“L’uomo è l’essere che non può uscire di se stesso, non conosce gli altri se non in se stesso, e dicendo il contrario mente”
Marcel Proust, Albertine scomparsa
“Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo di intenderci; non c’intendiamo mai!”
Pirandello, Sei personaggi … (Il Padre)
Il treno arrivò alla stazione di Narni e mentre Shlomo gli porgeva i saluti l’uomo, gli disse di guardare la variabile Alfa sul programma, che non era definita e provocava il messaggio di errore. Shlomo non fece neanche in tempo a rendere grazie che, già un’ora dopo, aveva consegnato il programma completo al suo mallevadore, con la variabile alfa definita e il problema risolto. Dopo questo episodio, pensò di non dover mai più valutare gli esseri umani prima di comprenderli.
Mentre meditava sull’accaduto, udì un lieve strepito e lasciò l’espressione dello sguardo serrata. Successivamente al fragore, quasi irrilevante, si rese conto che nell’aria c’era un aroma di profumo secco. La vettura del treno era invasa da questa emanazione tenera, gradevole e non troppo potente. Questa sconosciuta aveva, come poche altre, indossato una quantità ideale di balsamo o di altro medicamento. Il suo naso era al top, annusando sapore di fiori e di vegetali senza esserne minimamente infastidito? Una femmina, pensò lì per lì. È una signora che si è seduta? Non aveva sentito la persona adagiarsi, aveva sentito semplicemente un piccolo rumore e questa brezza che aveva urtato il suo quinto senso, entrando nelle sue narici. Continuò per qualche minuto ad ascoltare, ma non udiva nessun altro rumore che quello del treno che lasciava la stazione per raggiungere Roma in poco meno di un’ora.
Cercò d’immaginare la sua vicina: non doveva essere giovane, forse una donna sui trenta o quarant’anni, in quanto esperta nel dosare il profumo, per il quale ci vogliono anni e anni d’allenamento per sapere mettere la dose giusta. Bruna, l’immaginava bruna, tanto per dire, perché niente poteva aiutarlo a sapere il colore dei capelli, tranne la probabilità. Come esperto informatico, aveva infatti studiato matematica in Italia, sapeva che la probabilità che fosse una donna bruna era maggiore. La probabilità, da De Finetti a Savage, si è proposta come una definizione di eventualità applicabile ad esperimenti casuali, i cui eventi elementari non siano ritenuti ugualmente possibili e che non siano necessariamente ripetibili più volte sotto le stesse condizioni: la probabilità di un evento è il prezzo che un individuo ritiene equo pagare per ricevere l’1 se l’evento si verifica, o lo 0 se l’evento non si verifica. Shlomo, avendo studiato statistica per la ricerca sociale, al corso della Facoltà di Sociologia di Salerno, sapeva bene che il probabilismo ontico è l’unico strumento per immaginare il colore dei capelli di lei e, quindi, ripeteva tra sé e sé che il probabilismo ontico è una teoria ontologica, in base alla quale ciò che è necessario rappresenta il massimo delle probabilità e ciò che è casuale il minimo delle probabilità. L’alternanza dialettica necessità/caso si dà, quindi, in una scala astratta, ma matematicamente calcolabile per approssimazione, caso per caso, con adeguati algoritmi. Pensato ciò, era chiaro quale poteva essere il colore dei capelli. Una donna che prende il treno per trovare il suo gruppo di hackers, con molta probabilità cambia il colore dei suoi capelli, quanto desidera indossare e possedere un set di parrucche. Ecco il suo pensiero, ecco le sue conclusioni: una donna fra i trenta e i quaranta anni, bruna, operatrice informatica e innamorata di un set di programmi, di ricerche strepitose e di storie letterarie.
