Arco Madrid 2025
Antonio Della Guardia
Antonio Della Guardia, Per delle pratiche di nuova realtà, 2021-2025, tubi al neon, dimensioni variabili. Courtesy dell’artista, foto di Eleonora Cerri Pecorella.

Ritualizzare la condanna

Nei calanchi della visione, di Antonio Della Guardia, presso Supernova, Piazza di Santa Maria in Trastevere 14, fino al 16 marzo 2025.

Decine di scrivanie delle più diverse fatture e di ogni possibile colore e materiale, ma tutte della stessa altezza, formano un mare, un lago, o magari un palco tra le volte a mattoni di un locale che si apre su Piazza Santa Maria in Trastevere – che dà sull’acciottolato di sampietrini, sulla fontana del Bramante, sulla basilica medievale. Palco è parola incompleta, parzialmente muta: a perfezionarla potrebbe diventare palcoscenico o patibolo, luogo per la messa in scena di un’esecuzione, teatrale o macabra. O entrambe le cose, ritualizzazione di una pena alla quale il genere umano è condannato a partire dalla prima sentenza di cui si abbia notizia: «Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai» (Genesi, 3, 19).

Antonio Della Guardia, nato a Salerno nel 1990, riflette da tempo sul lavoro, soprattutto nella sua dimensione coercitiva: obbligo esistenziale, consustanziale all’essere umano, inevitabile dapprima per la sua sopravvivenza e in seguito per il progresso, con tutte le ramificazioni che quest’ultimo porta con sé, individuali e collettive. È un’analisi che ovviamente ha ormai più di due secoli, da Adam Smith e Malthus a Karl Marx, dal fordismo ai Tempi moderni di Chaplin, da Paolo Villaggio a Ken Loach, ma che non smette di offrire materiale da sgrossare, cavità da esplorare, pieghe da srotolare.

Come inizia a srotolarsi un suono attorno o al di sotto di quel mare soppalco di scrivanie, un martellare tenue ma insistente alle nostre tempie, ritmico come soltanto possono essere, nell’esperienza umana, il ballo e la catena di montaggio – o la macchina da scrivere, nelle gag dei tempi di Chaplin. Prima che ce ne siamo resi conto, due figure femminili, minute, identiche, in un abito chiaro che si direbbe forse di foggia coreana, si sono materializzate ai piedi e poi sopra la superficie delle scrivanie, adeguandosi al tempo scandito dalla musica, adesso più alta e fastidiosamente accattivante. Le due performer (Serena Zaccagnini e Claudia Tomaino) si accompagnano, si separano, si inseguono percorrendo le scrivanie, disegnando sulla loro superficie itineranti ossessivamente ripetitivi, volute o spire ofidiche, ocelli, giri di valzer o figure simboliche (uroboro o l’infinito su tutte), senza mai perdere compostezza e misura, con un controllo del corpo e dei movimenti davvero meritevole di plauso. 

Fermandosi, accennando a congelarsi come sculture, retrocedendo a marcia indietro, strisciando carponi come felini o in agguato o vietcong nella foresta, le due protagoniste della performance creata da Antonio Della Guardia e curata da Niccolò Giacomazzi, con le sonorità di  Gabriel Fischer, ci stano raccontando forse dell’alienazione del lavoro, o più semplicemente non sono altro che esemplari di un eterno prototipo umano, destinato per sua propria natura a seguire canoni e imitare modelli, magari per poi dirazzare quando meno ce lo si aspetta, con uno scatto che tradisce l’inceppo nell’ingranaggio – l’incidente, la ribellione, l’opera del genio.

Qui non c’è sorpresa, non accade nulla che interrompa il movimento, se non un suo periodico riannodarsi, girare su sé stesso speculare e riprendere l’abbrivio. Quel che accade è che, a prestare la massima attenzione alle due protagoniste, non si può sfuggire a loro sguardo. Può darsi che sia l’ultima cosa di cui lo spettatore si rende conto, rapito come sarà dall’opprimente eppure elegante coreografia, dalla capacità di Tomanino e Zaccagnini di occupare e dominare lo spazio, eppure nulla mi è parso più inquietante, più disturbante in modo sublime del momento nel quale si incrocia lo sguardo dell’una o dell’altra, o sono l’una e l’altra a inchiodarlo nei nostri occhi, trasmettendo una sensazione difficile da decifrare, pena, rancore, rassegnazione o perché no, un sottile odio – proprio di chi dalla Genesi è costretto a usare il corpo e il suo sudore per guadagnarsi il pane.

Ed è significativo che Antonio Della Guardia abbia lavorato negli ultimi anni, parallelamente al tema del lavoro e del corpo, a quello dello sguardo in ogni sua accezione, compresa la cancellazione, l’annientamento dell’umanità che vive, individualmente irripetibile, nel senso della vista: che non è necessariamente capacità fisica di vedere, in termini di funzionalità fisiologica, quanto piuttosto disporre di una proiezione del proprio intimo verso l’esterno. E ne è definitivo indizio il titolo di questa mostra, Nei calanchi della visione.

Antonio Della Guardia, Per delle pratiche di nuova realtà, 2021-2025, tubi al neon, dimensioni variabili. Courtesy dell’artista, foto di Eleonora Cerri Pecorella.

L’opera di Antonio Della Guardia migra dunque dall’ambito del lavoro alla dimensione esistenziale colta nel suo complesso. Il pane, potremmo dire, non è solo quello che il genere umano è condannato fin dalla Genesi a guadagnarsi con il sudore del proprio volto, ma anche quello altrui che sa di sale, nella profezia di Cacciaguida a Dante. La prospettiva di un permanente esilio che colpisce ciascuno di noi, separandolo fin dalla nascita dal suo bozzolo di sicurezze e protezione, è rappresentata dall’incessante movimento di Serena Zaccagnini e Claudia Tomaino sotto le volte dello spazio Supernova, fino al momento nel quale le due figure compiono l’ennesimo miracolo, scomparendo alla nostra vista attraverso un pertugio minuscolo, nel quale si fa fatica a credere che possa infilarsi un corpo umano qual che sia.

In questo gesto di fuga o piuttosto di sparizione, di estremo distacco, è insito l’invito a scendere nel sottosuolo del locale di Trastevere, dove la mostra prosegue con il progetto Per delle pratiche di nuova realtà. Si tratta di una sorta di mappa traslata della città di Roma concentrata in pochi metri quadrati, nella forma di frasi e disegni tracciati sulle pareti dei calanchi con tubi al neon di fluorescente azzurro. 

Sono sette luoghi che dall’Isola Tiberina all’Acqua Bullicante, dal Parco degli Acquedotti al Faro del Gianicolo, costituiscono possibili centri di mistero ma allo stesso tempo di miracolo, essenzialmente legato, quest’ultimo, all’elemento fluido.

Antonio Della Guardia cerca così una risposta alla fatica esistenziale dell’essere sulla terra: così come il movimento delle performer prova a restituire leggerezza al peso che ci mantiene incollati al suolo, l’invito che l’artista fa dalle pareti buie allo spettatore è di andare alla scoperta di punti topografici che possano offrire vie di fuga a questa malattia insanabile che chiamiamo vita.