Simone Cametti, Denti, 2015 (ritratto)

Simone Cametti

Simone Cametti intervistato da Lorenzo Kamerlengo per The Hermit Purple, Luoghi remoti e arte contemporanea su Segnonline.

Parlami di un tuo maestro, o di una persona che è stata importante per la tua crescita.

Ne ho veramente tanti di maestri, ognuno di loro ha prodotto un pezzetto di me –  elencati in ordine alfabetico te ne dico alcuni, sicuramente i principali: Alessandro, Bruna, Claudio, Davide, Gianluca, Marina, Mario, Monica, Paolo, Sergio, Sonia, Tina.. Insomma, credevo di essere un monocromo di Klein, ma alla fine penso di assomigliare più  ad un arcobaleno. Poi a determinar tutto credo ci sia la curiosità, quella curiosità che sviscera la zona scura, quella curiosità che non ti fa dormir la notte, la stessa che ogni tanto si pente, ma non ne poteva fare a meno. Quella che definisce l’impossibile solo una tacchetta avanti, insomma la stessa curiosità che mi tiene ancorato alla roccia a guardare la prossima tacca.

Quali sono secondo te il tuo lavoro/mostra migliore ed il tuo lavoro/mostra peggiore? E perché?

Miglior lavoro, probabilmente, bolide 2018, un lavoro tignoso, durato 3 mesi di azione e più di un anno di elaborazione e post produzione successiva. lo definisco pulito, perché dopo tre mesi l’unica cosa che mi importava era definire un contatto e ristabilire un equilibrio tra me e lo spazio. Sono rimasto tutto quel tempo a smontare interamente l’illuminazione di un palazzo abbandonato di  dieci piani nella periferia romana, dopo tutto quel tempo passato nell’entrare e uscire, dormire e occupare lo spazio, ho prodotto un’installazione di 180 neon disposti all’interno di una stanza al settimo piano. L’accensione è avvenuta la notte del 18 Aprile di due anni fa, una notte lunga e tormentata.. si, lo definirei un lavoro intenso. Forse quello invece a cui tengo di più è TINA, progetto prodotto in Norvegia, all’interno di una cava di granito, anche questo molto radicato, in questo caso ho sviscerato me stesso e la mia storia. Peggiore.. ne sono tanti, e sinceramente, li elimino prima di definirli lavori, facendo sparire tutte le tracce. Mi viene in mente un’azione prodotta tanti anni fa, durante i miei giri in solitaria tra i boschi dell’Appennino centrale, quando trovavo una carcassa di un animale, me la caricavo sulla schiena e la portavo in una zona diversa da quella iniziale, per poi fotografarla. Concettualmente anche valido, ma l’odore che mi rimaneva addosso era una cosa veramente vomitevole.

Se ti ritrovassi su un’isola deserta, proseguiresti la tua ricerca artistica? Se sì, in che modo?

Tantissime volte ho pensato di cambiare vita, fare altro, “mettermi finalmente a lavorare?” Poi però ci ricado nuovamente, quindi credo che se mi trovassi in un isola deserta, alla fine farei le stesse cose di adesso, non riuscirei a separarmi da questo insieme, almeno per il momento. Mi inventerei qualche performance succhiando il latte di cocco dalle noci, oppure.. Già l’azione di sopravvivere in un’isola deserta è essa stessa una performance?

In che modo sta influendo l’isolamento di questo periodo su di te?

Quale isolamento ? Come detto in precedenza, ecco l’esempio lampante.. Ho inaugurato una mostra a Roma 3 giorni prima del blocco completo. Diciamo quindi che esausto dalla mostra, e in attesa di ritrovar le forze, volevo riposarmi un attimo, per cui, altro modo per non impazzire in quarantena era dedicarmi  ad altro. Dopo appena una settimane ho iniziato a lavorare come fattorino, con tanto di foglio d’incarico giornaliero, ed ecco qui che riparte la solfa sulla visione artistica, fare il fattorino nella testa è diventata una lunga performance retribuita, dove non so ancora cosa tirerò fuori, ma sto producendo documentazione video e fotografica, e già immagino una mostra futura, ma questo lo vedremo. Penso comunque che la performance sia per me un’enorme salvezza, vedo quegli attimi di vita quotidiana, come un’opera che non potrà essere mai riproposta.