Uno, due, tre«!?»; aprì gli occhi e vide innanzitutto due globi oculari che lo scrutavano, due occhi blu che sembravano due pietre preziose nella mezza oscurità della mattina. Tutto era sfumato, tranne quei due gioielli, che incrociavano il suo sguardo come un ricercatore che trova un tesoro; tutto ciò che c’era intorno non esisteva più, esistevano solo quei due occhi che guardavano altro schermo di pc. Si sentiva nudo davanti a quel blu profondo, come se fossero due raggi laser che lo spiavano. Riprese un po’ il suo spirito quando la sua vicina girò il suo sguardo verso la finestra. Pensò a quelle due viste che guardavano fuori la sfilata di campi, alberi e strade che coronano il percorso che dalla bassa Umbria conduce alla capitale. Una strada che passa per gallerie, alte montagne, colline, campagne laziali e paeselli che dalla linea appenninica passa alla linea tirrenica. Shlomo guardava il suo profilo, vedeva la pelle bianca, senza trucco, la pelle liscia, e un naso piccolo, e si sentiva quasi ridicolo poiché non si stancava del suo viso e del suo fissare lo schermo. Era giovanile, doveva avere trentacinque anni, non di più. Era più giovane di ciò che di giovane vagheggiasse nella sua mente. Osservò con interesse i suoi occhi, vedeva un colore e una brillantezza mai vista prima. Quando guardava gli occhi muoversi per seguire il paesaggio, percepiva due fari che indicavano il cammino per non perdersi.
«Se avessi la buona abitudine di tagliare dagli schermi e di conservare quelle specchialità che mi sembrano degne di interesse, avrei ora una lettera indirizzata all’Associazione degli hackers con dei contenuti forti. Ed invece, di questa lettera conservo solo un vago ricordo. Lo scrittore – un uomo saggio – osservava che i giuochi organizzati dagli hacker, molti dei quali si sono tramandati per lungo tempo, vanno ora scomparendo rapidamente, e riteneva che questa scomparsa fosse un’altra prova del declinare degli effettivi valori introdotti da Assange. Sia che avesse ragione o torto – e ho l’impressione che avesse ragione – è certo che gran parte della gioia che riesco a ricordare del mio primo apprendistato da hacker è legato a questi giuochi. Abitando alla periferia della città, in una zona ancora in costruzione, noi eravamo in condizioni privilegiate; e ricordo che nonostante i guardiani dei depositi di computer ci servivamo regolarmente delle case in costruzione e di quelle cataste inverosimili di hard disk che erano tanto comuni allora. I giuochi stessi, al computer, erano tradizionali, parte di un mondo precluso agli informatici» … «Parlerò anche di questo per rispondere ad una domanda, ancora non formulata ma, suppongo, inevitabile. L’hacker di professione trova ben poca gioia nell’hackerare. La gioia più grande si prova soltanto quando da giovanissimi si comincia e capita di sentirsi in vena, e allora, ancora terribilmente consapevoli di noi stessi dinanzi allo schermo, ci inebria il pensiero di vederci intenti a digitare. Poi, dopo anni di esperienza, di smanettamenti vari – almeno così sembra a me – o lottiamo con i nostri mezzi particolari, facendo uno sforzo che può darci soddisfazione, ma non gioia, oppure possiamo arrivare, nel nostro lavoro, al più alto grado creativo, e allora, essendo presi completamente dalla nostra protesi (la tastiera), non vi è posto in noi per alcun sentimento verso altre persone. L’hacker consumato, credo prova maggior piacere al principio e alla fine di un lavoro, prima nell’accogliere l’idea e nel considerarne la possibilità, poi nel ritornare al lavoro finito, cercando di portarlo più vicino alla perfezione mediale, e in ciò, per quanto abbia parlato di gioia, io non valgo un gran che … ».
Questo cammino nelle sensazioni viene indicato con l’espressione: “ritorna alla tua coscienza”. Ma questo “animo”, questo essere interiore, di cui ignoriamo o trascuriamo troppo spesso l’esistenza, che cosa è? È la parte più profonda di noi: pensieri, sentimenti, avvenimenti sedimentati, desideri, atteggiamenti difensivi, aspetti emozionali ed istintivi. Ignorando questa parte profonda che, con la parte responsabile, è nella nostra dimensione totale, noi arriviamo a conoscere il nostro essere interiore. Il quale come dicono gli induisti, dimora “nella caverna del nostro cuore”, nella parte più profonda del nostro essere. Quando arriviamo a scoprire questa parte, ci avviciniamo a qualcuno, infatti, quando iniziamo a conoscere la nostra identità più profonda, allora scopriamo in essa uno specchio, o una storia. Questo richiede l’umiltà che non è una nostra conquista ma un dono, di cui ci dobbiamo rendere conto per accettarlo. Il guardare se stessi, giungere alle radici del nostro essere, attraverso i sentieri paludosi d’atteggiamenti formali, d’apparenze da salvare, porta a percepire l’altro: colui che in noi aspetta di essere scoperto per crescere, quella storia che vuole essere individuata. Il non conoscere il proprio essere interiore, il proprio io profondo, conduce ad una vita essenzialmente esteriore, ad identificarsi con i propri successi, con ciò che si possiede, con l’aspetto fisico, con il proprio essere psicologico, con pensieri e sentimenti, con nozioni ed erudizione.

