Addio Ulay – Mito di tante generazioni. Il pensiero del performer Giovanni Gaggia

Muore all’età di 76 anni l’artista e performer Ulay.

Iconica figura della performing art, storico compagno di Marina Abramovic, fra le più discusse artiste del mondo, la loro storia d’amore aveva fatto battere i cuori di tutti, dalla loro plateale separazione sulla Muraglia Cinese al commovente rincontrarsi durante The artist is present, la performance realizzata nel 2010 da Marina al MoMa di New York. Da lì una nuova storia d’amore e di arte stroncata dalla notizia della morte a 76 anni di Ulay (Frank Uwe Laysiepen) nato a Solingen, in Germania, il 30 novembre 1943, deceduto a seguito di un cancro diagnosticatogli nel 2011 e diventato il documentario Project Cancer realizzato con l’amico  Damjan Kozole. Per la sua biografia e carriera artistica basta aprire un qualsiasi manuale di storia dell’arte. Scorrendo invece le pagine dei primi numeri di Segno, si rintraccia la memorabile fotografia della performance Imponedabilia che ha fatto la storia di questo linguaggio e svoltasi oltre che alla GAM alla Galleria G7 Studio di Bologna nel giugno del 1977.

Rivista Segno, n.5 1977

Mito di tante generazioni, Ulay ha rappresentato un caposaldo anche per l’attuale panorama performativo. A ricordarlo è l’artista Giovanni Gaggia che lo incontrò alla Biennale di Venezia del 2017. 

02 – 03 –  2020
2 + 3 +2 + 2 = 9

Come tentare di raccontare un incontro di un attimo ed un cammino nella memoria di una vita di performer? Tentando di mantenetre saldo il suo comandamento “l’estetica senza etica è cosmetica”, scelgo di ricorrere ai numeri e sommo quelli presenti nella data di oggi, il risultato è di nove. Tutto ciò che di importante accade nel mio cammino di uomo ruota attorno a questo numero. Googolo ancora una volta il suo significato sempre lo stesso risultato, lo faccio come se mi mancasse qualcosa di tangibile è il numero sacro per eccellenza il risutlato è dato dalla moltiplicazione del tre per se stesso – da visonealhemica.com – 3 X 3 completa l’ eternità. Rappresenta la triplice Triade, la soddisfazione spirituale, il conseguimento dell’obbiettivo, principio e fine, il Tutto, numero celestiale e angelico, il Paradiso terrestre. Nella Religione ebraica il 9 rappresenta l’intelletto puro. Il suo riprodursi per se stesso, attraverso la moltiplicazione è il simbolo della verità. Numero dell’iniziazione, dei riflessi divini, esprime l’idea divina in tutta la sua potenza astratta. Il suo riprodursi per se stesso, attraverso la moltiplicazione è il simbolo della verità. Mi appare come se disegnasse il cammino di questo straordianrio autore, traccia indelebile della storia della performance mondiale, da quelle più blasonate con Marina Abramovich memorabile è “imponderabilia” realizzata nel 1977 a Bologna presso la Galleria Comunale d’Arte Moderna al suo cammino individuale. Ricordo con grande ammirazione gli scatti sul  gender dove ci mostra senza mediazione alcuna il suo doppio, la sua parte femminile, metà uomo e metà donna. Il corpo e la relazione con il pubblico sono il suo campo d’azione. 

Ulay è per me una anima che ho sentito e sento affine, quasi vicino. Non avrei potuto compiere il mio percorso di performer senza la conoscenza della sua ricerca. Rappresenta la mia base di artista reso più solide le mie scelte compresa quella di aprire Casa Sponge. Ulay ha deciso di rimanere ai margini del sistema, di occuparsi di ambiente, lontano dallo star sistem. Ho riconosciuto in lui  una necessità di verità, senza compromessi qui i confini tra arte e vita sono sono decisamente sfilaccitai se non insesistenti.

Chiamo Elisa Grando, una cara amica, giornalista de Il Piccolo. Ricordo di un loro incontro a Trieste al Caffè degli Specchi, in occasione del Trieste film festival nel 2014. Ulay le raccontò a cuore aperto della malattia scoperta nel 2011 e di come la scelta di raccontare la sua vita in un film e la meditazione l’abbbiano aiutato a sopravvivere. Mi rivela di non aver mia più realizzato una intervista così intensa, sviluppatasi come un dialogo e che al di là della malattia la colpì molto il suo studio sull’acqua: “Oggi ho molti progetti che riguardano l’acqua in Israele, Patagonia, Palestina. Il nostro corpo è costituito per il 72% di liquidi, il nostro cervello per il 90%. Produciamo liquidi salati, come le lacrime o il sangue, ma non possiamo vivere di acqua salata. È un paradosso interessante. Insomma, ho sostituito il corpo con l’acqua: mi sembra una soluzione molto elegante”.  

Ulay l’ho incontrato a maggio del 2017 a Venezia in occasione della personale di Marina Abramovich da Zuecca ArtProject. Il ricordo è oggi più che mai vivo da Lontano guardava: Marina Abramovich. 

Giovanni Gaggia

Ulay e Giovanni Gaggia, Biennale di Venezia 2017
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