Arco Madrid 2025
Giovanni Termini, La Disciplina delle Eccezioni, 2025, maniglia antipanico e legno, dimensioni variabili, installation view. Courtesy Fondazione Pastificio Cerere. Credits: Carlo Romano.

Un vuoto che acquieta e inquieta

La promessa del vuoto di Giovanni Termini, presso il Pastificio Cerere, in via degli Ausoni 78, a Roma, fino al 15 marzo 2025.

Già all’ingresso del Pastificio Cerere, diretti a visitare la nuova mostra di Giovanni Termini, ci si trova dinanzi al concetto di ipotesi, intesa nel suo senso etimologico. ὑπόϑεσις, in greco, o suppositio in latino: qualcosa che si trova al di sotto della realtà effettiva e che vive ancora come potenza, disposta a tradursi in atto se si danno le condizioni che la nostra mente è in grado di supporre. 

Qui il complesso ganglio di possibilità è rappresentato da La disciplina delle eccezioni: un maniglione antipanico in un insolito e felice pantone turchese, che incongruamente si trova contro la parete in mezzo a due arcate, a due usci, a due porte – ovvero proprio dove un oggetto del genere non dovrebbe essere, o almeno dove non ce lo attenderemmo. Spingere il maniglione in avanti è in questo caso operazione impossibile e inutile, perché il gesto sarebbe ostacolato irrimediabilmente dalla massa della parete e perché comunque, anche ipotizzando che avesse esito positivo, non condurrebbe da nessuna parte.

E a rendere il tutto ancor più paradossale è un’ulteriore incongruità: un grande foglio di compensato schiacciato tra la parete e la maniglia. Si tratta di un materiale rigido quale solo il legno e la cellulosa sanno essere, eppure la morfologia che Giovanni Termini gli ha dato – da sapiente scultore quale, non dimentichiamolo, egli è – trasmette elasticità e soprattutto morbidezza.  Aggiungete i colori, caldi come un legno chiaro e un turchese da pastello a cera, e ne verrà fuori un meraviglioso fiore nel deserto, un incontro fortuito con la sorpresa.

Di quest’ultima è palese conferma la sala successiva, la più grande della galleria e non solo per questo la più importante della mostra. Termini ci ha abituati alle ampie estensioni ma a mia memoria ha forse qui raggiunto le dimensioni maggiori, perfino più della Misura di un intervallo, il cortile diviso in due parti da una rete e da barriere jersey e occupato da un pallone da basket nella galleria Vannucci a Pistoia, tre anni fa.

Qui, nell’opera La promessa del vuoto, eponima dell’intera mostra, un insieme di tavoli metallici, sorretti da tubi Innocenti e lucidi fino a divenire specchi, occupa a occhio e croce – la didascalia riporta dimensioni variabili – più di cinquanta metri quadrati tra le sottili colonne che sorreggono il soffitto. Quiete, è la prima reazione: un lago di zinco, immobile e silente, che si oppone felicemente alla confusione del quartiere, a pochi metri di distanza, oltre il cortile e le inferriate.

Finché, senza preavviso, si attiva un frullatore e il chiasso – la rottura – che ne scaturisce, il ronzio meccanico accentuato dall’acustica della sala e dal silenzio che lo ha preceduto, si fa inquietudine. 

L’istinto naturale è individuare la fonte del disturbo: sei frullatori identici sparsi per il lago metallico, a loro volta vetro e metallo, eleganti nel disegno e neutri nei colori, e un settimo nascosto sotto la superficie, nelle viscere dei tavoli. La scelta di quale dei sette si avvii e quando ciò accada è deferita a un programma elettronico volutamente elementare, che predilige il caso a qualsiasi calcolo.

Inquieta e acquieta, dunque, l’opera di Giovanni Termini, riuscita come poche altre, potente nella sua pulizia classica. 

Inquieta e acquieta il video successivo (Tempo imperfetto), che raffigurerebbe la rotazione in loop di una macchina per la tessitura di filo sintetico utilizzato per le sedie a sdraio e le tende antisole. Uso il condizionale perché se da un lato quel che davvero avviene sotto i nostri occhi è lo scandire del tempo, dall’altro il tac tac che quello scandire produce è dato dallo stesso filo intessuto: l’oggetto del meccanismo cronologicamente esatto è anche l’attore che a sua volta determina l’esattezza della misurazione del proprio tempo. 

Infine, nell’ultima sala, Termini ripresenta uno dei suoi classici, Ipotesi, una delle sedie a sdraio che a prima vista si definirebbero impossibili, perché non utilizzabili secondo la loro funzione codificata, ma che sarebbe più corretto qualificare come ipotetica, seguendo il suggerimento del titolo e teorizzando una dimensione nella quale la perfezione formale di un disegno che insegue sé stesso all’infinito abbia anche un ruolo pratico. 

Resta forse da chiedersi il perché della promessa del vuoto: è certo che Giovanni Termini, maestro nell’occupare spazio, dia sempre più l’impressione negli ultimi anni di liberarlo da ogni peso, se non da ogni presenza: le linee si fanno via via più essenziali e le sue costruzioni, spesso oggettivamente pesanti, riescono invece a trasmettere un’inattesa sensazione di levità, com’era accaduto – e ho avuto la fortuna di esserne testimone diretto – con l’Ospite, l’istallazione montata nella Residenza dell’Ambasciata d’Italia a Berna nel 2022, nella quale un sistema di ponteggi che si arrampicava lungo i dieci e più metri di verticalità di un pino cembro secolare aveva l’unico fine di sorreggere un delicato e sottile vassoio di argento sul quale si reggeva in equilibrio una bottiglia di acqua minerale – offerta all’ospite, offerta dall’ospite, stante la duplice ambigua valenza del significato della parola nella lingua italiana.

Questa assenza di spazi, svuotati come da un movimento respiratorio abnorme, provoca nello spettatore sospensione: spingerò o non spingerò il maniglione, e se lo faccio, risponderò al panico o sarò invece io a provocarlo? Sono ipotesi tutte possibili, in equilibrio instabile, come un cuore in bilico, acquietato e inquieto.