La redazione di segnonline intervista Alice Padovani, artista modenese in residenza, vincitrice del Premio Dino Zoli Textile, in occasione dell’edizione 2023 di Arteam Cup, il concorso artistico nazionale promosso dall’Associazione Culturale Arteam, con consolidato supporto di Dino Zoli Group.



Foto: @ Luca Bacciocchi
Raccontaci qualcosa del tuo percorso artistico e come nasce la predilezione per la catalogazione e la classificazione seriale.
Alice Padovani: Il mio percorso artistico nasce da una convergenza di pratiche e sguardi che vanno dal performativo al visivo, dallo scientifico al filosofico. Sin dall’inizio della mia ricerca ho sentito il bisogno di raccogliere, ordinare, osservare e, allo stesso tempo, di lasciare spazio all’intuizione e alla fragilità delle cose. La catalogazione, nella mia pratica, non è un’operazione scientifica in senso stretto, ma una forma poetica di contenimento e relazione. L’archivio diventa una struttura emotiva, una spina dorsale dell’immaginario. Ciò che viene serializzato o messo in ordine – ali di farfalla, coleotteri, frammenti vegetali, oggetti, tessuti – viene in realtà restituito a una dimensione affettiva, simbolica, rituale.



Foto: @ Luca Bacciocchi
Nelle tue opere gli insetti sono inseriti sempre in una posizione preferenziale ma sono comunque esseri non più in vita. Quale è la relazione morte-vita all’interno del tuo processo artistico e che possiamo riconoscere all’interno della tua ultima mostra alla Fondazione Dino Zoli?
A.P.: Nel mio lavoro, la morte non è mai separata dalla vita. Gli insetti che utilizzo – o meglio, le tracce che restano di essi – sono elementi di soglia, segni di un passaggio. Nella mostra alla Fondazione Dino Zoli questa logica liminale si estende al tessuto, alla fibra, al filo. Ogni materiale, ogni frammento raccolto nella fabbrica è stato trattato come un reperto, un organismo fossile che porta con sé una memoria. Le installazioni mettono in scena un equilibrio instabile tra ciò che resta e ciò che è già altrove, tra il gesto del raccogliere e quello del lasciar andare.



Foto: @ Luca Bacciocchi
Il progetto alla Fondazione Zoli è il frutto di una residenza presso l’azienda Dino Zoli Textile. Ci racconti quale è stato il processo all’interno della fabbrica e le scelte che si sono poi riversate nelle tue installazioni?
A.P.: Il tempo trascorso all’interno dell’azienda Dino Zoli Textile è stato un’immersione in un paesaggio di fibre, trame e possibilità. Ho scelto di lavorare con campioni di tessuto: piccole porzioni di materiale che possiedono una propria autonomia poetica. Questi frammenti, raccolti e selezionati con cura, sono diventati i protagonisti di un processo di trasformazione nel quale ogni elemento è stato riattivato come forma di memoria. Da questa esperienza sono nate quattro opere, ognuna delle quali interpreta il linguaggio tessile secondo una diversa direzione.
La prima, Atlas | Hanging specimens, è un corpo unico costituito da una molteplicità di gabbie in ferro al cui interno centinaia di frammenti tessili fluttuano come reliquie leggere. È un archivio emotivo, un organismo catalogato secondo un ordine che non è scientifico, ma affettivo, simbolico, instabile. Un atlante fragile, in cui il gesto della raccolta si fonde con quello della sospensione. Seguono poi due arazzi destrutturati, esiti diversi della stessa tensione tra trama e dissoluzione: Ordine laterale è un arazzo in cui l’assetto geometrico della tessitura viene disarticolato. I frammenti di tessuto fuoriescono dai margini, le composizioni si le strutture collassano in un ordine precario e periferico ma mai gerarchico. Linea di marea, invece, evoca un paesaggio in transizione: tessuti sovrapposti generano l’immagine di una linea di confine tra acqua e sabbia, un orizzonte che si muove e stratifica. In entrambi i lavori il tessuto non è solo materia, ma geografia emotiva, soglia, confine.
Infine, Vials è un’installazione composta da ampolle in vetro contenenti piccoli elementi tessili. Ogni ampolla custodisce una presenza minima, come un reperto, un ricordo, una cellula isolata. È un gesto di cura e isolamento, di conservazione e messa in attesa. Come in una collezione di campioni biologici, il tessuto viene elevato a indizio silenzioso della materia.
A completare il progetto, una parte sonora: un registratore con audiocassetta riproduce una voce che, in modo cadenzato e quasi rituale, elenca tutte le referenze dei tessuti della Dino Zoli Textile. Questo gesto di inventario sonoro trasforma il dato tecnico in liturgia, rendendo la nomenclatura industriale una sequenza ipnotica e memoriale.
Queste opere, pur nella loro autonomia formale, condividono un intento comune: trasformare il tessuto in organismo, in reliquia, in archivio di ciò che resta. Un gesto poetico che cerca, nel frammento, la possibilità di una narrazione più ampia e viscerale.

Foto: @ Luca Bacciocchi