Nel ventre della macchina fotografica

Alla ricerca del nome e del suo ri-trarsi [terza parte]

Vedere una foto è allo stesso tempo un atto di ricezione e di pensiero, dove la parola diviene necessaria proprio per illuminare il momento riflesso dell’esperienza e il suo prolungarsi in un nuovo universo di ‘idees’ e ‘reveries’, nel quale si mette poi di fatto alla prova la vitalità stessa del ritratto/ri-tratto e in-ri-trovato… La forza speculare dell’indefinizione del ri-trarsi si traduce di continuo in tensione d’idea dinanzi ai grandi temi della somiglianza e dell’analogia didattica, della modernità e del caos, dell’impossibilità della metafora e dell’indice del niente.

“Pretendere di fissare delle immagini fuggevoli allo specchio non è solo impossibile, come hanno solidamente provato le ricerche della scienza tedesca, ma il progetto stesso è blasfemo.
L’uomo è stato creato ad immagine di Dio e questa immagine non può essere fissata da nessuna macchina umana”.

(Articolo apocrifo del Leipziger Stadtanzeiger del 1839, citato da Walter benjamin, Petite Historie de la Photographie, Essais, I, Denoel-Gonthier Paris, p. 150). 

3. Quell’immagine piccola, del tutto ri-tratta, dall’aspetto somigliante (senza nessuna vaga somiglianza), dall’aspetto leggero e forte, come una quercia della mia vita, che per uno scherzo di natura fosse rimasta assente. Quella donna nascosta col viso scavato su cui spiccavano due occhi verdi di madonna, e il naso leggermente aquilino; quella donna dai capelli bianchi, non ancora completamente ritinturati, dall’incedere lento, ma non del tutto stanco, quasi solenne ….

Mi parve di vedere in lei una delle persone alle quali sono stato più affezionato: l’immagine della madre di Baudelaire, l’immagine della madre di Roland Barthes, l’immagine della mamma di mia Madre, l’ebrea sconosciuta e morta giovane; sembrava la sua stessa incarnazione e tale mi sarebbe parsa, probabilmente, se io fossi stato più credente e se, per assurdo, avessi avuto radicato nel pensiero, come un credente di incrollabile fede yiddish, che un morto possa reincarnarsi qui in terra, prima del giudizio universale e che ci troveremo tutti riuniti nell’immensa valle del Cedron, pronti a rendere conto, senza reticenze e senza mezze misure, di tutto quanto abbiamo “somigliato”, segnicamente rievocato, in bene o in male, durante il nostro travagliato soggiorno terreno. 

Ricorda Baudelaire nel Salon del 1859: «“[…] Che bisogno c’è mai di immaginazione, a esempio, per fare un ritratto? Per dipingere la mia anima, l’anima mia così visibile, così chiara, così conosciuta? Io poso, e in realtà sono io, il modello, che consente di fare il grosso della fatica. Io sono il vero fornitore dell’artista. Sono, io solo così, tutta la materia”. Ma io le rispondo: “Caput mortuum, fa silenzio! Bruto iperboreo degli antichi giorni, eterno esquimese con occhiali, o peggio con paraocchi, che non saprebbero illuminare tutte le visioni di Damasco, tutti i lampi e le folgori! Più la materia, in apparenza, è solida e positiva, più il compito dell’immaginazione è sottile e laborioso. Un ritratto! Che di più semplice e più complesso, di più evidente e più profondo?”» (VI, Il ritratto, in Scritti sull’arte, a cura di Ezio Raimondi, Einaudi, Torino, 1992, p. 253). 

