Francesco Di Loreto - 8 Stories about Milan

8 racconti per una nuova Milano?

L’uso del modello della comunicazione urbana nella comprensione dei fototesti permette di cogliere la complessità degli elementi che intervengono nell’atto comunicativo. Il camminare, in una città come Milano, non è mai un semplice atto passivo, estetico-contemplativo, ma è una operazione attiva che richiede alla cittadinanza una serie di capacità come il saper individuare qual è il saluto, l’attrazione, le regole e il significato del tragitto, in relazione al contesto politico, e le diverse funzioni mediali. Ricordava Walter Benjamin, nel 1912, a proposito di un viaggio nel capoluogo lombardo: “Milano non saluta il forestiero in italiano, ma piuttosto in una lingua ultraeuropea”.

I libri di architettura e di urbanistica non sono soltanto un importante patrimonio archivistico, per ricostruire l’iter progettuale di una località, ma costituiscono un materiale prezioso per individuare nella raffigurazione delle opere architettoniche diverse forme di ‘narrazione’. Considerando il materiale progettuale da quest’ottica, l’attenzione si sposta alle dissomiglianti iconologie del disegno metropolitano, ai metodi e alle tecniche di rappresentazione. 8 racconti di Milano, parte da questo tipo di visione per proporre uno sguardo sullo stato dell’arte del capoluogo lombardo.

L’ordine del discorso, parlando di architettura milanese, è una forma di narratività e di documento urbano. Il paesaggio è uno spazio prodotto tanto dall’esperienza, quanto dalla capacità di leggere il luogo come sistema di segni. È un racconto, una forma di scrittura, un deposito dell’immaginario e delle economie reali e simboliche. E, in questo immaginario, Milano è una complessa costruzione testuale e visiva, ma non solo! È il luogo di una tesa “distopia” europea, un inquieto ambiente paesaggistico, dove le preesistenze architettoniche interagiscono con le arti visive e la cultura letteraria. L’interpretazione lirica del glocale si associa a una rinnovata semantica della tradizione e ad un nuovo impatto di classe, economico e sociale. Un progetto che, per citare gli autori, suggerisca non un nuovo modo di costruire, ma un nuovo modo di vivere Milano e l’economia: «senza archiviare questa lunga parentesi di insicurezza, ansia, solitudine, sacrifici e dolore che sta corrodendo profondamente la psicologia collettiva. Le città non saranno più come prima. La socialità, la fiducia nel futuro, la propensione a investire, nulla sarà più come prima. Il coraggio e la passione, quelli sì che restano immutati». Scorrendo la “proiezione” degli 8 racconti di Milano, l’atto di vedere è un gesto attivo, che implica l’uso della memoria. Ogni visione si inserisce in un quadro performativo; e vedere le forme ‘da architetti’ comporta una lettura, una memoria e una critica. La metafora è il pre-testo di questo catalogo urbano, che presenta 8 racconti di Milano. Verso un nuovo progetto di città, scritto e fotografato da Andrea Lavorato, Paolo Galuzzi, Piergiorgio Vitillo e Francesco Di Loreto, pubblicato dalla casa editrice Assimpredil – Ance (2020). Il libro è il risultato editoriale di un ciclo di otto seminari, che hanno messo a fuoco e confrontato punti di vista, anche molto differenti, su temi significativi per il presente, ma soprattutto per il futuro della città: un insieme di posizioni esperte, considerevoli e singolari, rappresentative del mondo economico, sociale, associazionistico. La finalità di tali riflessioni ha voluto favorire il dialogo attivo fra città e società, aprendo un dibattito sulle trasformazioni di Milano e della sua urbanità: «cercando di individuare alcune sfide future e alcuni nodi critici su cui lavorare in prospettiva». Il volume offre un’introduzione al contempo accessibile e rigorosa ai più recenti sviluppi di una fondamentale branca della filosofia del tempo: la filosofia del futuro.

Un contributo al pensiero dello sconfinamento della città di Milano nel tempo del neoliberismo ci viene nuovamente offerto dalla troupe guidata di questo consistente 8 stories about Milan. Il proposito dichiarato che orienta i costruttori è quello di riuscire a sostenere un pensiero della comunità fotestestuale milanese (che ha coinvolto 30 firme esperte) che, accogliendo l’esposizione all’assenza di significato, propria del tempo del nichilismo, come feconda chiusura ad un senso ancora troppo bloccato, sappia finalmente espellere quella ferita non suturabile che la comunità urbana lombarda mostra. Al centro dell’attenzione sono le domande chiave del dibattito contemporaneo. Il futuro è già scritto, o esistono cammini alternativi che il tempo è in grado di imboccare? Esistere significa semplicemente essere presenti o ci sono veri e propri «oggetti» futuri? Siamo davvero liberi di scegliere quali azioni compiere e di modificare il corso degli eventi? La crisi che attraversiamo è economica, morale e sociale; radicale, multiforme e planetaria. È una crisi di civilizzazione che sottolinea la nostra interdipendenza e la necessità di nuovi modelli. È però al contempo una sfida. E gli architetti, gli urbanisti e i fotografi del paesaggio urbano, come Francesco Di Loreto, hanno un ruolo determinante, perché possono accelerare questa presa di coscienza ed anticipare un futuro basato su partecipazione, ascolto, cura, attenzione alla diversità.

