsi delle tonalità dei buoni sentimenti, che ritroveremo nella (molto diversa) letteratura critica delle Thesen. Ciò suggerisce due considerazioni: in primo luogo, la dimensione del Nano Gobbo si riflette non solo a livello della natura, per quanto cioè riguarda il risvolto oggettivo del nesso epistemologico, ma anche sull’ermeneutica frammentaria e del metodo teologico-politico, inteso come soggetto di relazioni sociali; inoltre, l’esaltazione dell’immagine dialettica, viene ad assumere connotati compensativi a fronte della perdita dei legami affettivi che di lì a poco la guerra totale presuppone. … altri tempi, altri tempi. In tutto lo scoccare dello Jetzeit le prospettive felici del Nano Gobbo si sono mutate nell’incubo per eccellenza, la pandemia inesorabile è scesa davvero a minacciare il nostro pianeta, predicando di distruggerlo per sempre, e non è stato partorito dagli alieni ma da una scienza che ci ha tradito: c’è sempre una bomba (atomica, biologica, fascista, bellica totale, chimica, etc…) che si erge a termine dei nostri futuri, mille volte più severa e terribile del Dio del buon tempo andato. Tempi cupi e duri quelli che si vivono, sognare è quasi privo di senso, sembra che non ci sia posto per utopie, incubi e presagi. Il nostro futuro, così come quello di Walter Benjamin, non è connesso con la civilizzazione e il progresso morale e spirituale (oltreché, naturalmente, scientifico e tecnologico) da molti disegnato. Al contrario, la barbarie delle dittature fintamente democratiche e la sclerosi del freddo liberismo progressivo ripropongono interrogativi angosciosi, e ogni lieto fine si allontana fino a farsi lontano intangibile miraggio, realizzabile dopo un’altro stato di eccezione. Il desiderio, impastoiato da nuovi, imprevisti ceppi, ripiega sul sé antropologico, quasi un letargo antistoricistico, un catastrofismo e un’immagine dialettica in attesa di nuove primavere. Ma, al contempo, l’immagine dialettica (che sarebbe anche un’immagine mediale) si insinua prepotentemente nel reale, forzando le pieghe fino a ricavare un quotidiano spazio di catastrofe e di alterazione e di diffusione dello scetticismo pandemico: l’incorporeità del web interpone nuovi diaframmi nel rapporto col mondo, ed accentua la spoliazione delle dimensioni umane. La realtà sfuma nell’interrogazione dell’Omino Gobbo, il reale si rovescia nella sua immagine, e la proliferazione dei discorsi conosce accelerazioni frammentarie. E se gli “stati di eccezione” si conoscono per immagini (e fra immagini distorte) l’immaginario ne risulta ancora più catastrofico. Il Messianesimo, ove ancora possibile, perde ogni carica rigenerante, nel moltiplicarsi labirintico si fa banale ripetizione del consueto, copia grottesca di una realtà, che, secondo alcuni, non cambierà mai! La nuova scrittura messianica, quella proveniente dall’amarezza catastrofica delle Thesen, si scopre gobba, come un omino che ci spinge al di là della sua dimensione teologico-politica, e conosce l’aporia immaginativa. Nel frastornante bisbigliare di nuove storie, che nell’adeguarsi ai tempi smettono gli abiti chiassosi del possibile per gli austeri indumenti del probabile catastrofico, in questo incessante mormorare spiccano con tracotante ed arbitraria evidenza alcune, poche pagine. Forse le più belle, di certo le più adeguate di Infanzia Berlinese e di una civiltà che, ormai, conosce un caotico agonizzare anche nell’Eden di un’Angelo preistorico anti-progressista. Se il Nano Gobbo si smarrisce, se il Dibbuk non sarà più individuabile, nessuno sarà più in grado di ritrovare il sentiero …Cominciamo da una ideale scenografia dell’infanzia: il nuovo scrittoio, e lo sguardo inquietante de L’omino con la gobba che possiede le immagini di noi tutti … 