Avevo un amico ritrattista, tanto tempo fa, il quale affermava candidamente che non credeva alla reincarnazione delle somiglianze, come non credeva nel mondo delle corrispondenze e dei caratteri fisiognomici: nell’inferno dell’istantanea, come luogo storico in cui si va per incominciare ad abbandonare il proprio istante, prima e dopo morti insieme all’istantanea fotografica, una nuova vita di sofferenza eterna, di sguardi scettici e sospettosi, come non bastassero i patimenti già sopportati nelle scoperte, nelle riscoperte, nei viaggi che attraversano gli album fotografici di famiglia; al purgatorio, quella specie di anticamera dell’immagine in bianco e nero, virato in seppia, attraverso la quale si giunge ad un salone di segni e di riferimenti immensi, sconfinato, pieno di penombre e di colori smorti; al paradiso della foto a colori, oasi di pace per pochi riferimenti privilegiati … E neppure credeva – come, del resto, non credo io (ma questo è un altro discorso) – ai fantasmi che si aggirano sulle pareti di uno sconosciuto collezionista, al tocco dei ventiquattro scatti per fare una sequenza filmica, per le desolate stanze piene di muffa e di ragnatele, nei tetri studi fotografici dove nessuno abita più, non già perché si abbia paura di visioni sovrumane, o delle porte che sinistramente cigolano sui cardini arrugginiti, ma perchè per mantenere uno studio fotografico in ordine, e renderlo opportunamente accogliente e funzionale, occorre una truppa completa di fotografi, fotoreporter, sceneggiatori, registi, scenografi, performer …, tutta gente che va pagata con tariffe sindacali per cui, con i tempi che corrono, fare il ritrattista, o il conoscitore di ritratti sconosciuti, non è così semplice! Meglio abbandonare gli studi alla loro sorte, augurando loro una sollecita promozione alla qualifica di monumenti per la pubblica esposizione!

Egli, dunque, una delle voci di dentro, non credeva a tutte quelle cose fantastiche o fantasiose, partorite dalle credenze popolari o dagli insegnamenti religiosi. “Io, per conto mio, non lo avevo mai contrastato: ognuno è libero di guardare come meglio crede”. Ma quel giorno, vedendo e fissando quel “ritrarsi del ritratto”, per un istante fui tentato di dargli torto. Sì, di convincermi io stesso che i somiglianti possono anche ritornare nei ricordi particolari, sempre che lo credano opportuno e se la sentano di affrontare tutti i disagi e le preoccupazioni che la vita moderna snocciola in ogni istante della giornata, come i grani di un rosario senza fine. 

In quell’attimo di sbigottimento, quasi non capii più nulla, né di fronte a quale immagine mi trovassi, né in quale epoca iconografica vivessi: mi sentivo svuotato dalle letture e dai confronti con Aby Warburg. Galleggiavo senz’anima, completamente fuori dal mondo, come se fossi passato anch’io in un ambito storico e quel ritratto fosse un incontro casuale nel mondo di là da mia madre, anzichè qui, ai piedi di un volto fotografico tutto virato in seppia, luminoso sotto il sole di giugno, con quell’enorme sfondo buio sul quale la figura femminile sembra fiera ed orgogliosa di mettere in mostra la sua fisionomia, non tanto la sua persona tutta, quanto quel paio di occhioni, con le ciglia ripiegate all’insù. 

Istintivamente allungai un braccio per toccare quel ritratto, ma la mia intenzione venne frustrata da un gruppo di sguardi in transito nello studio, con i nasini per aria, i pantaloncini di pelle bisunti e le minigonne tanto mini che portarle o non portarle sarebbe stato perfettamente uguale. 

Ritrovai il mio ritratto dopo la sfilata degli amici e, questa volta, non mi feci scappare il punto di osservazione solitario. Avevo un desiderio irrefrenabile di osservarlo bene, da vicino, mentre mi assaliva il convincimento che “le dissimulazioni”, i “dissimulatori iconografici”, stanno bene dentro alle loro cornici e non si sognano nemmeno di fare una traduzione in altro linguaggio, anche per poche parole, lasciando l’opacità della figura leggermente accostata al muro bianco, dopo averci attaccato un cartello con su scritte tutte le notizie iconografiche, tecniche e letterarie recuperate in vari archivi.

Autombra

Storie che si raccontano nei saloni dei barbieri, intorno ai tavoli delle osterie, o intorno al focolare domestico. 

“La logica di quel ritratto occupa nell’insegnamento – somigliante a mia Madre – un posto decisivo. Non che Mamma non se ne fosse preoccupata già in precedenza, ma solo attraverso le torsioni di queste vaghe somiglianze lo sguardo mi “si istituisce” come oggetto avente una funzione assolutamente particolare. La definizione della funzione dello sguardo, da un lato, è una progressione con il percorso di ricerca del ritratto ritrovato dall’Altro, è causa di un suo significativo spostamento. La logica della “ritrovazione matriale”, per quanto relativa a un momento ancora acerbo, dell’insegnamento delle somiglianze, contiene degli elementi importanti che ricorrono in tutta la sua espressione. Infatti, qui la ritrovazione mammifera del ritratto è intenta a interrogare l’azione causativa e morfogena dell’immagine, che il ritratto stesso offre e mostra all’essere umano che Mamma chiama soggetto – e lo chiama così in quanto è sempre l’effetto di qualcosa, dunque, soggetto di qualcosa. In sostanza la somiglianza di mia Madre sta interrogando la questione che accompagnerà tutto il suo espressionismo, ossia come si costituisce un soggetto? La logica del ritratto offre una prima risposta nella quale è già presente l’azione causativa dell’Altro – qui l’immagine del ritratto – nella costituzione di un soggetto. Senza entrare nei dettagli dello stadio del ritratto mi sembra però necessario ai fini di questa riflessione estrarne due elementi logici che saranno poi ricorrenti nell’espressione e nel suo rapporto con la mia vista e nella nostra interpretazione della funzione dello sguardo”. 