Ne è consapevole questa memoria tecnoscientifica, composta da fotografi e architetti, che da anni promuovono e sostengono iniziative volte a realizzare il potenziale individuale e collettivo e sull’accettazione delle diversità di luogo e di esponibilità? È in questa ottica che gli otto racconti hanno organizzato il volume pubblicato già da prima del Covid-19. Quindi, il «libro o il libro nei libri» è stato uno spazio dove sono confluiti i risultati del progetto iniziato prima del Covid, volto ad attivare un cambiamento per migliorare la qualità della vita della città di Milano e quindi della comunità, in un capoluogo futuro, che ha accolto la sfida di concretizzare l’imago di una metropoli europea, con adeguati presupposti di politiche urbanistiche e ambientali. L’architettura sociale, chiedendo infatti cose diverse alla città,a seconda della fase di vita che conduce, suggerisce modelli di organizzazione differenti e integrativi. La città, prima che dare pari opportunità, deve quindi creare opportunità lavorative per tutti, essere pronta ad incoraggiare lavoro, cultura e divertimento. Tuttavia l’antropologia insegna che il valore delle architetture è proporzionale alla consapevolezza che si ha del loro contributo. È, quindi, necessario educare sin dai primi anni di scuola la futura generazione ad una socialità plurale, perché ciascuno sviluppi un’identità urbanistica aperta. Il dibattito intorno alle risposte di volta in volta offerte dall’architettura e dall’urbanistica esplorano un’intrigante zona d’intersezione tra progettazione, imprenditoria e futurologia, e interessa discipline diverse come la fisica, la psicologia e l’economia. 

Gli autori offrono gli strumenti necessari per inquadrare concettualmente le domande sul futuro di Milano, introducendo tutte le nozioni tecniche in un linguaggio chiaro e intuitivo che è accompagnato dall’occhio fotografico di Francesco Di Loreto. Un’immagine dello vista si caratterizza, perciò, per il fatto stesso che il nostro stesso sguardo diviene un’immagine dello spazio. Dice Di Loreto: «Lo spirito che ha animato le fasi di lavorazione del libro 8TTO Racconti di Milano è stata la chiave che ha permesso di ottenere» un oggetto-registro urbano. «Sarà stato l’isolamento da Covid 19, sarà stato il fatto che non eravamo distratti dalle mille vicissitudini, l’entusiasmo, unito ad una rinnovata modalità di lavorare in gruppo ed alcuni momenti molto importanti di confronto e riflessione, con i tempi necessari, che ha permesso di smussare piccoli errori ed aggiungere miglioramenti al progetto fino agli ultimi giorni prima della stampa. Sia di esempio la foto della Chiesa di San Cristoforo: la foto selezionata alla fine di Novembre 2020, aveva una luce insufficiente, che lambiva solo la parte superiore destra del tetto. A fine gennaio 2021, quando eravamo già in fase di consegna di tutte le immagini, una domenica mattina sono uscito per tornare a fotografare la facciata della Chiesa. Avevo fatto un calcolo approssimativo di come poteva girare il sole in quel periodo e sono arrivato davanti alla facciata che il sole stava scaldando i primi mattoni alla base dell’edificio. Ho atteso pazientemente una mezz’ora e la luce disegnava perfettamente tutta la parte frontale della Chiesa, facendosi largo tra gli edifici circostanti. La sera ho spedito la foto, pulita e sistemata mentre quella vecchia è finita nel cestino del Mac. Solo qualche giorno dopo, quando abbiamo ricevuto un file dell’impaginato per il primo giro di correzione di bozze, gli altri autori hanno scoperto che alcune delle foto scelte qualche mese prima avevano subito una trasformazione in positivo».

