Arco Madrid 2025
Cristina Piciacchia, Due alberi, 2023-in progress, libretto di miniature, rilegato a mano con legatura copta, cere acquerellabili,cm7,5x13,5,ph. Francesca Pascarelli

Offrire al mondo la sua Amina: riflessione ex post sulla mostra Animamundi

Si è conclusa la mostra collettiva Animamundi, con testo critico e a cura di Laura Catini, allestita presso Spazio Hangar, a Roma. È prossima l’uscita del catalogo che comprenderà, oltre i testi critici, le stesure testuali degli interventi critici del talk Il Site-specific. Percorsi, criteri, orientamenti e problematiche nell’arte contemporanea, e le interviste di Giulia Pontoriero alle artiste.

Nel febbraio dell’anno 1600, a Campo dei Fiori a Roma, venne barbaramente arso vivo per volere dell’Inquisizione il filosofo e predicatore nolano Giordano Bruno. Negli atti processuali, possiamo leggere una coinvolgente dichiarazione, che enuclea il punto più mistico e panteista del suo pensiero:

«In questo universo metto una providenza universale per la quale ogni cosa vive, vegeta, e si move e sta nella sua perfettione con cui è presente è l’anima nel corpo tutta in tutto, e tutta in qual si voglia parte, e questo chiamo natura, ombra e vestigio de la divinità, e l’intendo ancora nel modo ineffabile con quale Iddio per essentia, presentia, e potentia, è in tutto e sopra tutto non come parte, non come anima, ma in modo inesplicabile». Dalle parole appena riportate, trapela ciò che nella tradizione platonica si definisce Anima Mundi, ossia l’assimilazione della natura ad un unico organismo vivente, un principio vitale da cui si propaga ogni cosa, da cui si articolano le singole parti di un tutto. Rispetto a quest’anima, a questo nucleo vitalistico da cui prende forma il mondo, Dio è estraneo. Ma tale estraneità è sottolineata per indicare la sua stretta vicinanza immaginativa. Il mondo è il più importante simulacro della perfezione divina, immagine esplicita di ciò che può essere contemplato solo implicitamente mediante il modo (o moto) di negazione. Non è un caso se il riferimento bruniano abbia a che fare con la mostra collettiva Animamundi, a cura di Laura Catini e allestita presso Spazio Hangar (25 maggio – 1 giugno 2024), con il patrocinio del Municipio XI, Arvalia Portuense, e di Roma Capitale, e in collaborazione con il Centro Studi Arcadia-Acli e con l’Istituto Paritario Roma – Istituto Tecnico e Liceo delle Scienze Umane. Proprio la suggestiva immagine del mondo offerta dal filosofo ci indirizza verso una riflessione ex post: poter ripensare, après-coup, a una mostra conclusa vuol dire chiarificare la propaggine evocativa, emotiva, critica, riflessiva che l’esperienza espositiva ha saputo emanare, come se dovessimo manovrare, con i dovuti limiti, quella forza primaria, quel principio Uno da cui deriva ogni possibile differenza. Al di là della prossima pubblicazione del catalogo, impreziosito non solo dai testi critici della curatrice ma anche dai testi critici di Andrea Bardi, Benedetta Monti, Nicoletta Provenzano, Valentina Rigano, Danio Ruffini e Davide Silvioli (e già questo potrebbe illuminarci circa la forza ‘continua’ dell’esperienza in oggetto), si desidera informare il lettore della sottile quanto fascinosa liason spirituale che percorre il cammino espressivo messo in campo dalle quattro artiste in mostra, un anelito mistico che si declina alternatamente e pervasivamente tra l’Uno e la Differenza.