Accogliendo lo sguardo e la meraviglia per l’altro saremo guidati a cedere, a permettere agli occhi dell’altro di agire dentro di noi, ed allora comprenderemo che ci si arricchisce, si cresce divenendo piccoli nella meraviglia della propria mano tesa, si sale discendendo. Ma questo discendere in noi e questo spogliamento progressivo, porteranno alla festosità dell’incontro ed all’armonia che ne deriva. Voleva essere una nave, voleva seguire questo segnale, voleva essere perso ed avvicinare questi due fari; passione a prima vista, non aveva mai provato una cosa del genere prima d’allora.
Lei si girò di nuovo verso di lui; gli disse: – Spero di non averla svegliata quando mi sono seduta -.
S’interessava del suo sonno, del disturbo che aveva arrecato, ma non sapeva che l’aspettava con gli occhi chiusi, che mai prima d’allora aveva sentito una persona sedersi con tanta cautela, come una piuma che cade a terra; aveva saputo che era lì soltanto quando aveva respirato il suo profumo, niente altro, e poi essere svegliato da una donna con degli occhi così era sempre gradevole.
– No, per niente – rispose – Non stavo dormendo, chiudevo gli occhi per riposarmi prima di lavorare, non sono ancora molto sveglio. – Non poteva dirle del suo gioco degli occhi chiusi, sarebbe passato per uno stupido.
– E che lavoro fa, se non sono indiscreta? – gli chiese subito dopo la sua risposta.
– A dire la verità, lavoro per un’azienda di genere informatico, ho la responsabilità dell’impianto di moltissimi computer e … – Stava per dire che l’offerta della sua impresa si basa su soluzioni e servizi che spaziano dalla progettazione e realizzazione di sistemi informativi integrati, alla consulenza informatica direzionale, al project management, e ai servizi di manutenzione software.
Poi ci ripensò e provò a dire direttamente: – MANT S.r.l., particolarmente specializzata nella progettazione e realizzazione di soluzioni e servizi di sistemi informativi per il Facility Management. – AlcaConsulting, giovane e dinamica realtà di consulenza IT, nasce nel 2006 dalla sinergia tra passione ed esperienza in tutto l’ambiente IT. AlcaConsulting offre consulenza informatica, studi di fattibilità e ricerca nuove tecnologie, sviluppo progetti IT, realizzazione siti internet, soluzioni telefonia VoIP con funzioni software personalizzate per ogni cliente, configurazioni reti LAN wired e wireless, configurazione e test Wireless ADSL MICSO, configurazioni e test FIBRA TIM, VODAFONE, EUTELIA, recupero dati, rimozione virus, restore (formattazione) di personal computer e server WINDOWS/LINUX, backup presso la sede del cliente o da remoto (disaster recovery) e molto ancora. –
Man mano che gli balzavano alla memoria gli asbstract pubblicitari e i flyer propagandistici, che aveva scritto per la sua impresa, continuava a raccontarle le particolarità del suo lavoro, fino al momento in cui vide un certo segno di stanchezza sul viso della sua vicina. Pensò alla stupidità di raccontare il suo lavoro, a chi credeva di essere dicendo: «sono il responsabile dell’impianto? …», pensò, non vedeva che l’annoiava con le sue parole? Non era una di quelle donne per cui bastava avere le idee chiare nel mondo dell’informatica, per essere qualcuno. Non era così, era diversa; dentro la sua dedizione per le macchine, c’era un campanello d’allarme sulle funzioni della ribellione nella società mediale. Così, dopo qualche secondo di silenzio, riprese la parola e parlò della vita in generale. Vide dopo qualche minuto di discorso, che era più interessata, le raccontava le sue esperienze disastrose con gli altri gruppi di hacker e la faceva ridere delle situazioni difficili in cui si era trovato. Dopo una risata della sua nuova amica, la vide mettere la mano davanti alla bocca per nascondere il suo riso e fare meno rumore. Dopo un momento di dubbio, continuò comunque a parlare di sé, senza però farsi avanti. Era triste sapere che il suo primo corso di informatica era già finito.
