Neon Realism, Sun and Sea (Marina), 2019

Sul cammino di Faust, tra il Sole, la spiaggia e i media

Proprio quando di certe parole non si sa più che fare e, come oggetti di una vecchia tecnica e di una archeologia visiva, esse entrano a far parte di un immaginario museo; proprio quando le parole non hanno più un’utilizzazione pratica e funzionale, allora lasciano intravedere un’apertura, rimandando non una sensazione di mancanza o di povertà, ma di eccesso in cui è rimasto in gioco nella loro storia passata un futuro aperto, un significato a venire come ulteriorità di senso, uno spiraglio di visione, un grandangolo che attraversa nuove finestre del mondo, un’antica promessa che la parola ordinata, fondata sull’identità umana di ogni cosa con se stessa, ha tacitato. Come se, non più prevaricata da un senso, da un gesto, da un movimento e non più ancorata dai riferimenti del sistema in cui si è definita, la parola si liberasse alla fluttuazione dei significati ed alla sua deriva metaforica, metonimica, metadiscorsiva e panlinguistica. 

Quando non possiamo più porci di fronte alla lingua di una pratica artistica in modo strumentale, ci troviamo nell’ascolto della parola che esprime e che corrisponde a tutti i sensi; in questa riacquistata equivocità e ambiguità, la parola scelta dall’humus archeologico dà di nuovo da pensare. La parola teatro ha permesso al pensiero artistico moderno, al suo inizio, di trovare il luogo deputato per la costruzione di un sapere certo e incontrovertibile, ma che oggi anche la storia dell’arte o delle arti gemelle, che pure su di essa ha costruito il proprio statuto, vuole lasciarsi alle spalle per assurgere ad un ordinamento post-mediatico o mediamorfotico. Ed è proprio attorno ad una parola-fossile, come è quella di teatro che Neon Realism (gruppo lituano premiato con Leone d’Oro alla Biennale di Venezia) e Anne Imhof (insignita dello stesso premio nell’edizione 2017), ci fanno intrattenere e ci intrattengono nelle icastiche scene, nelle tensive istallazioni viventi e nei meandri della loro, non ben identificata, performance, happening o quant’altro; in un percorso altalenante, che fa la spola fra il non molto fortunato teatro immagine degli anni ottanta – quello che affidò all’espressione teatrale stessa il compito di stabilizzare il linguaggio visivo della performance – e il melodramma che raccoglie e mobilita tutte le muse, le espone al vento del disgelo (soprattutto Neon Realism), per liberare e forse per confondere tutte le possibilità mediali che la maschera artistica aveva trattenuto tra i confini di una metropoli esplosa, di un orizzonte che macina fiction su fiction, simulazione di impegno su lacerti di verità politiche alle prese col realismo liquido.

Teatro, cosa significa e cosa comunicava il teatro: simbolo, ragione, follia, dramma, tragedia, azione, specchio della realtà? Teatro era una parola di significato ambiguo. In principio fu usata dai greci per designare la gradinata dalla quale si contemplò (theàomai= vedo) la rappresentazione drammatica; ma anche la massa del pubblico che vi si assideva era già soggetto partecipante alla manifestazione culturale, anzi direi politica. Poi la fruizione fu estesa a tutta l’architettura destinata alla rappresentazione e ad Atene lo si chiamò teatro di Dioniso, così come a Roma si disse teatro Quirino. Poi la nozione di contemplazione entrò in presa diretta con l’opera – letteraria o musicale – da rappresentarvi e si disse: il teatro delle tragedie alfieriane, o il teatro verdiano. Ma la vecchia parola teatro, seguì i tempi moderni e da ultima si adattò per indicare qualunque forma di spettacolo (da spectare= guardare). Il teatro in senso lato potrebbe, dunque, definirsi la comunione di un pubblico con uno spettacolo vivente, e forse dicendo questo possiamo ancora sostenere che il teatro quotidiano resiste laddove quel pubblico che vive in una città come Napoli, dà ragione a Walter Benjamin e Asia Lacis, che nel 1924 scorgevano nella tensione del popolo napoletano un teatro di vita, che solo Raffaele Viviani, Eduardo Scarpetta e i fratelli De Filippo hanno saputo tradurre come spettacolo vivente, rivolto contro il Re Luigi di Baviera che pretendeva spettacoli teatrali eseguiti per lui solo. 

