Segnali dispotici emergenti? (I parte)

Le nuove minacce di fascismo e i dispositivi autoritari hanno cambiato le persone e il loro modo di pensare. Alla comunicazione in presenza, alla capacità di analisi e alla visione del futuro si sono sostituiti interlocutori fantasmatici, immersi in un populismo continuo e sempre visualizzabile attraverso uno schermo e uno spettacolo. Il soggetto politico capace di annullarsi in una folla che marcia per un’azione comune, ha ceduto il passo ad un’ombra oppressiva e ad un liberismo occulto, che si muove disordinato nella narcosi e imprevedibile schizza come un insetto. Perretta si interroga su ciò che accade quando una società – la nostra – rinuncia al racconto di sé per limitarsi a contare i “voti del nemico”, quando il privato si trasforma in pubblico che cannibalizza politica e collettivo.

La vittoria elettorale delle destre ha suscitato una valanga di commenti da parte della stampa internazionale. I Dem e il liberal-progressisti (che sarebbero trans-progressisti e quindi anche tradizionalisti) sono indignati, lì si può certo comprendere. Ma tutta questa bagarre filo-fascista e da becera società dello spettacolo rischia di fare, nel migliore dei casi, solo un po’ di solletico alle nuove forme del «dispotismo dissimulato». Credo sia ora di esprimere un giudizio più globale: criticare la politica di Draghi, di Meloni, dei Dem e delle associazioni a delinquere collegate ad essi è impossibile senza criticare le nuove forme del neo-capitalismo, assimilato dal programma delle destre occidentali: atlantiste, russofone o iperasiatiche. Più in generale: una critica della comunicazione (di cui si è molto parlato a proposito della marginale scalata della Meloni e dell’estrema destra) è impossibile, senza prendere in contropiede tutte le teorie – che si sono susseguite negli anni, da dopo la crisi Petrolifera del ’73 – sul presupposto esplicito e sottinteso, del superamento del capitalismo e delle sue leggi, proprio ad opera dei diversi paradigmi di scontro con la crisi, la guerra, il conflitto mondiale, la catastrofe ambientale, l’ecologia politica, il passaggio attraverso il grande inverno della prima Repubblica, l’esplosione e la fine dei movimenti sociali d’avanguardia, etc … Ora quello che è successo è proprio lo stadio finale di un processo. La macchina sociale, la macchina produttiva, la macchina mediale del potere tendono a diventare articolazione di un medesimo compimento e di una identica mutazione politica: il dominio neo-capitalistico del reale, di tutto il reale «antropologico» e «tecnologico». Nessuna archeologia culturale dell’emancipazione può soprassedere al memoriale dei paradigmi neo-fascisti che, sotto l’egida di programmi politici più o meno patenti, hanno aspirato a incarnare, negli ultimi decenni, le più svariate rêveries, profezie, ipotesi del concetto – o del progetto – di una comunità attiva. Adotto qui il neologismo buronarcosi per riferirmi alla semantica dei gesti e dei programmi mirati a disegnare o fomentare un’azione collettiva il cui messaggio politico sia conseguenza diretta dello statuto estetico in cui s’iscrive. La narcosi designerebbe, dunque, una dimensione più descrittiva ed esegetica che l’espressione informazionale o cyberfascista, adottata massicciamente dalla koiné della liberalità contemporanea e dal discorso della post-democrazia. Indotta in errore dall’abuso metadiscorsivo delle metafore politiche, e dalla tendenza a considerare la mediaticità la più efficiente di tutte, la teoria dello spettacolo non ravvisa alcun sintomo d’inerzia ideologica nel suo mito di convergenza diretta tra prassi, azione politica e discorso critico. Il sermone di dissidenza propalato dalle ultime anime belle e coscienze felici d’occidente, predica un attivismo desolatamente virtuale e rivoluzioni straordinariamente figurate. A scanso di equivoci, l’analisi antagonista farà debitamente un’archeologia delle forme danzate della falsa coscienza collettiva.