“L’omino con la Gobba [titolo di una filastrocca popolare in Des Knaben Wunderhorn]: “Finchè ero bambino, quando andavo in giro mi piaceva spiare attraverso quelle grate orizzontali che permettevano di soffermarsi davanti a una vetrina anche là dove si apriva una bocca di lupo, la quale serviva a dare un pò di luce e di aria ai lucernari dello scantinato sottostante. Questi, più che verso l’aria aperta, sembravano soprattutto guardare verso il sottosuolo. Da ciò la curiosità con cui sbirciavo di tra le sbarre di ogni grata, su cui per l’appunto avessi posto il piede, per cogliere a volo un’immagine di laggiù: un canarino, una lampada, una persona. Non sempre mi riusciva. Ma se di giorno ero fallito nell’intento, poteva accadere che di notte i ruoli si invertissero, ed io stesso in sogno cadessi in una rete di sguardi che da quei sotterranei si fissavano su di me. Erano gnomi dai berretti a punta che mi scoccavano quelle occhiate. Prima ancora però che cadessi morto di paura, essi erano già svaniti. Non esisteva per me una precisa linea di demarcazione tra il mondo che di giorno popolava queste finestre e quello che di notte stava là in agguato per sopraffarmi nel sogno. Per questo avvertii subito di che si trattava quando, nel mio Deutsches Kinderbuch di Georg Scherer, mi imbattei nella strofa che dice: In cantina voglio andare,/ Il mio vino voglio bere;/ Ma un gobbetto ahimè compare/ E si beve il suo bicchiere/. Io conoscevo quella genia di guastamestieri, che aveva il gusto del dispetto e della burla; e che si trovassero a loro agio in cantina, non mi faceva meraviglia. Non c’è che dire, si trattava di Gentaglia [Libro tedesco per bambini]. Ed ecco che mi ricordavo di quei due compari, l’Ago e lo Spillo, che per strada la sera si associano al Galletto e alla Gallinella e gridano ad una voce “che stava per diventare Buio Pesto”. Quel che però combinarono all’oste che li aveva accolti per la notte, essi lo intendevano certo come uno scherzo. Ma a me incuteva terrore. Del loro stampo era Il Gobbetto. Ma altro non seppi di lui. Soltanto oggi so come si chiamava. Me lo svelerò mia madre senza saperlo. «Guastatutto ti saluta», mi diceva ogni volta che avevo rotto qualcosa o ero caduto. Ed ora capisco di che parlasse. Parlava dell’omino con la Gobba, che mi aveva guardato. Chi è guardato da questo gobbetto, perde la bussola. Non bada a sé stesso, e neanche al gobetto. Si ritrova stordito davanti a un mucchio di cocci. “In cucina voglio andare,/ Scaldar voglio il mio brodino;/ Ma un gobbetto ahimè compare/ E mi rompe il pentolino./”. Dove esso appariva, là io restavo con tanto d’occhi. E a questi occhi le cose si ritraevano, sino a che nel volgere di un anno del giardino restava un giardinetto, una cameretta della mia camera e un banchetto del Banco. Le cose si contraevano, ed era come se spuntasse loro una gobba, che le rendeva per lungo tempo partecipi del mondo dell’omino. Il Gobbetto mi precedeva dappertutto. E, precedendomi, egli mi contrastava il cammino. Tuttavia nient’altro faceva che riscuotere, come un severo esattore, di ogni cosa dimenticata a cui tornavo, la meta: “In salotto voglio andare,/ Dove il dolce ho conservato: ma un gobbetto ahimè compare, e metà ne ha già mangiato/.”. Così andavano di solito le cose con l’omino. Solo che io non l’ho mai veduto. Lui soltanto mi vedeva sempre. E con tanta maggior perspicacia quanto meno io sapevo di me stesso.

