Notoriamente la stragrande maggioranza dei visitatori di una mostra in gallerie e altre forme di spazi privati – non parlo naturalmente delle mostre dei grandi musei – si concentra nel giorno del vernissage. Considerare che, dal giorno successivo, c’è ancora un mese, ci sono ancora due mesi a disposizione, o più ancora, giacché si può sperare in una proroga della chiusura, induce nella mente del potenziale interessato una sorta di rilassamento, una sottile, inconfessata credenza in un tempo apparentemente eterno. In seguito – lo si sa – i “buoni propositi” vengono spesso traditi, e quindi, se sei mancato al vernissage, facilmente ti perderai la mostra. Ecco perché nella collettiva Caducitè, a cura di Valentina Rippa, la prima scelta da sottolineare, in quanto caratterizzante, non è quella relativa agli artisti e alle opere – che pure non sono un dettaglio, naturalmente -, bensì quella di farla durare un solo giorno – il primo marzo -, identificando peraltro la fine del giorno con l’ora del tramonto, che, verso la fine dell’inverno, non arriva prestissimo ma neanche poi così tardi.
L’impossibilità di visitare la mostra se non entro un tempo tutto sommato assai limitato, per cui o ti tieni libero nel giorno stabilito o nulla, diviene così una evidente metafora della stessa tematica che si intende sviluppare, un invito-imperativo a cogliere il tempo che fugge, riallacciandosi ad un motivo che, per un verso, si trova specialmente in certi autori – forse il caso di Orazio Flacco è il più celebre, ma certo non il solo – e in certe epoche – impossibile in un contesto napoletano non pesare al Barocco -, ma, per un altro, corrisponde ad una sorta di linea continua che, pur con numerose accezioni e diversi punti di vista, attraversa l’era pagana e quella cristiana, l’antichità e la modernità, il mondo preindustriale e quello aperto dalla rivoluzione industriale – e ciò volendoci limitare alla sola storia dell’Occidente. Proprio nel nostro presente, di contro, vi è chi promette un nuovo orizzonte di immortalità – si pensi a tutto il discorso del Transumanesimo -, ma la curatrice sembra mostrare sostanziale scetticismo in merito, e neanche considerare particolarmente inedite certe tendenze, allorché scrive che «Sin dall’antichità proviamo a superare l’impermanenza della nostra condizione umana. I Greci definivano questa attitudine hybris, l’arroganza che ci spinge oltre i nostri limiti umani nella continua agonia a voler superare la nostra stessa condizione». Quindi continua con una domanda dalla probabile valenza retorica: «[…] dovremmo provare ad abbandonarci allo scorrere del tempo, accettare la fragilità e la mutevolezza del tutto?».







Gli otto artisti presenti in mostra, accomodando le loro opere di medie dimensioni nell’ampio capannone industriale dismesso che costituisce lo spazio di Vera Vita Gioia – apparendo come presenze certo dignitose ma neanche minimamente provando a sfidare lo spazio sul piano delle dimensioni; anche questa una metafora di caducità, di limitatezza degli enti rispetto alla immensità dell’universo? -, non dimostrano di pensarla in maniera troppo differente, configurandole come molteplici variazioni sul tema che, nelle rispettive differenze delle singole poetiche, pure trovano degli elementi unificanti, ricorrenti nella presenza di certi materiali – la cera in primis; nella idea embrionale della curatrice la mostra doveva essere costituita interamente da opere in cera – e di certe figure-oggetti – teschi, candele, vetri, specchi, fiori, frutti…
Si veda Riccardo Albanese che presenta due enormi quanto pericolanti candele rosse dalle quali spuntano rispettivamente un volto umano ed un teschio che si sciolgono – è il caso di usare questo verbo – in un conturbante, ossimorico bacio, richiamando l’antichissimo topos della prossimità tra eros e thanatos. Ma anche Luigi De Simone, i cui teschi possiedono una grottesca eleganza tra ricercatezza cromatica e materica ed ornamenti floreali, ma tutto ciò non pare che funzionale ad additare con più enfasi l’attuale dramma della Palestina – ovvero un luogo dove il concetto di caducità appare persino un eufemismo – come testimonia la parola araba del titolo, traducibile con la locuzione “non identificato”, la scritta apposta sui sacchi di plastica in cui vengono raccolti i resti dei corpi tra le macerie a Gaza. Fiori, ma anche frutti, capaci di rimandare, con la loro deperibilità, all’alternarsi delle stagioni, trovano spazio nella piccola videoinstallazione di Valeria Borrelli, ove la stessa tecnologia che la permette – una batteria non particolarmente potente e dunque destinata ad esaurirsi in un tempo relativamente breve – diviene un richiamo al concetto di chiave della mostra. Un discorso assai votato all’astrazione e all’interiorità è quello di Giulio Delvè, che sistema sui quattro pilastri del capannone altrettante piccole opere gemelle: superfici vitree attraversate da continue frantumazioni, che in realtà funzionano come piacevoli decorazioni, incorniciano parvenze di paesaggi a testimonianza del trascorrere inesorabile tanto del tempo oggettivo del giorno e della notte quanto del tempo soggettivo della nostra anima. L’interiorità si carica di un senso di sacralità in Massimiliano Pipolo, che sulle sommità delle sue campane – oggetto di per sé già capace di evocare tutto un mondo, un “piccolo mondo antico”, per dirla con Antonio Fogazzaro – pone candele in grado di vivacizzare le superfici attraverso le copiose colature che derivano dal loro consumarsi. Una poetica profondamente intrisa di spiritualità è poi quella di Lucia Schettino, il cui frequente risalire ad una animalità primordiale si configura come premessa irrinunciabile per l’acquisizione di una consapevolezza più profonda di ciò che si è – e si è stati -, senza la quale non si sarà da nessuna parte; il senso di fragilità che pervade il suo linguaggio non entra in contrasto, anzi è in assoluta consonanza con il suo ottimismo del divenire. Con tali sollecitazioni contrasta il filosofico Antonello Scotti, che prima mette alla prova l’arguzia percettiva dello spettatore proponendogli una foto con una figura dalle sembianze umane – nient’altro che i frammenti ricomposti di una statua già posta nel giardino del liceo dove insegna -, quindi lo pone di fronte a quella che per lui è la verità estrema di tutte le cose, ciò in cui ci si imbatterebbe una volta squarciato lo schopenhaueriano velo di Maya. In un territorio molto differente ci conduce, infine, il dittico dal sapore vagamente magrittiano di Roberto di Alicudi, ove con leggerezza ed ironia, la caducità considerata è quella dell’amore, la cui dissoluzione si sovrappone al consumarsi di una sigaretta fumante.