La settimana scorsa in una mia quinta liceo è avvenuto un fatto singolare. Eravamo in sesta ora, la stanchezza era tanta e i ragazzi mi hanno chiesto di aiutarli a risolvere un problema, che in un certo senso mi riguardava: a secondo quadrimestre già iniziato, quando l’anno si approssima alla fine – che volete che siano due mesi e mezzo di lezione? – occorre organizzarsi per gli esami. Già ai miei tempi, in effetti, era d’obbligo predisporre con il dovuto anticipo bigini e cartucciere. E che dire dei dizionari, da arricchire sapientemente con schemi e fotocopie. Oggi l’intelligenza artificiale rende queste fatiche innecessarie. Abbiamo a disposizione una memoria collettiva sempre pronta, flessibile e collaborativa. Ne segue che il tempo libero residuo è di gran lunga superiore.


E vengo subito all’oggetto del contendere, che non riguarda la pace nel mondo, né gli obiettivi di Agenda 2030. L’unica cosa importante ai fini degli esami – retrocessi a prove accessorie dai test d’ingresso per l’Università, che decidono ben più incisivamente del futuro professionale di ciascuno – è predisporre le …magliette di classe. Cos’è del resto una classe se non una squadra, in cui ogni giocatore ha la sua insegna col numero e lo sponsor? Lo sponsor – questa la parte che mi riguarda – o meglio il simbolo unificante, avremmo dovuto essere noi docenti, in particolare quelli non compromessi con gli esami in qualità di “membri interni”; urgeva pertanto una mia foto, che è stata subito concessa. La parte seconda era invero più spinosa. A ogni maglietta corrisponde infatti un numero, che va distribuito con criterio. Non ci crederete, ma da prima mattina due fazioni opposte e combattive non erano riuscite a mettersi d’accordo su quale adottare. Secondo la prima, maggioritaria, il numero avrebbe dovuto assegnarsi in base al rango della lettera dell’alfabeto corrispondente ai cognomi. Altri, soprattutto i maschietti, avrebbero voluto il 20 di Totti, il 7 di Ronaldo, il 9 di Ibrahimović o di chissà quali nuovi campioni: non ho il tifo e le corrispondenze mi sfuggono. Capisco, però, da buon maschietto, quanto la fortuna di certi numeri abbia peso, specie se associata alla disposizione dei banchi. In fin dei conti, le donne avevano la maggioranza assoluta, che gli uomini non potevano in alcun modo contrastare. Che fare?
Secondo i più, cioè le femminucce, il voto collettivo doveva prevalere; secondo i meno tale voto andava usato per dirimere questioni importanti, non per affari come questo, in cui sarebbe stato meglio affidarsi al buon senso. Le regole non vanno forse di tanto in tanto trasgredite? Niente da fare. Era diventata una questione di principio. I miei bonari e goffissimi tentativi di conciliazione – “perché non sostituite i numeri con emoticon, o con lettere a caso?” – servivano soltanto a gonfiare la tensione. All’improvviso, preceduti da uno squillo minaccioso – a parer mio se ne stavano da un pezzo dietro la porta ad origliare – irruppero in classe due bidelli. Stop, si chiude! Ci saranno altri giorni per studiare la genealogia degli asini o per portare le sedie sulla testa, come in due celeberrimi Capricci goyeschi le cui lastre ero tentato di abbracciare nella mia visita alla Real Accademia di San Fernando. Questa versione in miniatura della guerra in Ucraina – vi immaginate Trump e Putin vestiti da bidelli? Il primo mette su un mercato nero di dolciumi e sigarette, il secondo reprime nel sangue i gavettoni nei bagni – si chiude così come è iniziata, non importa con quali vinti e vincitori. È ora di tornare tutti a casa.