Io credo che quel “tutta la vita” che si racconta passare davanti allo sguardo di chi muore sia composto delle medesime immagini che Il Gobbetto possiede di noi tutti. Esse scattano veloci una dopo l’altra come le pagine di quei libricini dalla robusta rilettura che tempo addietro furono gli antesignani dei nostri cinematografi. Con una leggera pressione il pollice scorreva lungo di taglio delle pagine, ed ecco che per qualche secondo sfilavano delle immagini che poco o nulla si distinguevano le une dalle altre. Nella loro rapida corsa erano riconoscibili il pugile in azione e il nuotatore in lotta con le onde. Anche di me Il Gobbetto conserva le immagini. Egli mi vide nei miei nascondigli e davanti al recinto della lontra, nei mattini d’inverno e al telefono nel buio corridoio, ai piedi del monte Brauhaus a caccia di farfalle e sulla mia pista da pattinaggio al suono della banda musicale, davanti al cestino da lavoro e chino sul mio scrittoio, nel Blumeshof e quando ero a letto ammalato, a Glienicke e alla stazione ferroviaria. Ormai il suo lavoro è compiuto. Ma la sua voce, che ricorda il sussurro della lampada a gas, mi bisbiglia sulla soglia del secolo le parole: “Prega, deh, bambino mio,/ Pel gobbetto prega Iddio/.” (W.B., Infanzia Berlinese, Torino, Einaudi, 1994, p. 122-125). 

Walter Benjamin

Chi potè, in quel momento vedere Walter Benjamin e il suo nano gobbo tacito e pensieroso, coi segni del volto di una malinconia e di una miocardia, duramente contrastante al vivere abituale di lui, avrà subito intuito che una dura battaglia si combatte nel fondo di quei pensieri, di quelle visioni, di quelle immagini dialettiche. Però (come avviene quasi sempre allorché una nuova immagine si presenta alle ragioni dell’intuizione, per scendere nel cuore a detronizzare le antiche visioni) non è da credere che quella nuova luce spiegasse tanta energia da paralizzare le abitudini in diritto di interpretazione. No, le crisi morali, le domande sulla difficoltà di comprensione e l’essenza di un simbolo hanno sempre il periodo di osservazione, il periodo di lettura e il periodo individuato. Il passaggio dall’uno all’altro non è mai rapido, molto meno istantaneo. I passaggi fulminei non rientrano nei fatti dello spirito. Il nano gobbo era nel periodo progressivo della sua storia allegorica, e le ascensioni, prima che siano compiute, riportano spesso la visione donde siamo partiti. Di fronte agli ostacoli della storia che si devono superare, l’occhio guarda sospirando quel simbolo di sofferenza che abbiamo lasciato. Cosicché, il colpo del simbolo sopraggiunto quando la vita e la storia della vita toccavano il vertice supremo delle sofferenze mondane, aveva piegato non rotto, aveva scosso non abbattuto, vinto non domato, ferito non ucciso, quella natura eccezionalmente inclinata verso le malinconie del mondo; tanto che mentre l’immagine veniva dando al corpo la forza e l’ardire, lo spirito si tuffava nell’osservazione di quell’immagine di simboli sicuri, di curiosità indefinite. Quando l’immagine dialettica prepara una delle creature, per una missione straordinaria, ha sempre cura di plasmarla a suo talento, e la rivolta da tutti i lati per disporla a forma interpretativa alla visione assegnatale. Quella mano che aveva toccato il Gobbo, perché rientrasse in se stessa, agitandola sulla figura centrale di quella pittura, quella stessa mano torna di nuovo a indicarlo a fin di leggerlo al suo gusto e farne un oggetto di bene. Le visioni del nano gobbo sfumano… Le positività della storia sono le più corte… e i tempi felici, i felici sono i più fugaci… l’ideale umano tramontava per sempre? Scosso, il nano gobbo è sorpreso da una visione così inconsueta della storia, coglie appieno chi è che gli parla; perché gli parla: si ricorda della visione che ebbe in quei giardini, in quel parco della Nomentana. La crisi pandemica è nella fase acuta. Il nano gobbo là, inevitabilmente, rompe col mondo, rompe con le sue affezioni teologico-politiche e le trasforma in sospetto teologico-scettiche. E, risale la corrente, vince l’ambiente e, come un naufrago, il quale per afferrare la tavola che può condurlo in salvo sulla riva, allarga il pugno ed abbandona le alghe che aveva preso per una rabbia d’istinto. Così egli, di ogni cosa nauseato e stanco, spazza dal fondo dell’essere gli ultimi residui di quel dibbuk! Perseguiti, intralciati, incalzati, battuti da una luce nuova che ne riprova, ne schiva ogni attinenza, li incentra e condensa in una espressione di interrogazione, sublimante il proposito della mente rigenerato, e grida al mondo: 