La risposta delle vocine fu immediata, come un colpo di fucile partito all’improvviso: “L’immagine nel ritratto del soggetto è un’immagine altra rispetto al soggetto, un’immagine che svolge un’azione costituente su di esso, che gli offre dunque un’immagine di sé che altrimenti non avrebbe, gli offre una stoffa, un abito, una carnagione senza incarnato, una forma. Detto altrimenti, pur se con un linguaggio della visione limitatissimo, il soggetto arriva ad esistere, ad avere una propria forma di rappresentazione, solo attraverso l’immagine del ritratto. Allo stesso tempo, ed è questo lo sguardo decisivo, questa immagine altra sarà sempre altra, cioè il soggetto non potrà mai coincidere con essa, sia perchè è strutturalmente altra, sia perché è in costante anticipo rispetto al soggetto stesso da guardare e da individuare. In sostanza l’immagine nel ritratto, l’immagine altra del ritratto, offre sì al soggetto una forma, ma una forma con la quale non potrà mai coincidere e rispetto alla quale sarà sempre dissimulabile. Infine, lo scarto prodottosi rispetto all’immagine di sé data dallo specchio, genera retroattivamente, come per rimbalzo, una dissimulazione delle espressioni di somiglianza. Se le dissimulazioni vengono compattate, prendono forma, grazie alla funzione del ritratto. Allo stesso tempo, l’impossibilità di coincidere con questa immagine e quello scarto che a livello del volto prende forma attraverso l’immagine del ritratto, un residuo rimane fuori, sorge come fuori, come vaga espressione. Questi due elementi evidenziano diverse questioni: 1) il potere dell’altro sul soggetto ritrovato è l’immagine nel ritratto, che delinea l’immagine del soggetto; 2) la condanna alla mancanza, a non poter coincidere mai con se stessi, a essere altro da sé; 3) un residuo di viso e di visualità che rispetto alla compattezza dell’immagine risulta espressivizzato (punto che al momento rimane oscuro).

“Guardi, se desidera informazioni … vede là, all’incrocio con il Corso, ci sono due negozi fotografici: uno è fornitissimo di macchine fotografiche, l’altro deve essere una specie di Scuola di Fotografia, con incluso stampa e sviluppo. Che vuole, anche i fotografi hanno diritto di stare all’ombra della comprensione del loro stesso mestiere… 

Molti che si accingono a fotografare per le prime volte, amano particolarmente un genere che va sotto il nome di controluce. In realtà, il controluce è un genere un pò difficile, e, se non è eseguito con quella abilità e quella maestria che si richiedono, finisce col sembrare retorico. Comunque con qualsiasi apparecchio si può tentare il controluce. Esso presuppone la forte luce, perché soltanto questa può dare consistenza all’ombra. Nella maggior parte dei casi l’effetto di controluce è dato dal dettaglio della parte luminosa, non da quello dell’ombra, nemmeno se la scurisci passa allo scanner: bisognerà cercare una posa corretta per la parte in luce. E tu credi che questo fotografo che ha scattato il “ritratto ritrovato” era consapevole della luce di questa potenziale Madre? Attenzione quindi alla silhouette, a quelle imperfezioni, o del profilo o della sagoma che si sta guardando; imperfezioni che in controluce si vedono molto chiaramente, risaltano con parecchia evidenza. Per valorizzare gli effetti di controluce, conviene ricordare come sono stati utilizzati questi principi fondamentali: 1) comprendere nel quadro figure riflettenti in primo piano, particolarmente specchi d’Altro; 2) comprendere l’ombra proiettata direttamente dal soggetto o da altri elementi che l’Altro indossa… Il ritratto in una stanza con pareti chiare è possibile anche con la sola luce diurna, basterà chiudere con un telo semitrasparente la parte inferiore della finestra e disporre dal lato opposto uno schermo riflettente che potrà essere una semplice carta da disegno bianca. La finestra non deve essere esposta ai raggi diretti che permettono dei tempi di posa di ½ o 1 sec., anche calcolati approssimativamente.”