Dopo un’ora di viaggio, le chiese di parlare di lei, della sua formazione, malgrado la sua malinconia, voleva sapere di più: gli disse che da tre anni occupava il posto di emergente nell’Associazione internazionale hacker e faceva spesso quel viaggio per finire i suoi studi. Andava in biblioteca, vi rimaneva una giornata o due, e ritornava la sera per raggiungere suo marito. Era tanto innamorata. Le chiese se era felice e lei lo guardò e rispose quasi subito di sì, ed anzi non era stata mai tanto felice in vita sua. Ma la felicità non aveva smesso di farle pensare ad una sua vecchia storia con uno scrittore-informatico. A dire il vero, non era mai riuscita, a ripensare, in maniera distaccata, a quella storia con Guido Corsalini, perché nei suoi pensieri le storie si sovrapponevano e i dialoghi interiori, quando si facevano memoria, quasi sempre, intrecciavano forme di vita e autori, come il suo Paolo. A quel punto, Shlomo cominciava a rendersi conto che i personaggi incontrati non erano altro che personaggi discesi dai gradini della letteratura: Corsalini/Volponi, nella memoria, si contendevano sguardi e ricordi di quella bellissima donna. In breve, il personaggio del romanzo giovanile di Paolo Volponi, La strada per Roma, che finì per divenire quasi una sorta di scrittura postuma, ricordava tante storie, tanti volti e tanti incontri. Volponi l’aveva pubblicato nel 1991, tre anni prima di morire. E, quindi, visto che era trascorso poco tempo dall’ultimo incontro col banchiere scaltro, il suo io era ancora tutto insoddisfatto! Lei diceva che poi Corsalini lo aveva rivisto poco prima della scomparsa definitiva, visto che lo scrittore urbinate era molto amico di Gianni Sassi e che frequentava come lei la redazione di Alfabeta, aggirandosi fra quei tanti allievi del filosofo Enzo Paci, altro marchigiano ante litteram trapiantato a Milano, e dello storico della filosofia Mario Dal Pra!
«Provo un curioso piacere, una gioia improvvisa, quando incontro nella vita reale angoli di strade, percorsi umani ed esistenziali, che sembrano scene da palcoscenico con connesso attore. La parte vecchia di Urbino è ricca di queste illusioni, specialmente a prima sera quando l’aria è chiara. Nello svoltare un angolo, capita di non vedere nessuno: il rumore dei passanti si è affievolito, la luce vi va scomparendo, come a teatro, in attesa che s’inizi la prima scena di un capolavoro. Vi è un tratto della vita di questa conoscente che mi è capitato di immaginare una quantità di volte in questi momenti, adesso che sto pensando a Guido Corsalini o a Ettore, e dove mi sono indugiato spesso, quasi in attesa di qualche altro compagno che entrasse saltellando nel gruppo dell’Associazione Hacker. Penso che, sepolto nel profondo del mio io, vi sia un minuscolo Corsalini e un minuscolo Ettore, che debolmente reclamano di uscire. Penso sempre, infatti, che se tutto mi venisse meno, cercherei l’ultima gioia nella Natura stessa dei ritratti e delle trasposizioni di personaggi letterari. Se un giorno del mondo da me conosciuto non vi fossero che rovine, la mia opera fosse dimenticata, la famiglia e gli amici dispersi, ed io un vecchio e goffo rudere ridotto all’indigenza; se insomma accadesse il peggio, direi a me stesso: la Natura sarà sempre dov’è, e finalmente potrò tornare ad essa con tutto il cuore e con tutta la mente, solleticando ancora gli anni di formazione e il contributo che mi diede Paolo Volponi con La strada per Roma, (premio Strega, 1991). Finalmente chiamerò per nome le cose e le miei esperienze. Una celidonia tra l’erba di gennaio riempirà e completerà un pomeriggio di nome Guido e Ettore, miei grandi amici. Ed io, tornando ad Urbino, me ne andrò trotterellando lungo le siepi, sorridendo a me stesso con gioia tranquilla. Frequenterò un club di querce e di olmi. Mi innamorerò di nuovo della scrittura di