“Come è noto, sarebbe esistito un automa costruito in modo tale da rispondere ad ogni mossa d’un giocatore di scacchi con una contromossa che gli assicurava la vittoria della partita. Un manichino in abito turco, con un narghilè in bocca, sedeva davanti alla scacchiera posta su un ampio tavolo. Mediante un sistema di specchi si destava nell’illusione che questo tavolo si potesse vedere da ogni lato. In verità vi era seduto dentro un nano gobbo, che guidava per mezzo di fili la mano del manichino [?] era un maestro nel gioco degli scacchi e guidava per mezzo di fili la mano del manichino. Un corrispettivo di questo congegno ce lo si può immaginare nella filosofia. Vincere deve sempre il manichino chiamato “materialismo storico”. Esso può competere senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com’è noto, è piccola e brutta, e comunque non deve farsi vedere”( [020950, Walter Benjamin, Sul concetto di storia. Il manoscritto affidato a Hannah Arendt delle Tesi di Filosofia della Storia (1940) pp. 119-153 e in part. p.131.). 

Berlino al tempo di Infanzia Berlinese, Brandeburge Tor

L’autunno inoltrato rendeva spogli i grandi alberi che sostavano ai margini del viale. Le poche foglie per terra, ormai secche, svolazzavano per un venticello che insisteva, penetrando nei posti più riparati. Per terra una minuscola ghiaia fatta di piccole pietre lisce e arrotondate, rendeva rumoroso il camminare dei passanti. Era il luogo delle passeggiate, il luogo del tempo libero, il luogo dei giorni e delle ore del quotidiano che in quel distanziamento non passava e non distanziava mai; lì si incontravano mamme con bambini, persone che correvano con tute e magliette intrise di sudore, rosse in viso, assorte nell’impegno sportivo. Sulle poche panchine, seduti gli anziani, in buona salute, con i giornali aperti e la lettura rivolta sulla cronaca. 

Il Gobbo era sempre lì, un’età indefinita con il suo fardello prominente alle spalle che madre natura si era divertita a mettergli. Basso di statura, vestiva quasi sempre alla stessa maniera e quasi sempre faceva pensare che Karl Rosenkranz si fosse dedicato a lui per scrivere l’Estetica del Brutto; il passo lento, come se il peso delle deformi vertebre gli recasse fatica era conosciuto da tutti un po’ per curiosità, un po’ per il suo inconsueto aspetto. Nessuno sapeva che lavoro facesse, nessuno conosceva il suo nome e il suo domicilio. Era lì, in quel viale; non salutava nessuno, non conosceva nessuno. Era lui, il Gobbo, sconosciuto e conosciuto da tutti, notato da tutti, con l’istinto di toccargli la gobba, ma nessuno osava. Ma chi era il Gobbo, come si chiamava, quanti anni aveva? Le sue apparizioni erano quotidiane, poi spariva, all’improvviso. Dice un passo del Talmud: 
“Abbiamo bevuto per caso quel quarto di vino italiano?”/ ”Si”, gli rispose l’amico.”/ Allora, che quest’uomo ci segua, fino a che l’effetto del vino non sia scomparso”./ Così, quell’uomo viaggiò insieme a loro. Compiute tre miglia giunsero al promontorio di Tiro. Allora, Rabbi Gamaliel scese dal suo asino, si avvolse nel suo mantello e si mise a sedere. Dopo di che, sciolse l’uomo dal suo voto. /A questo punto della storia possiamo comprendere più cose: che un quarto di vino basta a ubriacare; che un uomo ubriaco non può prendere delle decisioni che riguardano la legge; che muoversi dissipa l’ubriachezza; che non si annulla un voto quando si è a dorso di un asino, o viaggiando, o in piedi: un voto si annulla quando si è seduti”. 