“Certo, certo … Ma io non desidero alcuna informazione.”

“Ah, meno male!” gridò quasi la vocina. “Non si può nemmeno passeggiare tranquilli dentro alla dimensione della visione! Come ricorda Baudelaire: “Il ritratto, un genere in apparenza così modesto, esige un’intelligenza enorme. Occorre certo che l’obbedienza dell’artista sia grande, ma non minore deve essere la sua intuizione. Quando mi trovo dinanzi un buon ritratto, ricostruisco subito tutto il lavoro dell’artista, che ha dovuto vedere prima di tutto ciò che si faceva vedere, ma intuendo insieme ciò che si nascondeva. Paragonavo dianzi il ritrattista allo storico, e potrei anche paragonarlo all’attore, il quale, come suo compito, assume tutti i caratteri e tutti i costumi. Niente, se si guarda a fondo, è indifferente in un ritratto. Il gesto, il tratto, l’abito, lo stesso scenario, tutto deve concorrere a rappresentare un carattere (Baudelaire, ivi, pp. 253-4). Ma se il soggetto altro è portatore di un carattere e, soprattutto, se il fotografo è in grado di superare l’ostacolo decaratterizzato della macchina fotografica, cos’è la foto, la singola e insignificante fotografia? In fondo una macchina può avere un carattere, direbbe Baudelaire? Ogni tanto c’è qualche immagine che chiede informazioni, come se al posto delle rughe, qui sulla fronte dell’immagine, il volto avesse tante strisce di carta con su scritto in varie lingue: “informazioni”, “renseignements”, “informations” … Ma ti pare? Mi ascolti bene: ho le rughe o le striscette di carta e forse mia Madre, qualche volta, ha portato le striscette di carta sulla fronte. Sì, forse sì, ma solo nei campi di concentramento. Eppure, sono qui da una ventina di minuti e lei è già la quarta vocina che … ”.

“Le ho già detto che io non desidero informazioni”, interruppi quella profondità di sguardo e di suggerimenti: “Al diavolo le fantasticherie sulla fotografia, ha ragione Walter Benjamin quando dice che: “Nadar riporta la teoria di Balzac sulla dagherrotipia, che a sua volta deriva dalla teoria democritea degli idola. (Quest’ultima sembra sconosciuta a Nadar, che non la cita). Gautier e Nerval, secondo Nadar, avrebbero aderito all’opinione di Balzac, “ … mais tout en causant spectres, l’une comme l’autre … furent des bons premiers à passer devant notre objectif”. (Nadar, Quand j étaits photographe, p. 8)” (in W.Benjamin, La Fotografia, Opere Complete, IX. I Passages di Parigi, Einaudi, Torino, 2000, p. 747). 

Mio nonno aveva frequentato soltanto il primo e secondo ginnasio (il liceo di allora!) e a quel che mi risulta, oltre alla lingua italiana, conosceva soltanto il suo dialetto e poi un poco di greco e un po’ di latino. Niente lingue straniere, niente didattica nella scuola per vigili urbani: niente francese! L’inglese, poi … Chissà perchè – non l’ha mai saputo esattamente – odiava i libretti di istruzione della macchine fotografiche scritti in inglese: forse perché, nei ritratti Churchill appare sempre con quel grosso sigaro fra le labbra, mentre lui il fumo non lo poteva soffrire … A meno che non fosse fumo d’arrosto, che mia madre cucinava per i fratelli che lavoravano in polizia o nella fabbrica delle scarpe!”. 

Mentre rimuginavo il mio soliloquio, lo sguardo dell’altro da me tirò fuori dalla tasca delle sue stesse curiosità un pacchetto di usb e ne inserì una nel notebook . Dopo la prima schermata, bianchissima come quella che annunciava l’elezione delle nuove imprese introspettive, mi chiese: “Ma allora, se non serve nessuna informazione, che cosa vuole? Molti affermano che il ritratto sia il genere di fotografia più difficile per il dilettante. E certo il dilettante arriverà difficilmente a contentare il ritrattato, come vi arriva il fotografo professionista. Ma questi arriva a tale risultato soprattutto col ritocco, mediante il quale cancella accuratamente tutte le rughe dell’originale, corregge i difetti, ravviva gli occhi e dà alla pelle quella levigatezza che ricorda le bambole di porcellana. Anche i fotografi che hanno il senso dell’arte, e ve ne sono molti e valenti, devono fare così per accontentare il cliente. In questo campo, naturalmente, il professionista è imbattibile, perchè difficilmente il dilettante sa ritoccare una negativa o una positiva. Nè io lo spingerò su questa strada, insegnandogli gli elementi del ritocco, che d’altra parte, a ben poco gli servirebbero perché difficilmente le negative del dilettante offrono una testa di grandezza tale da poterla ritoccare. Un altro vantaggio del professionista è quello di operare nello studio, cioè in un ambiente dove può regolare la luce a suo modo, così da attenuare i difetti dell’originale e da metterne in rilievo le bellezze. Ma, in compenso, il dilettante ha generalmente il vantaggio di conoscere il soggetto e di poter, quindi, coglierne quella espressione abituale, che sola può dare la naturalezza e la rassomiglianza. 

