Dagli inizi della carriera fino agli ultimi lavori, l’esposizione milanese ha raccontato in otto sezioni specifiche la vita e la carriera di Niki de Saint Phalle, un’artista, creativa, rivoluzionaria, che con il suo mondo colorato e il suo fare gioioso ha definito una propria identità artistica, compito che definire arduo è un eufemismo per quanto riguarda le artiste donne delle generazioni passate.
Divenuta celebre per le enormi e coloratissime Nanas, Niki de Saint Phalle è salita alla ribalta con una serie di opere provocatorie, realizzate tra il 1961 e il 1962. Si tratta della serie degli Spari, eseguiti tra il 1961 e il 1962, una sorta di “guerra senza vittime” nella quale la ribellione simbolica portata in auge dall’artista è da intendersi come una volontà di contrapporsi alla pittura tradizionale, ad un sistema che per l’appunto, oltre a mantenere le sue dinamiche, non aveva spazio per le donne. Un gesto irriverente, compiuto a Milano, nei pressi del Duomo. Niki de Saint Phalle dà scandalo nella città meneghina, una performance-spettacolo che la consacra tra gli astri nascenti dell’arte dei primi anni ’60. Ma la De Saint Phalle non è stata solo Nanas e provocazione. Niki ha creato un universo fatto di colori, simboli, un mondo polimorfo e tondeggiante, materno, talvolta sgraziato e controcultura. Un’artista che nel corso di una vita travagliata ha cercato nell’atto del distruggere la forza per ripartire, ricostruire.
“Sono Niki de Saint Phalle e faccio della scultura monumentale”. Con questa citazione si apre la mostra del Mudec, anticipando la serie degli Spari. Vengono ripercorse varie fasi della sua carriera, da quando “era una giovane donna arrabbiata”, passando per il periodo (sempre agli inizi degli anni ’60) durante il quale Niki de Saint Phalle “mostrifica” le opere, come nel caso dell’altare OAS, ricoperto di pittura dorata e costellato di crocifissi e statuette votive, ma anche di pistole e animali impagliati. Il suo anticlericalismo si manifesta nelle serie delle “Cattedrali”, in segno di protesta contro gli orrori commessi in nome di qualsiasi religione. Si arriva quindi alle celebri donne della de Saint Phalle, quelle Nanas che diventeranno cifra stilistica per eccellenza dell’artista franco-americana. Prostitute, streghe, spose, madri, dee: la donna non è più relegata a ruoli marginali, assegnati da una società di stampo patriarcale. Le donne prendono finalmente il proprio spazio, si ergono a figure votive ma anche a opere architettoniche quali cattedrali o fabbriche. Sono madri, spose, balene.
Le “Nanas” sono giganti, colorate, danzano libere da pregiudizi e rappresentano una sintesi della poetica dell’artista. Le disuguaglianze di genere che l’hanno tormentata sin da quando era bambina (con la madre “prigioniera” in un ruolo familiare assegnatole dalla società del tempo) vengono sovvertite attraverso queste sculture voluminose e allegre, che portano con sé un messaggio di liberazione. La denuncia delle opere precedenti è sostituita da una nuova consapevolezza femminile, con un intento critico fuori dal comune se si considera che la maggior parte delle sue opere vengono realizzate tra gli anni ’60 e gli anni ’70. Anni di lotte politiche, in cui Niki de Saint Phalle omaggia Rosa Parks e la sua battaglia per i diritti civili negli Stati Uniti, Martin Luther King e Billie Holiday, pioniera del Jazz e della difesa dei diritti civili degli afroamericani. “The Lady Sings the Blues” è amputata, una scultura di grandi dimensioni che manca di alcune componenti fondamentali, come a voler urlare al mondo che quel corpo sociale fosse percepito come “inadatto”.
La mostra si chiude con una sala sul “Giardino dei Tarocchi”, il più grande progetto di Niki de Saint Phalle, la cui costruzione a Garavicchio (Capalbio) avviene nel 1978. La sua cattedrale, un Park Guell che racchiude la sua poetica in un’opera di arte pubblica. Infine il libro che realizza per sostenere pubblicamente i malati di AIDS nel 1986 e un’ultima sala dedicata agli Indiani d’America, sua grande ispirazione dopo il trasferimento a San Diego nel 1993. Una mostra che ha graffiato la fine del 2024 del mondo delle mostre italiane, e che ha inaugurato il 2025 a suon di biglietti venduti e un risultato social non indifferente. Un’occasione unica per riscoprire un’artista che si spera possa essere proposta più costantemente dai grandi musei italiani nei prossimi anni.