L’aspettativa di ritrovare il nostro sguardo in un’immagine è condizionata da presupposti culturali, che hanno determinato nel corso della storia anche il nostro scambio con specchi, templi, squarci e finestre. La finestra, ma anche la porta, la sezione architettonica, è una soglia simbolica che si pone tra il mondo e lo sguardo. Nella ricostruzione sequenziale della foto, gli sguardi hanno giocato un ruolo sia comunicativo che emotivo, facendo sì che lo spettatore partecipasse del significato. Anche nel disegno d’architettura è possibile ravvisare una trama di sguardi: nelle piante urbane l’indicazione delle visuali palesa la funzione mediale. In realtà spazialità e visione sono, almeno in certa misura indipendenti: lo spazio non si costruisce solo ed esclusivamente nella percezione visiva. Dal punto di vista dell’analisi semiotica oltre a ciò, la scelta di stringere insieme spazio e visione ha come risultato marginale quello di racchiudere quasi di necessità la dimensione spaziale al solo livello discorsivo, legando lo spazio all’articolazione dello sguardo e delle sue svariate inclusioni prospettiche. Per quanto riguarda lo spazio e la sua percezione, la vista foto-testuale non è determinata unicamente, né prioritariamente, dalla visualità, ma da quel “sesto senso”, invisibile e diffuso, che va sotto il nome di cinestesia, che è la percezione del nostro essere corporeo, dell’essere e abitare nello spazio. Vera e propria estensione dello spazio corporeo, la modernità milanese è pressoché ovunque investita di un simbolismo molto complesso, in cui si fondono più prototipi e registri. L’architettura si alimenta di racconti per immagini, la sua conoscenza e comprensione sono, infatti, condizionate dalla rappresentazione. Un iconotesto, dunque, in cui la parte visuale è la forma prevalente nella messa in pagina del progetto. Il racconto fotografico di Francesco Di Loreto e quello letterario di Galuzzi, Lavorato e Vitillo è un « prodotto in cui i segni visuali si mescolano per produrre una retorica, che dipende dalla compresenza di parole e immagini. La relazione tra immagine e testo si dimostra, nello studio delle strutture narrative in rapporto alle strutture urbane. Il fototesto gioca un ruolo fondamentale nell’articolazione di memoria e oblio. E l’atto di vedere e di camminare nello spazio urbano è un segno attivo, che implica l’uso della memoria. La dialettica tra fotografie e testo appare tanto più produttiva quanto più chiama in causa l’attività cognitiva e interpretativa dello sguardo dello spettatore. Il testo e le didascalie svolgono un ruolo non sussidiario nel processo creativo, raccontano al lettore aspetti della vita che s’immagina possa svolgersi nelle progettazioni. L’individuazione di una struttura narrativa nel progetto è presente tanto nel processo di ideazione, basato su procedimenti letterari, quanto nell’uso della scrittura in tutte le fasi di sviluppo del progetto, con particolare attenzione al rapporto tra figura e testo scritto.

La sequenza fotografica definisce il percorso suggerito al lettore, stabilendo connessioni e gerarchie tra gli spazi e gli sguardi messi in scena nelle immagini. Il racconto fotografico è strutturato come un percorso, tal quale una sequenza cinematografica. È indubbio che l’esperienza dell’architettura sia legata alla consapevolezza corporea e al nostro muoverci nello spazio, nondimeno nella messa in pagina la sequenza iconico-testuale prospetta al lettore un percorso. Gli spostamenti ‘virtuali’ nell’abitazione dell’urbanità sono strutturati secondo programmi narrativi co-articolati allo spazio.

La convergenza tra la previsualizzazione dell’opera e la sua visualizzazione è il risultato di una stretta collaborazione tra progettista e fotografo. La fotografia è uno strumento in grado di cogliere le caratteristiche del paesaggio, la specificità dei luoghi, e questo lo sostengo indipendentemente dallo sguardo di Gabriele Basilico, che pure fondò un percorso. Per molti degli autori la fotografia costituisce un imprescindibile ‘intervento documentale’ nella redazione del progetto. Uno strumento d’elezione per la lettura critica della città e del suo paesaggio. Scrive, infatti, Di Loreto che la fotografia «ci dà una “vista” ulteriore», una vista astratta, mediata, composta, una vista che a nostra volta “vediamo”; una vista indipendente, autonoma, che moltiplica, isola la cosa o il «memento veduto e a/vveduto», che frammenta e nel tempo stesso fissa. Infatti, l’indipendenza stessa della vista fotografica ci ha rivelato, a sua volta, un inedito aspetto delle cose, ci ha portato una nuova comprensione, un tutto nuovo senso, spostando lo sguardo dalla condizione storica ad una condizione meramente formale. Anche se questa formalità rimane appesa sia nella storia della fotografia e sia nella storia dell’architettura sociale. 