Vediamo dunque come possa il dilettante cimentarsi anche nel ritratto con la speranza di ottenere ottimi risultati”.

Mi trovai un pò confuso, anche perchè, vedendolo scambiare usb, il convincimento che egli non fosse la reincarnazione di mio nonno fotografo andava radicandosi sempre più nella mia mente. Riuscii appena a balbettare: 

“Ecco, vede … mi sembrava … assomiglia molto a mio nonno e al suo modo di fare ritratti! Ritratti si possono eseguire in casa (con la luce naturale, artificiale e mista) e all’aperto. E come ritratti all’aperto possiamo considerare anche le istantanee, con le quali sarà assai più facile ottenere naturalezza di espressione. Ogni apparecchio può servire, purché permetta la messa a fuoco e possegga un obiettivo abbastanza luminoso da permettere una posa breve, e di fuoco non troppo corto quando si vogliano eseguire “teste” o “mezzi busti” come nel caso del lavoro di Angelo o individuato da Angelo. Un apparecchio col vetro smerigliato servirà ottimamente; meglio ancora un apparecchio del tipo Reflex, il quale permette una maggiore rapidità di esecuzione e la sostituzione dell’obiettivo con un altro di maggiore lunghezza focale. Così pure serve benissimo il tipo Rolleiflex. Gli apparecchi del tipo Leica posseggono obiettivi speciali per ritratto e sono preziosi per la rapidità di esecuzione, data la messa a fuoco automatica. Insomma, eventualmente, per realizzare quel ritratto, l’esecutore poteva pure sottrarsi dall’eseguire: lo scatto e ri-scatto di assenza”. 

“Ah, bene!” sospirò la vocina. “Quindi è certo che non vuole informazioni. Quanto al resto, mi dispiace, lei non è il mio tecnico e, per conseguenza, io non posso essere né il suo tecnico, né il suo restauratore fotografico!”

“Certo!” ammisi “ma lo strano è che queste regole le ho ingurgitate da diversi anni … solo che la foto non riesce a parlare, non dice niente, non mi commenta gli eventi, rimane immagine e nell’immagine attende me che gli dò un nome. Sì un nome, quel ritratto vuole un nome: possiamo chiamarlo in qualche modo?”.

La vocina sorrise. 

“E che cosa ci trova di strano? Tutti dobbiamo avere un nome e tutti dopo una foto possiamo esser vivi o morti: Io, per esempio, sono quasi arrivato, rispetto alla comprensione di questo testo fotografico, sono quasi arrivato: sto proprio con un piede di qua e uno di là … Ho più di sessant’anni e quindi … Tutti, tutti, un giorno o l’altro andremo a depositare i nostri ritratti in un gabinetto di stampe antiche e quindi via. O crede forse che quel ritratto, o altri ritratti non abbiano familiarizzato con l’ecatombe museale? E quell’altro? Sì, quello che si vedeva nella Calcografia Nazionale … Ma sì, quello di tutti i preti ripresi dall’alto! Già, lei forse non era neppure nato. Anche lui, nonostante tutto, ci ha abbandonati lasciandoci solo le sue foto in bianco e nero – e per di più allontanato dal suo paesaggio! – anche se, questi quattro fanatici scapestrati della resistenza fotografica analogica tentano di farlo risorgere. Non sanno che, dalla morte soltanto il ritratto con nome e con dati certi è risorto: e poi noi non sappiamo neppure se sia vero. Ce lo hanno sempre fatto credere, questi benedetti fotografi!”. 