Volponi e comincerò a corteggiare un ramo di fiori di prugno, alla rilettura dei Canti di Leopardi. Basta sfuggire al nostro nuovo tiranno, il Tempo, per provare una dolce gioia di riletture, di incontri e di personaggi ritrovati. Ricordo le storie di due ventenni, legati da una stretta amicizia, che vivono la dimensione della piccola provincia – Urbino – ormai in procinto di spiccare il volo ed affrontare la vita. Uno, Guido Corsalini, prossimo alla laurea in legge, avvenente e dinamico, dongiovanni, irrequieto quanto affetto da egotismo, ambizioso e deciso a cercare l’affermazione personale e la ricchezza. Per questo motivo vuole lasciare quella Urbino che avverte ogni giorno sempre più stretta e andarsene a Roma, con l’intento di vivere nuove e più stimolanti esperienze, di cambiare i propri orizzonti nella grande città, di realizzarsi nel lavoro, di affrontare e mordere una vita più larga e intensa, lontano dalla tirchieria e dalla ripetitività quotidiana della vita di provincia. L’altro, Ettore, è invece più riflessivo e posato, meno sognatore e più concreto, coltiva l’idea di restare a Urbino, trovando la propria strada nell’attività di insegnante. Nella figura di Guido Corsalini si condensano probabilmente taluni aspetti della personalità del suo autore, se non qualche richiamo autobiografico».
A quel punto, Shlomo riprese a guardare la vicina di posto, s’interessava a lei quanto poteva, l’ascoltava e le chiedeva dettagli sulla sua vita e sulla storia con questo Guido Corsalini. All’improvviso, quasi come se fosse stufa assunse un atteggiamento di rappresentanza, e scongelando la dimensione sdolcinata e tenera che si era creata tra loro due, disse: «vuole sapere chi sono? Ho 40 anni, studentessa di informatica, aspirante hacker, ex fotomodella, ma anche collaboratrice per diversi magazine. Dal lunedì al venerdì assistente della Direttrice dell’Associazione Internazionale degli Hacker. Sono una hacker a tutti gli effetti, amante dell’alta moda, del glamour, delle mise classiche stile Chanel, ma anche delle ultime tendenze new-yorkesi. Amo l’arte, il cinema, la fotografia e tutto quello che è punk, ovviamente, o post-punk! È un vero piacere inaugurare questa conoscenza con un racconto della mia esistenza che ha lasciato il segno nel mio immaginario, e che ripercorre la vita di un grande scrittore, un poeta, un intellettuale, ma anche un grande uomo. Io non merito quello che ho avuto, la mia fortuna è stata quella di aver incontrato uno degli scrittori e degli intellettuali italiani più importanti del secondo ‘900 e di aver dato alle stampe, tramite il ricordo, tante glosse marginali alla sua opera. In fondo, in fondo, sono una donna impegnata del novecento, che ama pensare che: “ogni essere umano desidera ricevere da un altro il racconto della propria storia: solo gli altri possono scorgere il disegno di un’identità e raccontarlo in sua presenza. Non che cosa è ciascuno, ma chi è: si potrebbe sintetizzare così la categoria di unicità elaborata da Hannah Arendt: in una prospettiva vicina a quella di Carla Lonzi. Da ex compagna di Guido Corsalini, mi sento di utilizzare l’unicità per polemizzare contro il soggetto forte della tradizione metafisica e la soggettività frammentata post-moderna. Tutte le volte che nella mia storia Karen Blixen, Edipo, Borges, Ulisse, Rilke, Euridice, Volponi, tramite Guido ed Ettore, Sherazade vengono convocati dal mio ricordo a testimoniare le varie forme in cui un individuo, come te Shlomo, riceve da una narrazione il proprio ritratto di trasposizione, i rapporti d’amore, l’amicizia femminile, l’esperienza femminista dei gruppi di autocoscienza, senza dimendicare l’etica hacker e la generale attitudine delle donne al racconto, gli scenari in cui la narrazione si sposa con la politica, coincidono. Infatti, per noi, è dalla letteratura che parte