Arco Madrid 2025
Lund, esterno dello Skissernas museum

Al magazzino della memoria, a Lund (Svezia)

Lund è una piccola città con mille anni di storia, novantamila abitanti, venticinquemila progetti d’arte pubblica, due giganti di pietra, un orologio dove il sole gira intorno alla terra. A giganti e orologio ci arriviamo, e anche all’arte pubblica – con qualche passo.

Sceso dal treno veloce che traversa sott’acqua e sopra un ponte il mare tra Danimarca e Svezia, il camminare sul selciato del lindo centro storico di Lund s’accomoda presto alla gentile lentezza dell’ambiente circostante, come se il tempo fosse qualcosa che il freddo trasparente di febbraio contribuisce a rallentare. Lascio lo zaino in un albergo che sembra uscito da un’illustrazione di Ingrid Vang Nyman, supero l’atmosfera incantata del parco universitario giocando per un poco col pensiero – ricorrente, quando mi capita di passare per simili castalie – di quanto una vita qui potrebbe essere felice, raggiungo lo Skissernas Museum, il museo degli schizzi, l’istituzione sviluppatasi dall’intuizione e dedizione di Ragnar Josephson. 

Nel 1933, appena nominato professore di storia e teoria dell’arte all’università di Lund, Josephson si diede a organizzare una collezione che mostrasse il processo creativo proprio dell’arte pubblica nel mondo contemporaneo, dall’ideazione alla realizzazione (o no) di un’opera destinata alla fruizione pubblica. Erano, quelli, tempi accademici e curatoriali ancora benedetti da un’amatoriale leggerezza, come dimostrano nella maniera migliore l’impresa in cui si lanciò il professore contando su donazioni di artisti e mecenati, e la sua stessa sede: nel 1966, anno della morte di Josephson, lo Skissernas era ormai diventato la più grande raccolta al mondo di schizzi e bozzetti di opere d’arte pubblica, ospitata in ambienti originariamente presi in prestito da una palestra e a cui si sono via via aggiunti e collegati, con crescente professionalità, fabbricati e apparati critici. 

Ora, si può discutere sulla tenuta contemporanea delle idee di Josephson, intrise di psicologismo primonovecentesco circa individualità ed espressione artistica, e anche l’accumulazione espositiva all’apparenza caotica che si sperimenta nel museo può suscitare qualche perplessità, ma di certo non si può negare la vertiginosa visionarietà del risultato complessivo. 

L’ambiente principale, dedicato ad artisti svedesi, è occupato da giganteschi abbozzi di monumenti, le pareti coperte da una griglia metallica che consente di esporre e spostare facilmente centinaia di lavori, alcuni appesi anche sul soffitto. Al fondo della sala, una rastrelliera a scomparsa raccoglie taccuini d’artista e disegni preparatori, senza criteri ordinatori apparenti; sul lato opposto, si guadagna il passaggio a un dedalo di altre sale. La prima è un ampio spazio dedicato ad artisti francesi, e nella debordante quadreria si distinguono lavori anche notevoli: due intensi disegni preparatori di Matisse, per esempio, una raffinata serie di piccoli Léger, tre grandi dipinti macchinici di Delaunay. La sala successiva, più raccolta, ospita una collezione dedicata ad artisti messicani. Si possono ammirare, tra gli altri, i lavori preparatori dei murales che Diego Rivera realizzò negli Stati Uniti per il programma d’arte pubblica del New Deal, arte rivolta civiltà aliene, minuziosi bozzetti di Juan O’Gorman per i mosaici allegorici realizzati sull’esterno della biblioteca centrale all’università di Città del Messico. 

Basta superare la porta e quasi s’inciampa in un’abnorme maquette di Henry Moore, saliti al piano superiore si ragiona invece di cancel culture applicata a Zlatan Ibrahimovic rimirando i bozzetti del monumento dedicato al calciatore dalla città di Malmoe – la statua di bronzo, a grandezza naturale, venne rimossa dopo ripetuti atti di vandalismo da parte di tifosi delusi per il suo passaggio a un club non gradito dalla teppa. Ma a pochi passi di distanza tutta la concitata, calorosa disorganicità sperimentata fino a questo punto s’arresta, si raffredda in uno spazio fortemente meditativo. 

Un video, Notes on a Memorial, scorre qui su due schermi disposti sotto una campana di vetro da cui proviene la voce di Jonas Dahlberg, l’artista svedese originariamente incaricato dal governo norvegese di realizzare un memoriale per commemorare le stragi di Oslo e Utøya. Dahlberg vinse nel 2014 il concorso pubblico con un progetto che prevedeva di tagliare in due l’isolotto dove il 22 luglio 2011 un fanatico neonazista, dopo aver fatto esplodere una bomba nella capitale uccidendo otto persone, irruppe in un campeggio giovanile organizzato da un partito progressista e uccise, sparando a ciascuno di loro, sessantanove ragazzi. 