La sua immagine sempre la stessa, mai una novità, la gobba al suo posto, bene in evidenza, come se fosse un attaccapanni dove era appesa una giacca. 

Persona anonima, nota a tutti per un paradosso costituzionale. La curiosità di sapere chi fosse era recondita, come era recondito il significato di dibbuk. Il Gobbo, si sa, porta fortuna, si incontrava con la solita distrazione di chi si vede spesso, di chi vede spesso il suo doppio, di chi vede spesso in se stesso, di chi spesso guarda i suoi difetti, senza conoscersi. Il Gobbo è una figura pressoché anomala alla tradizione popolare di tutte le culture occidentali, nella quale il termine è entrato sporadicamente e impropriamente come sinonimo generico di Nano o di Folletto. Col dispiacere di Derrida la figura del Nano Gobbo risale a illustre tradizione filosofica e si può considerare un eredità derivante dalla dottrina ermetica e neoplatonica. Infatti lo spazio che separa l’Uno dalla Materia viene via riempito dai seguaci delle teorie neoplatoniche di esseri intermedi che si moltiplicano all’infinito e che trovano vaghe definizioni nella Cabala. Questa inenarrabile dottrina afferma che esistono intelligenze infinitamente piccole che abitano le cose e da queste muovono per penetrare la mente risvegliandola alla conoscenza. Riprendendo la tradizione aristotelica assegna i quattro regni degli elementi rispettivamente ad altrettante figure. La dottrina fu seguita da molte dottrine segrete medioevali, ma ebbe influenze solo marginali sul mondo popolare. Per giungere al Gobbo, bisogna risalire al maschietto della Befana. La Befana è una figura fantastica e popolare di vecchia, nata forse dal fantoccio di cenci che si usava portare in corteo nella notte dell’Epifania; probabile personificazione della fredda stagione o della terra improduttiva nella stagione invernale. L’uso del fantoccio, detto anche Befanino, è attestato dal Villani prima del 1363. Nelle note al Malmantile (1688) abbiamo già la figura della portatrice di doni ai bambini buoni e cenere e carbone a quelli cattivi. Nelle Befanate (itinerari di questua della notte tra il 5 e il 6 gennaio) la Befana, così vestita, aveva un corteo di befanotti gobbi e generici, probabilmente anonimi, senza nome, mascherati in modo carnevalesco, e figure tipiche. Il Befano era il marito: gobbo con una gran pelandrana, un cappellaccio cadente, un bastone enorme, grande barba fluente, baffi e la pipa in bocca. C’è un personaggio che accompagna, nascosto nel profondo permanente ed immutabile degli archetipi infantili, tutta la vita di Walter Benjamin; un «chi è» che troviamo strumentare negli incunaboli della sua stessa fenomenologia, in cui il filosofo della Caduta dell’Aura ha voluto esplicitamente collocare l’essenzialità allegorica del suo pensiero. Un essere metaforico che si nasconde nel buio più recondito da cui originano le sue folgoranti citazioni e interpretazioni, e che da quella postazione gli disamina la visione allegorica della storia e delle cose del Mondo. Questo personaggio ha solo una speciale funzione allegorica, che per perpetrarsi nel tempo e nel ricordo di altre generazioni, eternizzare la sua essenza mutandone la forma, come avviene per ogni immortalità allegorica: chiede che il suo nome resti segreto, ovvero come l’omino gobbo della panchina della Nomentana, pratica il neoismo, l’anonimato che abbiamo raccontato in art.comm (vedi: G. Perretta, art.comm, Roma. Castelvecchi, 2002). In filosofia della religione, l’allegoria indica il metodo alessandrino, di parziale derivazione neoplatonica, di interpretazione non-letterale dell’Antico Testamento. In Estetica l’allegoria è l’artificio consistente nell’impiegare le forme artistiche per l’espressione simbolistica di concetti direttamente raffigurati. L’allegoria è stata condannata dalle estetiche intuizionistiche (come quella di Benedetto Croce), ed è stata valutata positivamente da quelle formalistiche (ad esempio V. Sklovskij). L’allegoria, facendo riferimento alla celebre tesi di dottorato di Walter Benjamin, ricordata come Il Dramma Barocco Tedesco sottende il dybbuk: l’«omino con la gobba», Das bucklicht Männlein, che troviamo nascosto anche nell’automa giocatore di scacchi, come abbiamo già visto nella prima Tesi sul concetto di storia. 