l’autoformazione hacker. Professionalmente libera. Senso di giustizia e desiderio di verità che mi proviene dall’etica di Memoriale, da La macchina mondiale o da Una luce celeste, Accingersi all’impresa, La barca Olimpia e Olimpia e la pietra. Ho conosciuto Volponi quando stava scrivendo Case dell’alta valle del Metauro e soprattutto Le mosche del capitale, diciamo pure che in quel periodo aveva già nel cassetto, anzi lo aveva messo da parte il materiale de La strada per Roma (1991), che – in ordine alle pubblicazioni dell’irascibile urbinate – viene considerato the last novel, the last. Ma si potrebbe dire anche che è il primo che ha progettato e scritto e poi lasciato da parte, per una futura pubblicazione, avvenuta nel gennaio 1991, presso Einaudi. Il mese in cui ricevette il premio Strega, c’ero anch’io. Tenendosi da parte le carte dell’intera opera, spesso mi raccontava che La strada per Roma narra le vicende di un giovane che si laurea in scienza del diritto e che in seguito lascia le Marche per lavorare per Adriano Olivetti. Guido Corsalini intende lasciare Urbino per Roma, dove lavorerà in seno all’Unione delle Banche. Sono i primi anni ’50. Guido e il suo amico Ettore vivono la fine della gioventù. Il primo è bellissimo, fa l’amore con le ragazze più carine, ed io sono esattamente una di quelle. Volponi per rinfrescare quei ricordi aveva una strana relazione con me; ma ben presto mi farà capire che non sono le donne a farlo maturare, bensì il dolore per la morte prematura della madre, la lotta contro il padre repubblicano e anticlericale, la morte di quest’ultimo che lo libera da ogni stasi nella città natale e da ogni indulgenza. Ettore, che è l’altro protagonista del romanzo, per se stesso è di avviso contrario: il suo destino è di lavorare come maestro in zone di campagna, restando nelle Marche. Le nostre anime hanno avuto le loro simpatie geografiche e storiche, assolutamente distinte dai gusti che noi possiamo avere coltivato. Guido ha idee democratiche circa la ricchezza, che serva come strumento di liberazione e distribuzione della stessa a tutti i cittadini. In realtà scopre ben presto, a Roma, come il capitale sia una astrazione che è nella mente di pochi per un benessere egoista. Le speranze di un arricchimento per tutti scompaiono e, al posto loro, subentra (anche nella mente del giovane?) l’idea del privilegio e del comando. Chi ha ragione? Chi resta o chi parte? Forse ognuno ha un suo destino, che vale solo per lui: non è possibile generalizzare. Non si capisce bene come si comporterà Guido, ma di Volponi sappiamo con certezza che ha fatto esperienza disinteressata del potere industriale, per poi travasarla nei romanzi e nelle poesie a beneficio del prossimo. I personaggi da lui creati non sono mai i suoi alter ego, ma sempre delle trasfigurazioni che hanno lo scopo di avvertire il lettore di come funziona la società borghese italiana, che è la continuazione, in ultima analisi, e con ovvie mascherature, della società fascista. La repubblica sarà ben più che borghese: l’omologazione tecnocratica stringerà d’assedio ogni mente per asservirla al capitale. Guido Corsalini, il mio vecchio compagno, quello con cui ho avuto una storia effettiva – alla maniera di Vero come la finzione, il film di Marc Forster – si è scritto in romanzo così come io sto iscrivendomi nella tua storia. La vita non può essere vissuta come una storia, perché la storia viene sempre dopo, risulta: è imprevedibile e impadroneggiabile, proprio come la vita da hacker che stiamo vivendo. Se Guido avesse trascorso la notte a tracciare volontariamente sul terreno di Urbino il disegno di una vita, egli non avrebbe affatto avverato la storia. Dal suo agire sarebbe semplicemente risultata una storia diversa: la strana storia di chi passò una notte a tracciare, con i suoi passi, il suo romanzo di formazione.