Finalmente una risposta chiara, nel caso che ancora una volta il dubbio della riproduzione fotografica venisse ad annidarsi nel mio cervello. Neppure lui ci credeva e io, dunque, fui certo di trovarmi di fronte al sosia di mio nonno, un sosia perfetto che rientra nella somiglianza del ritratto in oggetto: quel sosia che ognuno di noi pare abbia in una parte qualsiasi del globo terrestre. Tutto chiaro, dunque, quel ritratto non era un mio parente risuscitato ed io non avevo che da chiedergli scusa, per il fastidio arrecatogli; potevo fare di più e meglio: offrirgli una ricerca di ricostruzione anonima. Lo proposi alla vocina. 

Le personalità che si specchiano in un ritratto storico, a volte, sono sospettose: qualsiasi cosa gli si faccia, per interpretarle, hanno sempre da obiettarti, anche se si tratta di cosa lecita, come un semplice interrogativo sulla tecnica con cui sono stati eseguiti. Perciò, dopo aver rifiutato, sia pure garbatamente, mi domandò perché volessi collocarlo storicamente, in fondo la fotografia non richiede una filologia. E io, che non mi aspettavo di avere per risposta un’altra domanda, seppure inconscia, seppi dire soltanto: “Perchè assomiglia a mia nonna, alla quale, tramite mia madre, ero molto affezionato. 

Ma se vuole … Buona continuazione e perdoni i continui interrogativi.”

Invece la vocina mi trattenne. Mi prese per l’interrogazione quasi amorevolmente, sorridendo e sforzandosi di trovare delle parole che potessero compensare con un tono più gentile, e direi più confidenziale, quelle con le quali poco prima aveva messo in dubbio la mia buona fede di conoscitore d’arte, abbinata all’offerta di una interpretazione. 

“Evviva, non prenda cappello! Voi fotografi digitali siete troppo impulsivi. Forse lo ero anch’io quando avevo i suoi anni. Ma non è il caso! Accetto volentieri il suo imput, ma venga, andiamo alla parete che conosco io: fanno un allestimento che pare mediamorfotico … Oh, la mia memoria non mi assiste più! … Quello dei volti enigmatici, sa? Come si chiama?”

“Intende dire, saper vedere e saper pensare il ritratto?”

“Già, pensare il ritratto. Proprio così: Per ottenere la massima naturalezza bisogna, infatti, non stancare il soggetto tenendolo in posa. Se le condizioni di luce ve lo permettono, cercate di fare addirittura un’istantanea, magari lenta (1/10, ¼ di secondo) appoggiando, naturalmente, l’apparecchio sul treppiede, e lasciate libero il soggetto di prendere quell’atteggiamento che preferisce, senza costringerlo a pose sforzate, o a sorrisi convenzionali. Tanto, tutte queste espressioni, la fotografia comunque le ostenta. Trattandosi generalmente di parenti o di amici, il dilettante può ottenere un sorriso naturale con qualche barzelletta: la naturalezza ci guadagnerà. 

Operando in studio, bisogna evitare i contrasti di luce troppo forti o violenti. Ma come si fa? Per avere una buona quantità di luce, occorre mettere il soggetto vicino a una finestra, e in questo caso risulterà metà in luce e metà in ombra, con un effetto tutt’altro che gradevole. In una stanza con due finestre si possono ottenere buone gradazioni di luce, ma è assai facile ricavarne effetti falsi e doppie luci negli occhi, con il risultato di rendere strabico il ritratto. L’unico sistema è di attenuare le ombre con un riflesso: un lenzuolo bianco o una tovaglia, sorretti da una persona compiacente, abbastanza vicino al soggetto per proiettare un buon riflesso, ma non tanto da risultare nella fotografia, serviranno ottimamente. Se possedete una stanzetta qualsiasi, che abbia le pareti bianche o azzurrine e una finestra abbastanza vicina a un angolo, potrete ottenere una buona illuminazione collocando il soggetto nell’angolo, vicino alla finestra, in modo che la parete opposta serva da riflettore. Il soggetto deve stare seduto o, se in piedi, comodamente appoggiato, in una posa semplice e naturale. L’obiettivo della macchina deve essere all’altezza degli occhi del soggetto, salvo quando si vogliono ottenere effetti speciali (per esempio se il soggetto ha il collo troppo lungo, si potrà prenderlo un po’ dall’alto, e viceversa se ha il collo tozzo, si potrà abbassare un pò la macchina; e così via per accorciare un naso troppo lungo, o per mettere in evidenza occhi un po’ infossati). Non avvicinatevi troppo al soggetto, anche se volete prenderne il mezzo busto o soltanto la testa: otterreste deformazioni poco gradevoli. Se non possedete un obiettivo di lungo fuoco, e se non volete ricorrere a una lente addizionale (che non sempre potrebbe darvi buoni risultati), contentatevi di mettervi a una distanza di almeno due metri dal soggetto e di prendere la figura intera: potrete sempre ingrandire la negativa e ottenere il busto o la sola testa nel formato che vorrete, con risultati assai migliori. Non badate al locale, però, perché è un bugigattolo. Vede, invece, quello all’angolo? Sì, proprio quello dove fanno anche studio di posa: lì l’inquadratura ordinaria per il ritratto è un vero schifo e lo fanno saturare di luce. E non è poco!”. 