“Il Doppio” di Otto Rank è un breve saggio del 1914, che ha introdotto temi e metodi di analisi di grande valore e che ne fanno un piccolo classico della letteratura psicoanalitica. Il libro inizia con l’analisi di un film “Lo studente di Praga” di Stellan Rye (1913), tratto da un racconto di H.H. Ewers. Il motivo centrale di questa storia è una variante del patto col diavolo. Il protagonista vende la propria immagine riflessa in uno specchio in cambio di un ingente patrimonio, che gli assicura potere e successo. Nel corso della storia, quest’immagine gli apparirà di fronte, con sembianze identiche, ma autonoma e con iniziative personali, interferendo in maniera disturbante nella sua esistenza. Il tema centrale che viene qui rappresentato è il significativo problema del rapporto dell’uomo col suo Io. Elemento essenziale delle storie sul Doppio prese in esame da Rank, è l’autonomia, completa o parziale, della propria immagine, che si tratti di un’ombra, di un riflesso nello specchio, di un sosia in carne e ossa, di un ritratto o di un dibbuk. Altro elemento caratterizzante è la contrapposizione tra il personaggio e il suo Doppio, che acquista la tonalità negativa e persecutoria del folletto. Rank sintetizza la situazione in questo modo: Ci imbattiamo sempre in un’immagine che somiglia minuziosamente al protagonista: nel nome, nella voce, nell’abito, e che, “quasi rubata da uno specchio” (Hoffmann), nella maggioranza dei casi si fa avanti proprio attraverso lo specchio (O. Rank, Il doppio, il significato del sosia nella letteratura e nel folklore (1914) Milano, Sugarco, 1979). L’esperienza del sosia o del Nano Gobbo, in cui l’Io si presenta a sè medesimo, ricorda il momento della separazione e della perdita che hanno caratterizzato la costituzione stessa dell’Io infantile: un’esperienza che si colloca tra il distacco doloroso dall’oggetto narcisisticamente assimilato e l’angoscia per l’estraneo, tappe che segnano il cammino verso l’individuazione, passando attraverso l’identificazione. Il Dibbuk, evidentemente, rappresenta i desideri segreti e sempre repressi della psiche. Questa figura corrisponde alla figura dell’angoscia esistenziale, e quindi della morte. Scudo contro la morte è allo stesso tempo suo messaggero. Il Dibbuk tiene in pugno il perduto oggetto primordiale e il soggetto si riappropria del proprio essere primordiale solo a costo della propria vita. Il Doppio o Dibbuk introduce così la pulsione di morte e quello che era stato concepito come difesa dalla morte, come protezione del narcisismo, diventa il suo messaggero. Quando appare il Doppio, il tempo è scaduto. Il confronto col Doppio non ha soluzione, Esso, fa sprofondare il soggetto nella psicosi. Ma questo «nano gobbo», per ammissione dello stesso Benjamin, è in realtà un suo «doppio», il dybbuk che lo possiede e lo spinge a fare ciò che vuole, così dirà nella sua raccolta di saggi su Avanguardia e rivoluzione, alludendolo come imparentato ai personaggi veramente scanzonati, vagabondi e gioiosi di Robert Walser: «Provengono dalla notte, dove essa è più nera, da una notte veneziana, se si vuole illuminata dai deboli lampioni della speranza, con una qualche luce di gioia negli occhi, ma sconvolti e tristi al punto di piangere. Ciò che essi vogliono dire è prosa. Poiché il singhiozzo è la melodia della loquacità di Walser. Esso ci rivela donde provengono i suoi diletti. E cioè dalla follia, e basta. Sono personaggi che hanno dietro di sé la follia, e per questo restano di una superficialità così straziante, così interamente inumana, così imperturbabile. Se si vuole indicare con una parola ciò che essi hanno di felice e inquietante, si può dire che sono tutti guariti» (R. Walser, in Avanguardia e Rivoluzione. Saggi sulla letteratura, Torino, Einaudi Paperback 40, 1973, p. 91). 