Le diverse macchine funzionano tutte sul medesimo piano di immanenza, sul corpo appestato della narcosi sociale (CADNS), sul corpo-Capitale-NFT, di cui il neo-fascismo non è altro che dei modi e degli attributi di malessere politico. L’impresa del neo-fascismo è un dispositivo in atto, che ci permette di vedere come l’autorità della politica sia diventata la fabbrica della propaganda nera: il giornalismo, l’informazione, il cinema, gli spot, i giochi e le strategie di comunicazione dei movimenti alternativi. L’Italia è il nuovo laboratorio politico delle destre oltranziste, ma bisogna subito aggiungere che si tratta di un laboratorio in cui si sperimentano nuove formule di governabilità, modellate da questa con-figurazione capitalistica. In effetti, nella figura del fascismo narcotico non si può più distinguere l’imprenditore (colui che garantisce la produzione di plusvalore), il padrone dei media (colui che fabbrica l’opinione pubblica) e il tatuatore politico (colui che manipola lo spazio pubblico). Queste diverse funzioni, anziché essere gerarchicamente disposte, si presuppongono reciprocamente, legittimando in maniera definitiva ciò che PPP chiamava il fascismo eterno e pluricategoriale. Nulla a che vedere con la democrazia liberale, con la conservazione del centrismo liberal di destra: forse si sta preparando qualcosa di ancora peggiore, ma anche certamente del tutto (radicalmente) destrificato. Tutti i commenti sulla lobby nera non fanno che dimostrare l’impotenza della democrazia e della sua deriva ideologica (invece che democratica), di cui la storia dei Dem è l’espressione più desolante, nell’apologizzare la forma capitalistica che trionfa in questo 2022: metabolè del fascismo eterno. Si tratta di un ricentramento, di un ulteriore ritorno indietro? In ogni caso, qualcosa nei nostri riferimenti e nei nostri turbamenti irrisolti, si sta muovendo, si sta spostando. Per schematizzare: negli anni Sessanta-Settanta, le trame nere erano ad un passo dal fascismo becero e rozzo o verso un pan-tradizionalismo senza svolta organica e culturale, oggi siamo nella panoplia subliminale dell’autoritarismo. Movimento ambiguo, contraddittorio, nel quale senza dubbio si dovrebbero distinguere due fenomeni. Da un lato non è impossibile rintracciarvi qualcosa di ultrareazionario: un ritorno al tradizionalismo gretto e autoritario – progresso di regressione e di stabilizzazione dopo le vertigini mondialiste e globaliste del periodo precedente. Anche al di là della cultura: istinto di conservazione insidioso, rivendicazioni di appartenenza territoriale, mitologie etniche, inni alla terra madre, nostalgie del suolo natio, crisi di identità, riappropriazione della lingua originaria, tutto questo, che ha connotazioni ideologiche perlomeno sospette, ritorna davanti al nostro malessere dem. Ma, da un altro lato, in questo apparente ritorno della crisi europea si può anche trovare tutt’altro: non un puro e semplice ritorno all’ovile, ma una volontà di sondare e di rivisitare ciò che, all’interno della crisi centralistica occidentale, era stato ignorato o rifiutato dal radicalismo dei movimenti d’avanguardia: riappropriarsi di ciò che, in questa crisi, è irriducibile al mito europeistico della democrazia come al mito americano della post-modernità. O ancora: non una ricerca di progetto egualitario, ma la necessità di imporre una memoria millenaria che la passione di amnesia dei movimenti politici d’avanguardia, anche in questo caso, aveva cercato di ritrattare. Insomma, per noi oggi l’Occidente potrebbe significare più un nuovo laboratorio di sperimentazione del rinnovamento ciclico del Capitale, che una restrizione di spazio politico. È molto difficile che i vari fenomeni sociali e politici destrificati col nome di fascismo corrispondano fedelmente a una definizione unitaria, perché i regimi cosiddetti fascisti sono molto diversificati, in relazione all’epoca storica e alla collocazione geo-politica, oltre che al grado di sviluppo industriale e ai rapporti di dominio esistenti tra le classi sociali. Nella storia sono stati proposti sei modelli in cui far convergere le molteplici e discordanti interpretazioni del fascismo: 1) il fascismo come corruzione e apice corruttivo, secondo la visione dell’intelligenza liberale europea; 2) il fascismo come effetto sicuro della crescita storica di alcuni paesi; 3) il fascismo come “passatismo di classe” antiproletario, che è una parte dell’interpretazione comunista, e che per molti versi rimane nell’insieme valida soprattutto per i fascismi precedenti la seconda guerra mondiale;4) il fascismo come fenomeno dispotico, confuso/diffuso e analogo allo stalinismo e come questo contrapposto alla civiltà liberale; 5) il fascismo come dottrina della crisi del mondo occidentale contemporaneo, sia nella forma reazionaria sia in quella di una linea giacobina in alternativa al leninismo; 6) secondo l’interpretazione psico-sociologica di W. Reich, il fascismo trovò presa nel carattere dei «singoli» che ne furono attirati, proprio a causa della repressione della sessualità che avevano subito attraverso l’educazione familiare; repressione che favorisce il desiderio di ordine, di disciplina e di eterodirezione. Alcuni critici, come PPP, hanno correlato l’ideologia fascista ad alcuni settori sociali emergenti: i gruppi intellettuali rivoluzionari, i gruppi tecnocratici, la classe media protestataria. Questo tipo di interpretazione può essere considerato come una correlazione tra il fascismo e una politica dell’industrializzazione in una data fase di sviluppo economico.