Ricordo bene la notizia dell’attentato, e poi l’impressione che provai quando, anni dopo, prese a circolare in rete il rendering del memoriale: il progetto si mostrava essenziale, potente senza enfasi, in grado di esprimere con plastica misura la frattura dolorosa vissuta da un’intera società. Diedi per scontata la sua realizzazione a breve, non ebbi più modo di pensarci. Ho ignorato dunque che, quando i lavori stavano per essere avviati, un ricorso presentato da un gruppo di residenti vicino all’isolotto li bloccò, portando il governo norvegese a modificare radicalmente il programma memorialistico. 

A Dahlberg fu chiesto di lavorare a un nuovo progetto, questa volta destinato a essere realizzato a Oslo. L’artista, che nel video ricorda di aver acconsentito al cambiamento perché un lutto personale recente l’aveva disposto a ragionare di una dimensione più intima e insieme universale della scomparsa di una persona cara, immaginò allora di disporre al suolo settantasette lastre di granito, tante quante il numero complessivo delle vittime degli attentati, su cui riportare il nome di tutti i cittadini norvegesi che risultavano vivi la mattina dell’11 luglio 2011, tra cui quelli degli uccisi. Anche questo progetto, a seguito di nuove rimostranze di alcuni abitanti, nel 2017 venne infine rifiutato dalla committenza pubblica – secondo il racconto della campana di vetro, la giustificazione addotta fu che fosse meglio tenere “un profilo più basso”, evitando di costringere il pubblico a pensare troppo spesso al dolore vissuto.

Esco dal museo, riprendo a camminare lungo la sera verso il centro, entro nella grande cattedrale. La chiesa, in stile romanico, custodisce due tesori. Il primo è un orologio astronomico risalente al 1420 dall’intricato quadrante precopernicano, sormontato da due cavalieri di legno che a ogni ora incocciano rumorosi le spade. Il secondo è una cripta risalente al XII secolo, dove, in una selva di colonne, se ne distinguono due per le strane figure che le abbracciano. Racconta la leggenda che il fondatore della cattedrale, San Lorenzo, sarebbe stato aiutato nella costruzione da un gigante dopo aver stipulato una scommessa pericolosa: l’energumeno avrebbe cavato gli occhi al sant’uomo se questi non fosse riuscito a scoprire il suo nome prima del termine dei lavori. La moglie del gigante si lasciò sfuggire il segreto – Finn – mentre cantava nel bosco, San Lorenzo ne approfittò per salvarsi la vista, la coppia irruppe furiosa nella fabbrica per sradicarne le fondamenta ma venne trasformata in pietra mentre provava a sollevare le colonne, e amen.

Passa il tempo, me ne sto in disparte a osservare le persone che sfiorano le due statue, come per secoli hanno fatto pellegrini prima di loro, e mi chiedo dove trovare un capo ai passi e al discorso che mi hanno condotto fin qui. Tanti sono i contributi che ricostruiscono teorie e pratiche dell’arte pubblica, grande rimane la confusione sotto il cielo. Forse, mi viene da pensare tra l’orologio mirabile che rintocca al piano di sopra e la devozione sotterranea presa a lucidare insieme storia, fede e folklore, il senso sta nel continuo socio-temporale che un’entità condivisa consente di stabilire, in uno spazio dato. 

La memoria, individuale o collettiva, è un campo di battaglia: ci si dispone intorno ad essa in ordini sparsi, spesso ignorando il risultato del confronto, visto il breve e confuso momento a nostra disposizione. Questo non è importante. Importante è che il confronto sia possibile nel tempo, ma perché ciò avvenga servono entità come, appunto, sono le opere che ora vengono dette d’arte pubblica: opere in grado, nei casi migliori, di sostenere una comunità, tenere insieme una società, consentire una nuova società comunitaria che sappia inventare e raccontare storie insieme. Se ben documentata, può bastare anche solo l’idea di un’opera, uno scorcio del suo farsi. Un museo come quello di Lund, serve egregiamente allo scopo.

J.Dahlberg, Utoya, 2014. Rendering

Note
Lo Skissernas Museum-Museum of Artistic Process and Public Art si trova a Lund, Finnegatan 2 (https://skissernasmuseum.se/): la sua storia è ben ricostruita dal saggio di Ludwig Qvarnström, Ragnar Josephson and the Skissernas Museum, in Britt-Inger Johansson – Ludwig Qvarnström (a cura di), Swedish Art Historiography. Institutionalization, Identity, and Practice, Nordic Academic Press, Lund, 2022, pp. 57-64.

Luca Arnaudo

Luca Arnaudo è nato a Cuneo nel 1974, vive a Roma. Scrittore e critico d'arte, ha curato mostre presso istituzioni pubbliche e gallerie private, in Italia e all'estero. Il suo libro più recente è In cammino. La storia di Marian Anderson e del concerto che cambiò l'America (Andante 2024)