Per doppio si intende la duplicazione, la ripetizione e la riproduzione, all’interno dello schema narrativo, di uno stesso programma o di una stessa immagine, con manifestazioni figurative eventualmente differenti. La significazione, in poesia, della duplicazione è l’enfasi, poichè il fallimento marca la difficoltà della prova e sottolinea l’importanza della riuscita. Il dybbuk, nella tradizione popolare ebraica, polacca e tedesca, è lo spirito disincarnato al quale è stato vietato l’ingresso in paradiso per aver commesso peccati mortali,come il suicidio per amore. Ad alcune di queste anime, per imperscrutabili motivi, viene data la possibilità di emendarsi condividendo l’anima di un altro corpo, ed avere così una seconda possibilità. Un’anima “nuda” che non è in pace e non è soggetta a trasmigrazione e che deve trovare un corpo già occupato, reso vulnerabile dal peccato. Il Dibbuk, che può essere scacciato per mezzo dell’esorcismo, parla dunque attraverso una nuova voce e cambia la personalità dell’ospitante. Con l’esorcismo, il Dibbuk esce dal dito mignolo del piede, ma prima deve essere individuato e bisogna fare un’opera di Tikkun (תיקון) ovvero di riparazione/rettificazione, in modo che l’anima trovi pace e non si attacchi ancora a qualcuno. Quando arrivò sua madre, tuttavia, la guardò e il Dibbuk tornò a soffocarlo. Il precetto (mitzvah) del giorno è: “Offerta della challah, la porzione di impasto da destinare al kohèn“. (Voi offrirete la prima parte del vostro impasto come dono. Bemidbar 15, 20). Ricordiamo che il precetto non è più in vigore, lo era all’epoca del Tempio di Gerusalemme. Non tutte le mitzvot, infatti, sono ancora oggi osservate, ma noi le elenchiamo ugualmente tutte. Attraverso Rank si ritorna ad un Benjamin che insiste sulla questione della favola. Insomma, se è vero che palesemente è in genere una macchina dell’automa con l’Omino a permettere i viaggi nel tempo come nello spazio della propria esperienza, è la concezione di un tempo unico ed irreversibile a consentire logicamente il futuro come categoria della fabula anti-progressista. E se il tempo delle fabulae e delle time operas alla Poe è il tempo del declino della borghesia, anche il futuro sarà il futuro del Capitale, come già più volte mostrato. Il tempo qui si confonde con il suo simbolo allegorico, con la sua misura, che è misura di classe e di storia, come ben sapevano i comunardi parigini, come ignorano gli ingenui e innocenti soggetti del microcosmo walseriano (fiabesco e doppi che ricordano i Nani Gobbi): “I personaggi di Walser condividono questa nobiltà infantile con quelli della fiaba, che scaturiscono anch’essi dalla notte e dalla follia – quella del mito. Si pensa solitamente che questo risveglio si sia compiuto nelle religioni positive. Se è così, ciò non è comunque avvenuto in una forma molto semplice e univoca. Che si ritrova in quel grande incontro e conflitto profano col mito che è rappresentato dalla fiaba. È ovvio che i suoi personaggi non sono semplicemente analoghi a quelli di Walser. Lottano ancora per liberarsi dal dolore. Walser comincia dove cessano le fiabe” (Walser, op.cit., idem p. 92).