Dell’Uno

In un mondo sconfortato dall’angoscia della propria estinzione e frammentato da una pulsione securitaria politica ed economica che segrega ed esclude, le opere di Giulia Apice, Cristina Piciacchia, Diana Pintaldi e Maura Prosperi affiorano come, per dirla con Giorgiomaria Cornelio, dei fossili in rivolta. Seppur installate nel contemporaneo, votate all’odierno per materialità e finezza delle forme, le opere in mostra lambiscono l’antico e recuperano memoria di quell’intrico religioso e mistico degli Arvali, gli antichi sacerdoti romani che, al tempo, dimoravano nell’attuale Municipio XI, Roma Arvalia Portuense. La tradizione dei Frates Arvales è il punto d’inizio, o l’escamotage escatologica, che permette alle opere di sostare in quell’asservimento fertile al principio Uno, a quell’idea di matrice religiosa che da Parmenide a Cusano, passando per fascinazione orientali brahaminiche, ha intessuto un senso attorno al divenire del mondo. Se ogni organismo trova origine e si estingue in un’unica vibrazione vitale, come Giordano Bruno insegna, l’antropocentrismo decade e l’essere umano si configura come elemento coesistente fra tanti altri elementi. Tale verità si percepisce nell’opera pittorica Al di là (2024) di Giulia Apice. Realizzata su un lenzuolo affisso alla vetrata d’ingresso della Sacrestia, la sagomatura di un individuo rannicchiato tende ad una smaterializzazione della propria consistenza epidermica. A di là del corpo, o proprio mediante esso, la natura vibratoria e sottile dell’organismo uomo si disvela per ciò che è: vacuità ed evanescenza che aspira alla fusione con l’altro. Non c’è bisogno di un organismo per l’intendere l’explicatio di un principio Uno. La stessa materia è, per dirla con Jane Bennett, “vibrante”. In un campo ontologico senza alcuna secca demarcazione fra ciò che umano, animale, vegetale o minerale, tutti i flussi materici «sono o possono essere vivi, affettivi e significanti». Anche un libro racchiude un’anima, ed è ciò che si sperimenta nell’opera Due alberi (2024) di Cristina Piciacchia. Rilegato a mano con legatura copta, il diario intimista dell’artista fotografa dei paesaggi acquerellati che accostano natura e cultura, torri e alberi, edifici e montagne, cielo e terra. Gli elementi archetipali che costellano le miniature intessono una fitta trama simbolica, e trascendono l’inconscio individuale per assurgere ad uno psichismo spirituale collettivo che permea il mondo. Nel visionare l’opera si avverte una tensione spirituale più vicina alla contemplazione di Tommaso D’Aquino che a Bruno: l’anellamento delle miniature fanno pensare a quello “stato di aggregazione” attraverso cui il teologo descrive la presenza di un’anima libera e cosciente all’interno di un corpo. Essere nel tempo e nello spazio infinito (2024) di Diana Pintaldi ci avverte, invece, che il ritmo della vita è impulso alla decifrazione: il codice Morse ricamato su un lenzuolo di cotone nero segue il flusso criptico del linguaggio vitalistico del mondo. Lo viviseziona e lo scruta. E infine, le sculture in polymorph amorfe e perturbanti di Maura Prosperi (Sospinta, 2024), che si dislocano in vari punti dello spazio espositivo, sono monadi che, per citare ancora Cornelio, «danzano la propria rivolta contro ogni nozione di fine già decretata». L’avvilupparsi della morfogenesi di nuove creature postumane, transumane, declina ogni impeto antropocenico e ci proietta (anzi ci sospinge) verso un futuro in flusso, dove una «seconda natura» è in attesa di germogliare.

Della Differenza

E se riavvolgessimo il nastro del nostro cammino? Se, meglio, torcessimo topologicamente il percorso espositivo per farne un nastro di Moebius? Se una lettura maggioritaria prevede di rintracciare l’Uno negli avviluppi delle sue molteplici propagazioni, allora una lettura minoritaria, attigua alla prima, potrebbe essere invece il rinvenimento della differenza. Se ogni organismo è compartecipe del moto vitalistico del Tutto, allora ogni parte, per poter distinguersi e definirsi ‘parte’, deve difendere la propria assoluta alterità. Anzi: potremmo affermare che le propaggini di una forza unificatrice si articolano nello spazio e nel tempo attraverso l’azione del differire, ciò che opportunamente Jacques Derrida chiamava differance. Volgendo di nuovo lo sguardo sulle opere di Aminamundi, osserviamo che quella trasparenza che diluisce il corpo della figura di Apice è il segno della mancanza-a-essere che caratterizza ogni essere umano e lo differenzia da ogni altro essere vivente. Come osserva Jacques Lacan, il soggetto è mancante perché il linguaggio lo allontana da una esperienzialità diretta con le cose del mondo. Il codice Morse di Pintaldi non introduce un sistema, una combinatoria che si sgancia dall’energia sempiterna della natura, assumendone tuttavia una connotazione strutturale? E se gli acquerelli di Piciacchia coniugano la dialettica (e quindi la differenza) fra natura e cultura antropica, le creature spettrali di Prosperi, che sbordano dall’archeologia di una terra in decadenza, non fantasmagorizzano l’alterità di una vita in divenire, sempre in procinto di “infestare” di anima nuova quel futuro che sembra, a noi umani, non appartenerci più?

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