Così nel loro viaggio alla ricerca di una teatralità simulata, Neon Realism o Anne Imhof si inoltrano in quel labirinto dalle pareti molli di cui parla Nietzsche dove, scivolando da un muro all’altro, da un orizzonte all’altro, si dà la storia di una condizione teatrale mancata, o meglio delle stratificazioni di senso di una condizione spettacolare, che in quanto gioca il suo equivoco fra la nozione di contemplare, superficializzare o rendere, è forse la dimenticanza a memoria più idonea della «diversione teatrale». A qualche centinaio di metri dall’ingresso dell’arsenale,negli spazi della marina militare a Venezia, il Padiglione della Lituania ha presentato Sun & Sea(Marina). La chiamano «performance estesa», con l’adattamento in inglese per la Biennale d’Arte del 2019. Una messa in scena senza cava teatrale e senza un’effettiva scena, ma con una grande occupazione di spazi ed un grande set neofelliniano, affogato nell’impegno politico e mascherato da un’arte sociologica, che farebbe invidia tanto a Josef Beuys, quanto a quelli del gruppo di Art sociologique che alla fine degli anni settanta dichiararono:“l’histoire de l’art est terminé”.In esso Herve Fischer, sosteneva che “il nuovo, per il suo stesso bene, è già morto in anticipo. Esso ricade nel mito del futuro”. Il punto di fuga prospettico su quella marina assatanata dal sole muore nelle derive di quel teatro che si fa società dello spettacolo, nelle secche immaginarie dell’orizzonte della storia compiuta. La vittoria del Leone d’oro, con una performance lunga sei mesi, consuma un finanziamento di 335.000 € e l’impiego di un capitale governativo, fatto di relazioni pubbliche e di strategie consensuali internazionali. È ovvio che le politiche della nuova performance si confondano con il liberalismo consumato tra  desiderio di calore e spiaggia. Alla previdenza del mondo economico, scaltrito più che mai, e coscientemente rivolto all’utilizzazione delle tecniche produttive e di mercato capaci di accrescere il volume degli affari, non ha corrisposto una pari evoluzione co-creativa che ha potuto evolvere la memoria del teatro nella performance e quella della performance nel nuovo teatro, per lo più, ci ha permesso di subire passivamente le situazioni determinate dalla produzione. Infatti, le spese per ogni giorno di performance, si aggirano intorno ai duemila euro, a cui vanno sommate quelle dell’istallazione e il lavoro volontario impiegato. Forse l’aspetto più interessante della dimensione parateatrale delle Neon Realism è che si tratta di una sperimentazione di genere, a cui insieme alle autrici si associa anche la sensibile curatrice italiana. Per il resto la spiaggia vista dall’alto,le ragazzine gemelle che giocano, uomini donne e bambini che leggono, persone che si annoiano tra i rumori, gli oggetti delle vacanze, le voci sussurrate ed esplosive che riecheggiano il sottile drammone di The Lobster (film del 2015, scritto e diretto da Yorgos Lanthimos,lingua inglese, con protagonista Colin Farrell e Rachel Weisz, ambientato in un futuro distopico), non fanno altro che spingersi oltre il Nouveau Realisme di Pierre Restany, oltre l’iperrealismo agghiacciante di Duane Hanson e di Chuck Close. Premiato con il Leone d’oro per le partecipazioni  nazionali  alla 58esima edizione della Biennale di Venezia, il Padiglione Lituania con Sun and Sea (Marina) ha portato