Arte Fiera 2025

Charleroi, Pourquoi pas

Primo articolo di Luca Arnaudo per la sua rubrica “erratica” Salvatica.

Mattina di dicembre a Bruxelles, il volo di ritorno nel primo pomeriggio dall’aeroporto di Charleroi. Stanco dal giorno prima dei commerci della capitale, gli ubiqui calzini e cioccolatini con sopra la pipa di Magritte, immagino una visita improvvisata all’oscura cittadina prima del decollo. Cerco lumi in rete: l’ente turistico vallone, con scarso senso dell’opportunità, riporta che la municipalità ha avviato di recente interventi di street art anche per rispondere all’elezione di Charleroi in un sondaggio a “città più brutta del mondo”, apprendo che l’area circostante è detta “contea nera” per le sue miniere di carbone e industrie pesanti, una recensione recente su tripadvisor parla di “fogna” e “postaccio”. Insomma, l’attrazione per Charleroi è ormai irresistibile. Salto al volo su un treno che viaggia per un’ora attraverso la desolata periferia metropolitana prima, una campagna piatta poi. Lo sguardo è scandito da scavi, detriti e relitti industriali in prossimità dei piccoli centri che s’incontrano lungo la ferrovia; a osservare dal finestrino in corsa, l’impressione è che una divinità apprendista abbia provato a montare o rimontare un paesaggio, e infine rinunciato. 

Arrivo a Charleroi. Davanti alla stazione i volumi di una grande acciaieria contendono il primo sguardo a un gigantesco lupo cattivo e un’ammiccante cappuccetto rosso. Street art subito in azione, dunque, ma mentre m’inerpico per le strade che puntano alla piazza principale e a un improbabile municipio-campanile – raro esempio di art deco locale, sostiene il telefono – nessun spray cosmetico potrebbe nascondere la generale sensazione d’abbandono. Fa freddo, sento il bisogno di un caffè, scovo un bar-panetteria, e bene, accerto che anche a Charleroi si può essere felici, o almeno darne l’impressione. Ci sono amiche lanciate in amabili conversazioni, bambini alle prese con invitanti cornetti, vecchi piacevolmente affondati nella lettura del giornale, una cassiera gioviale che, alla mia domanda su cosa fare per un paio d’ore in città, mi consiglia una visita al museo della fotografia, poco fuori dal centro. Prendo un bus, osservo la cittadina diluirsi appena nella campagna, scendo in un sobborgo grigio davanti a quello che si rivela un antico monastero in mattoni rossi, entro. 

L’ente del turismo avrebbe fatto meglio a concentrarsi più su questo spazio espositivo che su sondaggi inclementi, perché il Musée de la Photographie – per estensione il più grande d’Europa dedicato all’ottava arte, leggo su un cartello all’ingresso – è davvero notevole. Nella quiete che si diffonde dal chiostro, una successione di sale luminose restaurate di fresco ospita su due piani una collezione permanente di quasi mille fotografie selezionate da un archivio di oltre centomila immagini, e varie esposizioni temporanee, tra cui, al momento, una grande mostra dedicata alla fotografia surrealista e una personale di Pol Pierart. 

Marcel Mariën, Muette et aveugle, me voici habillée des pensées que tu me prêtes (1940-45)

La prima esposizione, distinta in dodici sezioni che riorganizzano la temperie surrealista per impressioni e suggestioni, raccoglie scatti di nomi noti – il precursore Eugène Atget, Berenice Abbott, René Magritte, Man Ray, Marcel Broodthaers – e altri assai meno, a osservare i quali s’intende, come al solito, quanto i primi non siano che la punta critico-commerciale più in vista di fantastici iceberg d’immaginazione diffusa. Confermano l’impressione le argute sovrapposizioni di Marcel Mariën o le salaci battute visive di Leo Dohmen, i tormenti visivo-filosofici di Benjamin Fondane, gli improbabili fotogiornali di Max Servais raccolti in mostra. Soprattutto, colpiscono le straordinarie invenzioni di Paul Nougé (Bruxelles, 1895-1967), che di Magritte fu amico, sostenitore, ispiratore. 