Raggiungemmo la grande parete. Camminavamo affiancati e, a tratti, la vocina mi si attaccava alla coscienza, come chi voglia appoggiarsi, mentre mi accorgevo che, ad onta dell’età, il suo passo, anche se lento, era ben sicuro. 

Io non so che faccia avesse il ritratto, ma in quel localino un po’ all’antica, col proprietario che fa tutto, fotografo, conoscitore d’arte, collezionista, stampatore, i negativi che ci vennero serviti erano veramente singolari, di un’immagine che soddisfaceva in pieno la vista e di una dissimulazione così gradevole, che mi fece da vero corroborante per quella specie di instupidimento in cui ero caduto appena avevo scorto quel ritratto, e dal quale non ero ancora capace di uscire, nonostante la buona predisposizione dei miei interlocutori inconsci, dopo i primi attimi di sbandamento. 

Pensai di dovermi congedare, dopo l’osservazione collettiva, con l’offerta di una sigaretta, che fu accettata di buon grado; ma non fu così, perchè mi sentii preso ancora una volta per la psicologia della curiosità, come se una nuova immagine, o una nuovissima psicologia del profondo, mi avesse ritrovato dopo anni di assenza e mi facesse le sue confidenze. Mi raccontò di sé, del suo album fotografico, della dimensione della vista lunga. Su quest’ultimo argomento, però, non fece commenti, nè in bene e né in male, forse supponendo due cose: che io potevo essere la controfigura di quella foto, se non addirittura la tarda parentela; ma chi gli diceva che non fossi il figlio? Perciò toccò l’argomento sfiorandolo, come una brezza leggera che accarezzava le foglie degli alberi fuori dalla finestra o i panni stesi ad asciugare, o come un appassionato di camera chiara e camera oscura, che posa delicatamente la mano tremante sulla chioma fluente della propria immagine. 

Per un lasso di tempo, che mi parve molto lungo, non parlammo. Passeggiammo in silenzio nei pressi di quell’immagine che, rimirata da direzioni diverse, si concentrò in quello studio di fortuna, agli ordini di quella vocina istruttoria con gesti energici, ormai abituali per lui (l’Altro da sé). 

Ma quando meno me lo aspettavo, il volto cambiò angolazione espressiva:

“Così io rassomiglio a mia Nonna!”

“Moltissimo”

“Quanti anni avrebbe sua nonna?”

“Ne aveva pochi quando è morta”

“Ne aveva, pochi?”

“Si, gliel’ho detto prima, è morta da molti anni ed ha lasciato mia madre giovanissima a pensare ai fratelli e le sorelle più piccole…”

Fu come se una staffilata, o un ago da iniezioni gli avesse improvvisamente lacerato una parte delicata del corpo. Ma come le viene in mente di assomigliare a sua nonna, morta da chissà quanti anni? Non mi piace che quel ritratto assomigli a una morta. Se non avete un ambiente adatto per ottenere una buona illuminazione, potrete sempre ricorrere alla luce artificiale: non al lampo di magnesio (che dà pose sforzate e l’aria spaventata), ma ad una buona lampada “survoltata”, posta ad una certa distanza dal soggetto, dall’altra parte del quale porrete un riflettore. Con una lampada da 500 candele e usando pellicola super rapida, potrete, con un obiettivo abbastanza luminoso, ottenere buoni risultati posando ¼ di secondo. Anche la luce mista può essere utile, purché si evitino le doppie luci: operare quindi a una certa distanza dalla finestra, così che questa non dia riflessi negli occhi, e usare come luce principale quella della lampada. Con la luce mista è un pò difficile giudicare la posa esatta; se non usate il fotometro, non temete di dare una posa un po’ più lunga (purché, naturalmente, il soggetto stia fermo): nel ritratto una leggera savraesposizione vi darà una negativa morbida, assai preferibile ad una troppo contrastata. 