una spiaggia con tanto di sabbia fine, teli da mare e barattoli di crema solare negli interni dell’antico edificio della Marina Militare (vicino all’Arsenale). Ma l’installazione ideata dalle artiste Rugilė Barzdžiukaitė, Vaiva Grainytė e Lina Lapelytė non si limita a questo perché i bagnanti sono cantanti d’opera. Visibile dall’alto, il lavoro permette al pubblico di scrutare una spiaggia durante il periodo più caldo e affollato dell’anno. Stesi  al sole ci sono personaggi diversi per età e condizioni di vita, che  poco a poco avviano al racconto di qualcosa di se, modulando la voce. Spesso si tratta di piccole inquietudini (la paura di scottarsi, l’organizzazione di ferie), i fotogrammi di un film tratto da un’ipotetica America Oggi (Globale…di 9 diversi racconti e una poesia) di Raymond Carver. Fin quando il racconto non diventa per più voci e le storie si sciolgono nella paura  per il futuro del pianeta (vedi il giallo ecoterrorista di Neal Stephenson del 1988). L’ambientazione,una spiaggia affollata in estate, dipinge un’immagine di fiacca e inconsistenza. In questo contesto, il messaggio segue l’esempio: prove serie si svolgono facilmente, dolcemente, come una canzone pop proprio l’ultimo giorno sulla Terra. In altri termini, Sun & Sea (Marina) si occupa del modo in cui Noi, la specie animale evoluta, costantemente non riconosciamo quelle minacce e urgenze su scala planetaria di cui Noi stessi mostriamo di essere la causa sociale. L’installazione è aperta dal martedì alla domenica fino al 31 ottobre, ma gli spettacoli si tengono solo il sabato. Guardando la marina è facile pensare che viviamo in un’epoca dominata da una progressiva estetizzazione dei modelli sociali in cui tutto si gioca sul piano dell’immagine, particolarmente all’immagine del prodotto legata a quella del personaggio performativo, dove la tecnologia è il medium fondamentale di tale estetizzazione. L’immagine della performance, malauguratamente,ci mostra un profondo interesse per l’esaltazione e le potenzialità del corpo, riproponendo una ridefinizione continua del concetto di mostrarsi (farsi vedere,apparire), guidando i nostri specifici interessi anche attraverso messaggi subliminali. Risulta, dunque, evidente che, così come in tutti i contesti delle relazioni umane, il linguaggio performativo, gioca un ruolo fondamentale, anche nelle strategie di estensione. Difatti, uno studio pubblicato dall’American Psycological Association ha rilevato che le interazioni non verbali, le performance, sono due volte più potenti di quelle verbali quando si tratta di creare empatia. Il termine empatia deriva dal greco e significa sentire dentro, identifica la capacità personale di mettersi nei panni degli altri. L’empatia è una forma immateriale, silenziosa,profonda, un robusto mezzo di comunicazione interpersonale, che non richiede necessariamente l’uso delle parole per essere dimostrata. Può essere espressa anche attraverso il linguaggio del corpo performativo. L’empatia permette di entrare più facilmente in sintonia con la performance con la quale si interagisce; in questo caso attraverso la pubblicità si mette in comunione con il fruitore con lo scopo di indurlo all’attività di consumo. Anche la performance può offrire dei servizi di consumo laddove l’esperienza artistica può rivelarsi una sorta di presupposto per un consumo contemplativo collettivo. 