L’EUR in costruzione

Il fascismo italiano fu certamente una reazione violenta al movimento di classe nelle campagne e nelle fabbriche. Per quanto riguarda la sua ideologia, nel preambolo dottrinario dello statuto del Partito nazionale fascista del 1938, Mussolini scriveva che il catastrofismo fascista («fascismo delle macerie») respinge le dottrine liberali e socialiste e anche il “credo di una dottrina buona per tutti i tempi e per tutti i popoli”. Da questa affermazione si vede come il possibilismo ideologico sia una caratteristica del fascismo, come del resto si vide sempre nella politica di Mussolini e di Hitler. Questo fattore è unito con la subordinazione delle idee all’azione: il fascismo si presenta proficuo, assertivo, pieno di certezze, perché si propone come traduzione di “spirito di vita, di azione, di velocità”. Ma la mischia dadaistico-ready-made esprime altresì l’eros oscuro, il contratto idolatra tra i nuovi poteri dello spettacolo e le jouissances insensate della moltitudine: collassando a titolo di favore su se stessa per decreto della star artistico-politica di turno (che di fatto corona l’azione collettiva con un numero improvvisato di stage diving o crowd surfing), la stessa moltitudine celebra l’allegoria intenzionalmente abusiva delle implosioni di uno spazio pubblico così sequestrato dalle logiche neoliberali, così spogliato del suo valore d’uso, da autorizzare le amministrazioni a riqualificare precisamente come abuso ogni forma di lamentela non autorizzata. Invaso dagli spettacoli del potere, quello spazio non può a sua volta che turbare profondamente: abbandonare il non luogo delle convergenze generali e delle permute cauti, per divenire il topos di una dromoreazione esplosiva, fatta di affluenze, implosioni, incidenti e narcosi; non più zona di conciliazioni ma arena di tutte le velocità, vere o false che siano – contiguità violente, cieche esternazioni del deluso, scontro tendente al centro, plausi e devozioni. La traduzione cultuale dello sconvolgimento mediale. Nessuno degli “autoscontri” somatici simulati dalla subcultura e dalle subconfessioni è alieno a quell’eros dromologico (e dromoscopeo), quell’anelito esponenziale di “rovina liberata” che il neo-fascismo espleta in mille gradazioni, dall’antimondialismo dei parchi di territorialità alienata a entità sovranazionali guidate da presunte élite illuminate, dagli sport estremi ai disastri annunciati, dalle viralità internautiche a quelle pandemiche: sovvertire la deriva del disordine globale e tornare alle «tribù fondate su Dio e Patria». Per Hitler il patriottismo era l’ideologia che bramava levare l’aspirazione socialista del proletariato al suo quadro sociale e introdurre il motivo in una dottrina della potenza nazionale e dell’espansione violenta, che per realizzarsi si incentrava sul mito della razza, del popolo, del Fuhrer.