L’architetto è «un metteur en scène» e il fotografo segue scrupolosamente le indicazioni del progettista: l’inserto dell’immagine nel testo, l’interdipendenza tra didascalia e fotografia, l’interruzione dell’apparato testuale, ma anche le scelte “impaginali”, dalla scrittura foto-genica al montage, si sincretizzano. Ciò non di meno, Di Loreto promuove l’immagine dell’architettura abitata come elemento imprescindibile del processo di creazione e comunicazione. L’abitare, conferma  Georges Perec, è il luogo in cui sono sostituiti i valori narrativi e architettonici l’uno per l’altra. I processi di costruzione racchiudono l’atto di restare, di fermarsi e di fissarsi, così come i percorsi e le soste sono parte integrante dell’atto di alloggiare, fatto di ritmi, navigli e orizzonti di cittadinanza. Ne consegue che la relazione tra interno ed esterno, simboleggiata da una soglia, esprime l’attraversamento dei limiti tra un dentro e un fuori, e l’interazione di ombra e luce, di giorno e notte. Nella dimensione temporale del fototesto le funzioni dell’abitare sono continuamente immaginate e alterate, come bene si evince nella sequenza di movimenti investiti nella mobilità dello sguardo, che percorre le strutture.

L’intertestualità in architettura è il contesto ambientale in cui il nuovo edificio s’inserisce. E, se è pur vero che ogni architetto decide quale scelta attuare nella relazione fra tradizione e innovazione, si può altresì affermare che il nuovo atto configurativo progetta “possibili” modi di risiedere che s’inseriscono nel groviglio di storie di vita già passate. La rivalutazione dell’atto di abitare spetta, infatti, a chi alloggia e vive i progetti. Ma altrettanto significativo, nell’epoca della «riproducibilità tecnica dell’architettonica», è il ruolo che gioca il lettore, o il cittadino e la sua cittadinanza. Al suo continuo apprendimento della giustapposizione di storie di vita s’accompagna senza dubbio il desiderio di entrare in un racconto. La smart city, con l’uso liquido delle nuove tecnologie, è sembrata fino ad oggi la soluzione più convincente alle strategie per fabbricare la città del futuro. Eppure, secondo alcuni esperti, per sfruttare a pieno il potenziale innovativo e creativo delle città è necessario un nuovo modello urbano, quello della augmented city: un «dispositivo spaziale, culturale, sociale, economico per connettere le componenti della vita urbana». Il ragionamento è che, dopo due secoli caratterizzata dalla società industriale fordista, dobbiamo entrare nell’era di un nuovo bene comune, il quale non è solo contraddistinto dal primato della tecnologia dell’informazione e della comunicazione, dalla smartness urbana e sull’internet delle cose, ma anche su una rinnovata e produttiva dimensione ecologica e di democrazia radicale degli insediamenti e dei nuovi diritti di cittadinanza, basati sulla cooperazione e la condivisione.

Milano è stata sempre immagine dei tempi moderni, nel bene e nel male. Immagine di un possibile ordine o del disordine nascosto, della regolarità e dell’irregolarità dell’infermità sociale italiana. Milano attraverso il racconto ricercato è sopravvissuta al declino di tutte le progettualità liberali italiane e ne costruisce incessantemente di nuove. Milano è stata sempre anche il contesto territoriale di una cittadinanza adombrata, vissuta o realmente distesa e organizzata. Quando, nella Milano moderna o post-moderna, così come la vorrebbe l’ultima architettura della «citazione plasmata», la periferia diventa la continuità disseminata della contraddizione centrale. Le documentazioni, le risorse e i disegni applicati devono confrontarsi con le sue tante marginalità nascoste o manifeste, gli irregolari, i segni deviati, le classi della contraddizione e della divisione, della vera differenza, che sono il deposito del conflitto e dell’innovazione: l’altro che, insieme alle pandemie economiche e sociali, definisce i nuovi contorni dell’antinomia.

Il vissuto di classe, contro ogni codice riduttivo dell’appartenenza e dell’esclusione, tende ad emergere come configurazione della conflittualità del dato empirico e della datazione dell’ostilità, cultura del movimento reale e dello scontro permanente. Paradossalmente, nella Milano multietnica rivivono, a livello di massa, forme di snobismo formalistico e di azione sociale, che nella polis classica o liberal erano patrimonio della sola classe dominante. Lo scenario politico di Milano definisce il bordo dei processi sociali, senza risolverli o affrontarli in maniera definitiva. Eppure la perversione liberista, che vuole estinguere il conflitto di classe, appartiene alla logica della rappresentazione quanto la bizzarria ordo-elitista che la trascura, proibendo ugualmente ai ricchi e ai poveri di dormire al di là della rappresentazione disegnata. Nell’adorazione pianificazionistica e idolatrica del puro mezzo dell’immagine questo può essere indifferentemente il potere o il denaro, con notevoli effetti sui concreti regimi e sistemi sociali.