Anne Imhof, Faust, 2017

Vincitore del Leone d’oro per la migliore Partecipazione Nazionale alla 57° Biennale d’Arte di Venezia, il Padiglione della Germania è stato affidato all’artista Anne Imhof che ha concepito la sua opera espressamente per  la Biennale scorsa. Faust è una messa in scena di oltre cinque ore (anche qui ci troviamo di fronte ad una performance estesa) che si svolge all’interno di uno spazio allestito per i sette mesi della Biennale. L’opera trascina pesantemente l’architettura del padiglione già dall’esterno; le gabbie con i cani, le pesanti lastre di cristallo antisfondamento che chiudono il pronao neoclassico lasciando solo un affaccio verso la sala principale, lo spostamento dell’ingresso per i visitatori sul lato del padiglione, e infine, le inquietanti presenze umane che scorgiamo lontane, sedute sul tetto preannunciano un’opera totale nella quale si sovrappongono piani formali e figurativi, dall’installazione alla musica, dalla pittura alla performance dal vivo. Faust consiste da un lato in una messa in scena di oltre cinque ore, dall’altro in uno scenario fisso, che permane per tutti i sette mesi. Esso è costituito da una dinamica performativa, un’installazione sculturale, una riduzione pittorica e una precisa coreografia degli angoli di visuale e dei movimenti che comprende l’intero padiglione. “Faust” diventa così una presenza assoluta, la cui essenza si trasmette all’osservatore in modo immediato e istantaneo, attraverso un’azione espansa: uno spazio, una casa,un padiglione,un’istituzione, uno stato. Il pavimento e le pareti in vetro penetrano lo spazio in maniera fluida, cristallina e dura, come ha luogo nei centri del potere e del quattrini. Confini spaziali che tuttavia rivelano ogni cosa rendendola visibile e controllabile tramite un teatro nascosto. A questo punto tutti si chiedono se si tratta di Strategie di nuova vendita o di pura innovazione? Oppure è necessario siccome è un settore che lavora con il corpo dell’attore? Prendiamo, dunque, in esame degli esempi della moda che usano pubblicità sessiste pur di scioccare e promuovere le proprie collezioni; come le mosse di marketing(rapporto tra moda e sessualità) di Vivienne Westwood che nel 1975 intitola il suo negozio col nome Sex, in cui le pareti interne del negozio furono decorate con graffiti pornografici e cominciarono a vendere abbigliamento da feticisti. Westwood racconta che il suo abbigliamento dell’epoca era ritenuto scandaloso, ma indossarlo la faceva sentire “una principessa da un altro pianeta”.L’esempio più eclatante dell’oggetto artistico, nato per essere percepito empaticamente viene individuato nell’operato della performance, infatti l’osservatore tende ad identificarsi con parti della scena e ne resta emozionalmente coinvolto. Originato dall’inclinazione naturale dell’uomo all’imitazione e alla drammatizzazione, nato storicamente dai riti religiosi dei primitivi, il teatro è tra le arti quella che meglio esprime il senso sociale dell’uomo. Esso corre su una linea diretta: autore (parola) attori (parola rivestita di carne) spettatori (Parola fatta carne in comunione con un’anima collettiva), ed ha avuto il suo affermarsi concomitante all’epoca d’oro sia della letteratura che della politica (storia e civiltà), in ogni nazione, dalla Grecia all’Inghilterra, dalla Francia alla Spagna. Il teatro rende presente (rappresenta), a chi assiste, una realtà che un tempo è stata vita, in una forma viva, palpitante, così che, pur sembrando una finzione (l’attore tenta di diventare un altro), è verità (la realtà rappresentata è doppiamente vita: quella rappresentata e quella che si ha nel contatto tra attori e spettatori). Ecco perché, nell’epoca nostra, in cui dominano forme nuove di espressione e di comunicazione (televisione, cinema e new media), c’è sempre un posto per la «performance estesa» (mutuando dal linguaggio del cinema underground potremmo chiamarla, parafrasando Gene Youngblood, Expanded Performance), per questa inautentica forma di spettacolo artistico che possiamo fare anche noi, almeno nella nostra funzione di spettatori en situation. Il teatro, nato per dominare il mondo del divenire e del molteplice attraverso l’ordine dell’immutabile,ha