Stefano Scalella; particolare Umana empatia, video, televisore, 1’57”, 2024, foto di Stefano Scalella

Tutto il resto è per i pazzi

Lo scorso 10 maggio Officine Brandimarte, collettivo artistico e spazio indipendente di Ascoli Piceno, ha inaugurato la mostra “Tutto il resto è per i pazzi” un’elogio alla trasformazione della percezione sensibile dell’opera d’arte come corpo complesso e stratificato, raccogliendo le pratiche multidisciplinari di Ado Brandimarte, Simone Doria, Filippo Sbrancia, Sottopelle, Stefano Scolella e Stefano Ventili, curate da Michele Gentilii

“Il resto è per i pazzi” scriveva Patrizia Cavalli. I pazzi sono coloro che si nascondo dietro all’ermetismo implosivo della parola, la chiusura autocèlebrante di se stessa. Sono coloro che scrivono e che cercano nell’arte un preconfezionamento di significati interpretabili, che come variabili matematiche si assemblano e si ripetono secondo logiche. La Cavalli, in “È tutto così semplice” componimento poetico tratto dalla serie Pigre divinità e pigre sorti, rivendicava,  infatti, la concretezza e l’evidenza del momento nell’atto stesso in cui accade per mezzo della semplicità gestuale del corpo, senza troppi fronzoli o giri di parole: “A questo serve un corpo”, continuava. Anche l’opera più concettuale non può prescindere dal corpo come essere presente, che sia oggetto o umano, animale o inorganico, verbale o visivo. Questa imprescindibile immediatezza che la natura del corpo opera d’arte porta con sé, nell’attivazione del processo di riconoscimento linguaggio/simbolo, lascia a chi la osserva un ineluttabile senso di impotenza o, di contro di una squisita indifferenza (Kirk Varnedoe, 2016) da parte di chi invece continua a ricercarne, fregandosene delle regole, attraverso la pretenziosità del potere interpretativo, una qualche forma di universalità. C’è ancora oggi una dura lotta fra partiti di pensiero opposti fra chi scrive dei significati dell’arte e chi invece, scettico ritiene  debbano essere taciuti. Ma la scelta tra un significato determinato, esplicito e nessun significato è una scelta ingannevole; discuterne, però, rimane sempre l’aspetto più importante. Il continuo dibattito, seppur alle volte reso silente dalle regole puramente promozionali che scelgono un lavoro di un artista più di un altro, accende e riaccende attraverso l’incontro o lo scontro di pensieri le luminarie della dimensione erotica: l’interrogarsi ancora sui significati e sulle funzionalità dell’arte  stimola negli artisti la volontà a produrre. Questa produzione, però, per alcuni mercificata, per altri divinizzata, mette criticamente  nero su bianco, non tanto la ricerca di una qualche forma di divinità nascosta dietro un’opera, quanto i criteri, i limiti, i fallimenti e le problematiche della contemporaneità. 

Il resto è per i pazzi” collettiva inaugurata lo scorso 10 maggio presso Officine Brandimarte (Ado Brandimarte, Simone Doria, Filippo Sbrancia, Sottopelle, Stefano Scalella, Stefano Ventilii) ad Ascoli Piceno a cura di Michele Gentili, ricerca quella forma di immediatezza, analizzando la natura sistemica e relazionale che la materia del corpo instaura in una continua ricerca di conoscenza verso ciò che è altro da se stesso.

A rinforzare quanto detto sopra, ritengo estremamente puntuale quanto espresso da Gentili, curatore della mostra, nel sostenere che, riprendendo le parole di Arturo Martini, “l’arte non è interpretazione ma trasformazione”. Le opere presenti in mostra sembrano apparire esplicitamente o implicitamente come l’espressione di un tentativo di portare alla luce la complessità e la mutevolezza di intenti che si auto-generano dalla percezione e la fruizione di un corpo. La domanda sorge spontanea: “in che termini un’opera d’arte attiva un processo di trasformazione?”

La pratica scultorea di Filippo Sbrancia insiste proprio sulla mutevolezza che l’opera d’arte porta potenzialmente con sè. L’utilizzo di materiali organici come media scultorei richiama all’attenzione in tono ironico quasi quella stessa indifferenza e quella caducità desacralizzata, nonché immediatezza per l’appunto, che l’opera sente di voler reinvestire. Cosa rimane della memoria immortale immutabile e  tanto discussa che i fruitori dell’arte hanno sempre voluto sostenere? Sbrancia posiziona all’ingresso uno Zerbino di terra (2024), mettendo in uno stato di crisi lo spettatore. L’importanza del suo passaggio assume una duplice carica significante: da un lato, l’artista marca la responsabilità oltre che la scelta di determinare, attraverso lo stesso, il mutamento della sua fattezza formale, espandendo e spargendo la terra sul pavimento; dall’altro, invece, calca l’incertezza di compiere quello stesso gesto primordiale mantenendone la sacralità. La duplice percezione  dell’opera di Sbrancia viene rinforzata da un paio di Padukas (2024) appese alle parete, che sembrano guardare e testimoniare l’annullamento di quel passaggio oltre che della loro funzione. “Il passo di Dio”, così chiamate le paduka, i cui zoccoli son talmente alti da non permettere il posarsi del piede sulla terra. Rimangono lì appese, annullando la loro utilità, ma appaiono con i graffi e i segni di chi invece di passaggi ne ha vissuti tanti. Filippo Sbrancia riporta alla luce quesiti in chiave esistenziale ed essenziale, lasciando che il desiderio di un eterno ritorno svanisca nella sua forma, come la terra dello zerbino che lo spettatore esita a calpestare e dove a trasformarsi e a mutare ne è la sua fruizione. 