L’autoritarismo d’alta velocità si è prodigato, negli ultimi trent’anni, per monetizzare anche le ultime riserve di dissipazione e incidentalità. Il roboante motto dei talent show narcotizzanti e ideologici conferma che il fantasma di dissidenza mainstream, messo in atto dal capitalismo autoritario, come un servizio ulteriore a uso e consumo di tutti, gode di ottima salute. Il ricorso alla performance del corpo tatuato e del corpo delinquente e mostruoso, come scempiaggine della rivoluzione festosa e a prezzo di saldo, non è mai stato più avantgarde. L’idea che, per sua natura, la pressione dottrinaria dei segni dell’autoritarismo, in quanto azione “diretta” (e dunque disperatamente surrogata), non abbia bisogno di ragioni e discorsi perché è coatta, suona a squallore di massimo ascolto e a revival glamouroso di logiche sessantottine e criptofasciste. È di fatto la più argentina delle cretinerie in materia di antagonismo politico. Chiamerò per questo comunità di conflitto la comunità di distrazione e di performazione del civilismo borghese, spontanea o formalizzata che afferisce al topos del Nuovo Tradizionalismo Selvaggio. La “battaglia” Hip Hop del Caos Reazionario, il formato corale specifico di questo settore della controcultura, riassume bene i termini della questione: scongiurando la narcosi come esempio di un fairplay e di una consumazione retti esclusivamente da parametri tattoo, e dividendo il mondo in winners e losers, offre la versione elettrizzante e gregaria di una legge del far west che, frattanto, il capitalismo autoritario impone a colpi di precarizzazione lavorativa, marginalizzazione dei settori deboli, estenuazione della polarità di reddito e privatizzazione sfrenata. Rispetto al primato dell’azione, tutti i complementi teorici – di volta in volta recepiti dal fascismo, come il corporativismo, il sindacalismo, il totalitarismo, il dirigismo economico – appaiono marginali rispetto allo sviluppo effettivo della mobilità sociale. Quanto ai quadri ideologici, i vari fascismi (manifesti o sotterranei) se ne servono e li compongono secondo le opportunità del momento. Tipica dell’autoritarismo è la percezione della crisi di una società o di un’epoca,che tende a presentarsi come ideologia della salvezza sociale e nazionale, con un programma di fuga in avanti, e una politica catastrofista: “Noi vogliamo il caos perché lo domineremo”. La risoluzione della crisi è recepita come disgregazione dei quadri politici esistenti e con un appello a una unità politica di forze sane. Il luogo sociale di massa dei fascismi è sempre stato nelle classi medie e, soprattutto, nelle élites giovanili delle classi medie, alle quali ha fornito un’ideologia di dominio, anche se non bisogna sottovalutare il consenso ottenuto nei ceti militari, come in Germania, e in genere gli aiuti economici su cui ha potuto contare sia da parte della proprietà terriera che da quella industriale. In un’intervista, a cura di Massimo Fini, pubblicata sull’Europeo del 26 dicembre 1974, PPP diceva che: “ … esiste oggi una forma di antifascismo archeologico che è poi un buon pretesto per procurarsi una patente di antifascismo reale. Si tratta di un antifascismo facile che ha per oggetto ed obiettivo un fascismo arcaico che non esiste più e che non esisterà mai più […] Io credo, lo credo profondamente, che il vero fascismo sia quello che i sociologhi hanno troppo bonariamente chiamato “la società dei consumi”. Una definizione che sembra innocua, puramente indicativa. Ed invece no. Se uno osserva bene la realtà, e soprattutto se uno sa leggere intorno negli oggetti, nel paesaggio, nell’urbanistica e, soprattutto, negli uomini, vede che i risultati di questa spensierata società dei consumi sono i risultati di una dittatura, di un vero e proprio fascismo […] Soltanto che questo odio si dirige, in certi casi in buonafede e in altri in perfetta malafede, sul bersaglio sbagliato, sui fascisti archeologici invece che sul potere reale.” (Fascista in Scritti corsari, Garzanti-Epoca, Milano 1975/1988, pp. 192-194).

Meloni non ha vinto le elezioni perché proprietaria di una nuova formula magico-politica, ma perché rappresenta in maniera emblematica (o meglio empiricamente, come dice PPP) la nuova figura dell’imprenditrice populista, quello che abbiamo chiamato il soggetto politico aggressivo. Il suo successo elettorale non è dovuto ad una manipolazione dei media, ma a una complicità reale e profonda con un nuovo modo di produzione della narcosi populista all’interno della quale ella nuota come un pesce nell’acqua. Il fatto che questo nuovo populismo fascista utilizzi la provocazione come modalità strategica di comando e di organizzazione deve solo farci capire che si è entrati in un altro paradigma, nel quale il rapporto tra economico, sociale e politico è sconvolto. Per capire questo passaggio e per eliminare ogni malinteso, è allora utile rapportarsi ad altre riflessioni storiche. La pubblicazione de Il sistema di potere fascista di Axel Kuhn si colloca in un periodo di grande interesse per gli studi sul fascismo, in particolare per la discussione, sulla natura e l’interpretazione del fenomeno fascista storico e, contemporaneamente, per la sua attualizzazione, che ha caratterizzato negli anni recenti la cultura italiana, in tutte le sue manifestazioni e forse potrebbe caratterizzare il futuro di una grande crisi della democrazia occidentale: “Se una società moderna sia più o meno minacciata dal fascismo dipende dal modo in cui essa ha percorso la fase della rivoluzione industriale. Non pensiamo, quindi, che solo nella fase di passaggio alla società moderna possa sorgere il fascismo, pensiamo invece che esso nasca nella società completamente sviluppata che ha percorso una determinata strada verso l’epoca moderna. […] Intraprendere una industrializzazione forzata, comprimendo i tempi sarà ormai la regola finchè dominerà l’idea che lo sviluppo borghese-capitalistico non possa e non debba essere evitato. In base agli insegnamenti della storia, e tenendo conto di nuovi e finora non prevedibili sviluppi, dobbiamo dire che la via non socialista dell’industrializzazione accelerata negli stati arretrati offre le più grandi chance a esperienze di tipo bonapartistico e fascista. Il fascismo non appartiene al passato: è un pericolo per la società moderna” (Il sistema di potere fascista, pref.di G. Galli, tr. di I. Rossaro e M. Zaniboni, Mondadori Studio, Milano, 1975, pp.113-129).