dovuto ritirarsi in una espansione performatica (sui generis),staccandosi dal teatro psichico della tradizione religiosa e poetica, dal mondo del tempo e dalla follia del corpo. La Performance diventa quindi l’organo del valore contemporaneo, il termometro della conoscenza come terzo occhio che fissa il presente: attraverso la sua retina categorizzante mette a fuoco una logica basata sul principio dell’identità e di non contraddizione. Ma la struttura oppositiva con la quale essa guarda, se guadagna un sapere mondo, non vive più nell’interiorità dell’espressione collettiva o nelle forme della sua rappresentazione, ma nella coerenza delle procedure che la descrivono sotto il controllo della tecnica. Abolita la verità come suo orizzonte, la performance della ragione strumentale, della condizione neo-liberale non si autogiustifica più in quanto unica e universale ma in quanto si da nella produzione di effetti di una realtà non di cose ma di rapporti che la tecnica prevede e sistematizza. E in questa totale esteriorizzazione performatica, all’azione espansa accade di risultare come la mappa del racconto di Borges che per duplicare il più fedelmente possibile il territorio finisce col confondersi con esso, perdendo così la sua identità autoriflessiva. Quello spazio terrifico e indifferenziato del sacro, che è stato occultato necessariamente (perché gli artisti potessero abitare la globalizzazione), significa, per i nostri performer, riattivare quell’intimo dialogo con l’altra parte di noi stessi da cui siamo emancipati, con quell’anima psichica che Jacques Derrida aveva chiamato della divina follia. Follia che non è il semplice opposto della ragione, ma quella theamania confine tra due mondi, che come eros “media” tra l’ordine espressivo e la verità dell’orgien mysterien theatre, di Hermann Nitsch. Non si tratta perciò di una semplice operazione di svelamento o di ribaltamento ma di espansione.  Esporre la performance al teatro, al suo fondo abissale, vuol dire allora esporre il pensiero e il linguaggio al vento del disgelo, non per tornare ad uno stadio prerazionale o mitico, ma per abitare quella zona di mezzo dove la performance raggiunge il suo limite e dove il limite definisce l’azione e in questa terra meglio del concetto può la metafora che non afferra (cum-capio) ma porta fuori (metaphorein): la metafora non è infatti un mero espediente glottologico ma la segreta verità del “teatrale” (teatrante), la sua abitazione linguistica e disagiata. Il pensiero performativo (delle arti visive) e il linguaggio metaforico (che impedendo alle parole di concludersi nel detto rimangono in punta di lingue le rende veramente ex-pressive), riaprono allora l’apertura dell’azione, apertura di senso dove ha luogo una circolazione infinita di significati che di volta in volta rivelano le regole che pongono in essere un mondo e consentono di leggerlo ma  che nello stesso tempo senza dare fondo a tutti i giochi comunicativi possibili che restano custoditi nell’azione, come  loro, interna, interiore, possibilità. In tale pensiero immanente, che dice il chiaro-scuro dell’espressione, viene accolto perciò l’anonimo non come non mediale o come altro dal mediale, ma come quel mediale che precede e segue il mediale di ogni cosa, come quel quasi mediale in cui però si dà un mondo: spazio aperto dell’equivoco dove si giocano le peripezie dell’arte e le oscillazioni semantiche del linguaggio nelle condizioni che hanno stabilità solo all’interno del gioco a cui appartengono. La performance espansa,come il teatro rimosso, è quindi quell’apertura che, nell’ordine della sequenza che si dà, custodisce la sua profondità che libera con la polivalenza del senso i frammenti di una segreta espressione. 

Se quindi la performance così intesa non è il riflesso di un ordine espressivo, ma la terra di nessuno in cui confiniamo l’ordine dell’interazione sociale e il fondo abissale del caosmotico, essa potrà darsi come cifra della nuova arte. A patto che il gesto del soggetto, al di là dell’artista, venga vivificato del suo antico significato di vita e nella cifra si legga l’originario zero, lo spazio vuoto dell’abaco che abbiamo ricordato ne La densità del vuoto e nel discorso sulle Corrispondenze