Volponi invita i lettori a conoscere la realtà per tentare, ciascuno come può, secondo le circostanze in cui è gettato, di cambiarla in meglio. Non è opportuno vincolarsi ad alcuna norma di comportamento, in questo processo di maturazione. Come pensava Pasolini, la realtà è sempre più grande di ogni nostra testa e, quindi, affidarsi umilmente ad essa, alle istanze del momento, è richiesto principalmente per chi voglia né servire né comandare, ma fare esperienza libera e indipendente. In ogni secondo, siamo chiamati a scegliere tra libertà e asservimento. Entrai in contatto con Guido alla fine del 1986 mentre lui stava diventando presidente della Cooperativa Soci dell’Unità, promuovendo, con quel giornale, una fitta rete di iniziative, fra cui un convegno nazionale su Pier Paolo Pasolini. È da questa esperienza che nacque l’Associazione Casa dei Pensieri. Insieme a Guido, ho vissuto la crisi della sinistra degli anni ’80, proprio quando il mio amato urbinate si oppose alla dissoluzione del PCI e nel 1991, al momento della nascita del PDS – mi ricordo come se fosse adesso – aderì al nuovo gruppo di RC. A suo parere, la nuova organizzazione partitica, manteneva viva la speranza di un mondo più giusto e più razionale. Peccato che, al fianco di Corsalini, nella Rifondazione c’erano un po’ di stalinisti. E forse anche lui, con la sua autorità, con il suo pensiero, con la sua idea delle donne, era un po’ stalinista; aveva perso, insomma, la spinta libertaria del ‘68. Che vuole? in fondo lo stalinismo è stata la piaga del movimento comunista del XX secolo. Stalin, più di Hitler, ha fatto un lavoro subdolo, ha permesso alle masse popolari di tutti i paesi del mondo di non poter pronunciare con libertà la parola “comunista”. Un omuncolo paranoico, ignorante, sanguinario, con un limitato potere cognitivo e nessuna visione. Koba era uno dei nomignoli giovanili del dittatore sovietico: gulag, carestie, epurazioni, eliminazione del dissenso, stragi di massa.»
All’interno dell’Urss, per tutto il quarto di secolo del suo regime, Stalin fu un leader estremamente popolare e sanguinario. Le vittime di Stalin erano state le maggioranze, come i contadini (l’85% della popolazione) … Naturalmente la popolarità di Stalin fu interamente prodotta dall’indottrinamento. Se così fosse, vi è tutto uno scavo psicologico che è al limite dell’esilarante. Non si sa ancora, e questo non riusciva a saperlo neanche mister Guido, se Koba, invece, intendesse ripercorrere, attraverso una vicenda emblematica, la storia dello scrittore Stalin, o quella simbolica della sua famiglia.
Per un attimo si bloccò, soffermandosi sulla mia espressione allibita. Poi proseguì. «Poi la mia scelta di raccontare storie, dopo che le storie le ho vissute con Corsalini, fu facilitata dal rinnovo dell’immaginazione all’opposizione. Dunque, dopo un libro su Roma, che avevo pubblicato in età giovanile e che Corsalini mi contestava, ne ho scritto un altro…, storia di una cameriera ucraina che insegnava letteratura. Testo che mi ha immeritatamente collocata come la prima autrice contemporanea tradotta in quel bel paese da cui provengono tante badanti. Poi un noir napoletano, sul Principe San Severo e la storia del Cristo velato e un po’ di racconti qua e là. Ho lasciato le redazioni dei giornali quindici anni fa perché ritenevo il mio mestiere tramontato, almeno per come l’ho inteso io. Mi sono trasferita in Umbria, poi a Berlino. Romana di Roma forse per troppo tempo sono stata considerata l’amante del bancario Corsalini; amo le città in cui ho vissuto che sono appunto, oltre quella dove sono nata e cresciuta, Roma e Berlino. A parte leggere e scrivere mi piace cucinare i dati all’interno delle unità informatiche di base, coccolare il mio archivio a contatto con quello di Assange, strapazzare la mia “cana”. Nel giornalismo sono in parte rientrata grazie ad una pagina-libri che da tre anni curo su un Magazine Internazionale.
Il soggetto del racconto, del resto, è sempre privilegiato. A lui la magia della fabula, capace di concetrare la vita in una sola occasione di incontro, per consentire di vedere il disegno il mattino seguente. Dubitando di poter godere dello stesso privilegio, c’è una parte di me, la Mia Alterità che, a differenza di quella di Marina con Ulay, si chiede cautamente se saranno invece altri Guido a poter indagare con me uno storyteller. Se la vita è questo andare in su e in giù che risponde agli eventi, alle occasioni di incontro, senza poterli trascendere, se è questo agire e reagire che non prefigura le proprie tracce, è molto probabile che sia così».