Se però l’opera di Sbrancia accetta di slegarsi dalla sua fattezza morfologica in favore di quella concettuale, nel video di Stefano Scalella, invece, il corpo di una figura femminile appare confinato e limitato dalla cornice del televisore (Umana empatia, 2024). Quell’immediatezza visiva, condizionata dal dispositivo scelto, sembra però cessare attraverso il movimento del soggetto: la ragazza, sfocata, si avvicina e si allontana, si nasconde e si mostra, insistendo sulla continua alterazione del punto di vista dell’osservatore, il quale è invogliato a muoversi cercando di rendere il suo movimento apparentemente a-sincronico sincronico. Il corpo femminile sembra coabitare quello tecnologico proprio del dispositivo: quella dimensione erotica, dunque, viene amplificata non tanto dal tentativo di raggiungere il soggetto e di afferrarlo, quanto piuttosto dalla possibilità insita nella natura del corpo umano di coabitarne un altro, amplificando il desiderio di un esistenza estensiva e di un immortalità tanto agognata che si serve delle modalità e dei processi di una documentazione digitale.

Coerentemente, Prendetemi e mangiatemi tutta (2024) di Sottopelle, sottopone agli occhi dello spettatore l’istinto di muoversi verso le logiche ideologiche di assoggettamento del corpo femminile, con l’intento di sottoporlo ad oggetto di riflessione. Poggiato su un piedistallo, un piatto dorato offre come tributo al fruitore una moltitudine di parti di corpo femminile, fotografate e riprodotte su delle ostie. Seppur scegliendo di addentrarsi verso una traduzione nettamente esplicita dell’opera, le artiste colgono proprio attraverso l’immediatezza dell’atto di mangiare la carica tensiva e allegorica del gesto. L’ostia, ancora oggi, rappresenta allegoricamente il “corpo di Cristo” che, sostituito dal pane, viene donato ai discepoli come testimonianza del sacrificio. Curioso è il significato della sua origine etimologica, dal latino Hostia, vittima: una vittima profetica e consapevole di essere stata sottomessa al giogo del potere, la stessa che si dona allo spettatore come atto dichiaratamente politico nell’opera di Sottopelle. La degustazione del corpo femminile è sintomo di un elogio ad una schiavitù concettuale, non tanto puramente fisica, quanto corrotta dalle sovrastrutture culturali, il cui potere è maschile. Il corpo seppur frammentato e offerto si spoglia di quell’erotismo seduttivo, ma inerme si lascia assaggiare, rimarcando l’importanza dello scambio estetico relazionale che dall’opera d’arte si autodetermina. L’atto di mangiare, azione che richiama una dimensione conviviale e corale, viene così trasposta ed indirizzata verso una femminilità oggetto/corpo la cui potenziale traduzione oscilla fra l’elargire di un tributo sacro e l’assoggettamento. Carol Hanisch, nell’affermare,  all’interno del testo “Notes from the Second Year: Womens Liberation” (1970), che “il personale è politico”, interpretando il pensiero del movimento femminista, si interrogava sulla necessità di comprendere se le norme e le pratiche sociali influenzassero concretamente i problemi della sfera privata e di conseguenza sull’esigenza di rimuoverli. 

Se si liberasse tale concetto dalla sua natura strettamente ideologica, e lo si contestualizzasse in una dimensione più ampia, priva di questioni di genere ed estesa alla nostra percezione della realtà, del paesaggio naturale, ed infine dei rapporti sociali, a quel punto tale riflessione potrebbe offrire una chiave di traduzione immediata per l’opera di Simone Doria (Cantavamo sugli alberi come sirene,2024). L’artista mette di fronte allo spettatore la sua impossibilità di poter fruire direttamente di una piccola fotografia affissa a parete: un cumulo di calchi di gesso invade la sala impedendo all’osservatore di avvicinarsi. L’idea di oppressione e di assoggettamento capitalistico, che l’artista sembra voler esprimere, risiede proprio nella l’incapacità di poter attraversare quel campo. I paesaggi naturali che si era soliti vivere  liberi vengono così contaminati dalla proprietà privata.