Esposta nella sua interezza, Subversion des images è una serie di diciannove scatti che Nougé realizzò tra il 1929 e il 1930 con una modesta macchina fotografica e la disposizione alla posa di un gruppo di amici surrealisti, tra cui la moglie Marthe Beauvoisine, Marcel Lecompte e proprio Magritte che, nello stesso periodo, lavorava alla sua La trahison des images. Ora, mentre il René nazionale imperversa da tempo ovunque, rimangono sconosciute ai più le stranianti messinscene sur-casalinghe di Nougé, epifanie intime e ironiche di cosmi rappresi nello spazio di un soprammobile. In questo senso, una fotografia come La naissance de l’objet pare la sintesi perfetta di una ricerca, quella surrealista, che nelle sue intenzioni ed esperienze migliori ha saputo rivelare misteri e magie del quotidiano, indicando come la chiave per altre dimensioni possa anche stare infilata in quella di casa. 

Imprevedibile e geniale, Nougé è stato pioniere di uno dei movimenti che più hanno segnato l’immaginario del secolo scorso – il manifesto di sala ne parla come di “testa pensante e iniziatore del surrealismo belga” – ma tenendosi poi volutamente estraneo al successivo successo del movimento: Subversion des images, per dire, venne pubblicata per la prima volta solo nel 1968, poco dopo la morte dell’artista, in tiratura carbonara su iniziativa dell’amico Marcel Mariën, mentre la prima raccolta organica degli scritti risale addirittura al 2017 (Paul Nougé, Au palais des images les spectres sont rois. Ecrits anthumes 1922–1966, ed. Allia). Poeta, biochimico, fotografo, critico d’arte, tipografo, organizzatore culturale (sarà tra l’altro il primo editore di un giovanissimo Guy Debord, con influenze ancora tutte da approfondire sul situazionismo che poi fu), Nougé ha lasciato dietro di sé un’opera inclassificabile che si distingue per la sua intelligenza gentile e una spiritualità visionaria, mai vuotamente provocatoria, senz’altro meritevole di maggior riconoscimento pubblico rispetto a quello sin qui raccolto. Proseguo la visita, e a spostarmi nella sala adiacente del museo immagino che Nougé avrebbe inteso una certa affinità con l’artista qui ospitato per la sua personale, Pol Pierart. Nato nel 1955 a Liegi, dove tuttora vive, Pierart porta avanti da oltre trent’anni la costruzione fotografica di un personale universo d’immagini sur-quotidiane, animando un teatro perennemente in bilico tra ironia e poesia dove parole scritte su oggetti d’uso comune o infiltrate in scena stravolgono e irridono con bonomia il senso comune. “Da soli non si è niente – insieme troppo”: si legge in uno dei tipici foglietti dell’artista sovrapposto all’immagine di una strada affollata, ed è difficile trattenere un moto d’affezione per questo cugino di spirito finora sconosciuto. Moto del resto condiviso da altri estimatori. “Ammirabile Pierart”, scrive con trasporto il curatore della mostra Xavier Caronne, “ostinato come la marea, testardo come la risacca, preso a scavare solitario le falesie di un mondo – il nostro – dove regnano ingiustizia, menzogna, profitto e miseria”. Un mondo ben tristo, vero, ma pur sempre pieno di altri mondi, più felici e fantasiosi, solo a guardare meglio sopra, sotto, intorno, dentro. Perché no, anche a Charleroi. 

Musée de la Photographie
Centre d’art contemporain de la Fédération Wallonie-Bruxelles à Charleroi
Place des Essarts, 6032 Charleroi, Belgio
https://www.museephoto.be/
Surréalisme, pour ainsi dire… Dal 5/10/2024 al 26/1/2025
Pol Pierart. De progrès ou de force. Dal 5/10/2024 al 26/1/2025

Luca Arnaudo

Luca Arnaudo è nato a Cuneo nel 1974, vive a Roma. Scrittore e critico d'arte, ha curato mostre presso istituzioni pubbliche e gallerie private, in Italia e all'estero. Il suo libro più recente è In cammino. La storia di Marian Anderson e del concerto che cambiò l'America (Andante 2024)

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