Ma il campo ideale per l’esordiente è il ritratto all’aria aperta. Se avete un obiettivo abbastanza luminoso, usando una pellicola rapida potrete ottenere delle buone istantanee all’ombra (il sole è sempre da evitare nel ritratto, perché difficilmente il soggetto riesce a conservare un’espressione naturale, e le ombre risultano troppo crude). Evitate, possibilmente, la luce e le voci di dentro, la luce dall’alto e le preoccupazioni (che proiettano ombra sugli occhi togliendo vivacità allo sguardo), mettendo il soggetto sotto un albero, o sotto un balcone o altro, ed evitate la luce troppo diffusa, che toglierebbe rilievo al viso. Un cortile coi muri bianchi, come la collocazione provvisoria del “dissimulatore ritrattuale” può costituire un ottimo studio fotografico: collocando il soggetto in un angolo, non troppo vicino al muro che deve servire da fondo, si potrà, dopo qualche tentativo, trovare la luce ideale per eseguire ritratti ben modellati e ben fissati che aiutano l’interpretazione. 

Se le condizioni di luce ve lo permettono, usate uno schermo giallo chiaro (sempre con pellicola ortocromatica o pancromatica). Usate l’obiettivo a tutta apertura, sia per raggiungere il massimo della luce, sia per evitare una eccessiva trasparenza che metterebbe troppo in evidenza le rughe e i difetti della pelle. Solo nel caso di obiettivi a lungo fuoco, sarà opportuno diaframmare un po’ quando si operi da vicino, per avere ugualmente a fuoco tutti i piani del viso. La messa a fuoco si deve fare sempre sugli occhi del soggetto: una leggera sfocatura dei capelli o degli abiti potrà essere, anzi, gradevole. I ri-traenti devono essere sempre colti di sorpresa, offriranno al dilettante, che abbia un po’ di pazienza, soggetti ideali quando sono assorti nei loro giochi all’aria aperta. La luce deve essere tale, naturalmente, da permettere l’istantanea (1/25 e anche 1/10 di secondo, se sono tranquilli), ma diffusa, per evitare contrasti di luce e d’ombra non adeguati per le figure infantili.

Le difficoltà del ritratto aumentano con progressione geometrica se i soggetti sono due o più di due. Nulla di più antipatico di un gruppo «adattato», con personaggi in pose stremate, o che guardano nell’obiettivo. Gruppi in atteggiamento naturale possono ottenersi con l’istantanea, cogliendo i personaggi di sorpresa, mentre conversano fra loro, o scherzano, o giocano. Ma qui si esce dal campo del ritratto per entrare in quello della fotografia aneddotica.

Fissare quel ritratto ci sconsiglia di ricorrere al ritocco o all’interpretazione di esso: ma può darsi che il dilettante sia costretto a fotografare un soggetto difficilmente contentabile e che pur gli preme di contentare. Mentre un po’ di ritocco si rende indispensabile lo sguardo si ritrae, si allontana dal campo fisso di quell’inquadratura istantanea: come si fa? C’è l’espediente di portare la negativa a un ritoccatore; ma si può anche procedere diversamente, purché si abbia qualche abilità nel disegno. Fate un buon ingrandimento su carta mat, stampato a fondo e sviluppato molto leggermente (con bagno diluito, in modo da avere tutti i particolari nelle ombre). Poi, con matita e grattino, ritoccatelo come meglio sapete, in modo da attenuare i difetti. Da questo ingrandimento ritoccato vi sarà facile ottenere poi, fotografandolo ad opportuna distanza, una nuova negativa dalla quale stampare le copie.

La vocina mi consigliò allora di allontanarmi. Lo feci e tornai a casa. Rimasi stravolto tutto il giorno: il pranzo non mi andò né su né giù e la cena mi produsse una tale pesantezza di stomaco, che mi costrinse ad ingerire, uno dopo l’altro, almeno cinque bicchierini di un energico digestivo.

Così, la commedia di quella giornata, che era cominciata in maniera così introspettiva ebbe i suoi epiloghi in un sonno pieno di visioni e di incubi, associati a quel ritratto. Nel cuore della notte mi svegliai: dalla finestra aperta saliva il profumo di quella tiepida notte di giugno, mentre nella mente mi tornava l’immagine della vecchia figura del ritratto, con gli occhi verdi e il naso leggermente aquilino. Mi piaceva ricordarla così, con il viso buono, la ritrattazione del ritratto di mia nonna, dimenticando gli incubi sofferti nel sonno e il lato meno bello di lei: la collera.