Ma se Doria esprime, attraverso l’opera, un atto politico, una denuncia di un corpo bloccato e vincolato dai confini sociali ed astratti, l’installazione spaziale di Stefano Ventili (Ai margini dell’aria, 2024), di controne rivendica la loro relativa sovrastruttura. Un segno di acrilico nero percorre ondoso la superficie della sala: come mappe immaginarie, i tracciati eludono i limiti e congiunzioni delle pareti, rompendo la gabbia convenzionale del pensiero e stabilendo come l’idea stessa di perimetro sia evanescente. Il tracciato prosegue indifferente. La frontalità e la verticalità, elementi caratteristici della superficie pittorica, e prima determinanti, diventano accessori: l’andamento del tracciato continua senza interruzione e l’occhio è invogliato a seguirlo confondendo proprio i cardini spazio fisici. Alla bidimensionalità del segno, Ventili aggiunge una plasticità tridimensionale, invadendo il vuoto della sala con tubolari in polietilene della stessa cromia, come continuum dello stesso tracciato a parete. Come scrive Gentili nel testo critico, “il vuoto non è spazio ingombro ma un territorio da conquistare nella vana lotta di dare margine a ciò che un margine non ha, misurando una materia destinata a fuggire.

Certamente, l’idea di corpo è vincolata e condizionata dalla substantia, ciò che risiede sotto, ma ancor di più dall’esigenza di una suddivisione sistemica delle parti ai fini di una definizione unitaria. Se si pensa al concetto di corpo, si attiva una processo cognitivo immediato: nel figurare e nel tradurre in immagine la radice semantica di corpo lo si associa inevitabilmente a quello umano. Ciò che appare naturale, però, è quel considerare tale corpo in modo unitario, affinché il riconoscimento possa compiersi. Considerare le singole parti fa sì che il processo di elaborazione psico-cognitiva si indirizzi verso una complementarità. Mi spiego meglio. Se pensiamo ad il nome “braccio”, l’istinto è quello di figurare nella mente la restante parte del corpo; si tende sempre, dunque, a considerare la parte singola come parte di un insieme. La singolarità fornirà al pensante una conoscenza frammentaria e mai totale. Un frammento porta con sé la possibilità di poter ammantarsi di molteplici identità: da un lato, essere parte di una totalità, dall’altra, invece, diventare esso stesso unicum. 

Ado Brandimarte rompe le logiche iconografiche e morfologiche dell’oggetto statuario classico cambiandone la percezione non solo concettuale ma principalmente visiva grazie alla sua frammentazione. Il calco di gesso, scarto materico derivato dalla formatura, diventa per Brandimarte non più matrice ma opera stessa. Nell’opera Orizzonti, albe o tramonti (2024), i negativi scultorei del corpo umano nella loro natura frammentaria, assemblati fra loro, tracciano un paesaggio immaginario secondo una composizione lineare: l’atto scultoreo abbandona, così, la sua dimora spaziale plastica per cedere lo spazio a quella frontale della parete. Le superfici concave degli scarti creano delle zone di luci e di ombre, di pieni e di vuoti, che l’occhio percepisce plastici: ciò che concretamente risulta scalpellato sul piano percettivo diventa volumetrico e apparentemente aggettante in un continuo gioco illusorio fra immediatezza e complessità.

Verso una conclusione, riprenderei come riferimento l’approccio curatoriale che Michele Gentili ha scelto di indirizzare in un continuo confronto con gli artisti in mostra. Certa è la tematica trattata, nonché le dinamiche interrelazionali che si determinano attraverso l’indagine di natura ontica del corpo. Ciò che, però, ritengo importante esplicitare è proprio la dicotomia fra l’interpretazione di un’opera e la possibilità che essa possa generare un atto di trasformazione, che lo stesso curatore ci mette in luce nel testo critico. Cosa può oggi l’opera d’arte ? In che termini vale considerare la trasformazione ? Per una stimolazione dell’intelletto verso il ragionamento intuitivo e critico è giusto chiedersi a questo punto se considerare la trasformazione dell’opera come oggetto o la percezione sensibile che il fruitore ha della stessa. Ciò che porta a staccarci dal processo imperativo dell’interpretazione è proprio il ragionare secondo metodologie confutative. La confutazione non implica uno schieramento drastico, ma attiva un flusso dinamico di riflessione e di ricerca. Tutte le opere presenti in mostra, nei media adottati e nelle pratiche utilizzate, insistono certamente sull’alterazione della percezione sensibile. Un’alterazione percepita a partire dalla mutazione della fattezza formale dell’opera, che proprio grazie alla trasformazione permette allo spettatore di comprendere e di intuire un’ulteriore riflessione sulla realtà. 

Tutto il resto è per i pazzi
Ado Brandimarte, Simone Doria, Sottopelle, Filippo Sbrancia, Stefano Scalella e Stefano Ventili
A cura di Michele Gentili
10 Maggio – 10 Luglio 2024
Officine Brandimarte, Ascoli Piceno (AP)

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