Copertina di Bruno Conte Libro "NOMI Veri Falsi" di Marco Palladini

Marco Palladini «Nomi Veri Falsi»

Configurazioni «ecce nomi veri, ecce false immagini,tra ilarità “obliquide”, mash-up di montaggi e mediamorfosi»

Il calcolo delle derive è sempre più (in)misurabile nella critica che fornisce continuamente una serie di trasformazioni, di svolte, di interpretabilità anomale intorno al farsi (e al disfarsi) del racconto; afasie, stilemi, approdi del mittente e del destinatario, obliquità che si prefiggono di superare la psicobanalità del liquido, per imboccare la strada del poetico frammentato, del meditativo transeunte, del dialogico cinematografico, del diaristico da lettino schizo-analitico, miscelando realismo fenomenologico ed «echi fantastici e misterici». I troppi modi di scrivere un racconto, di inventare la sua ambiguità, la scelta della menzogna diseguale, le testualità suggestionate, le citazioni musicali che tagliano trasversalmente l’eros, la politica, lo sport, il cyber-futuro, l’infanzia, il teatro, la possibile soluzione tra l’essere nel divenire, l’inquadramento della parola rispetto al montaggio breve, interno alle congiunzioni e alle corrispondenze e la trasmissibilità di ciò che ognuno di noi pensa sia racconto-scrittura scenica, può darsi abbia creato codesto mash-up, e le relazioni sulle possibilità (e le impossibilità) di esso; operando nel caso di Marco Palladini discrasie insistenti e forse divenienti.

Il racconto del nostro Palladini è, in più punti e tessuti, riporto di magmi trasversali, il post-letteralismo è in agguato e non pochi lettori sono disponibili a codesta amplitudine derivata dai liquidismi; le connessioni sperimentali, mediamorfizzano la sua continuità, quasi sempre con gli stessi elementi, sebbene usati in modo diverso; le speranze e il gioco si miscelano nel clima stesso dell’avvolgente riqualificazione post qualcosa, o padroneggiando l’imitabilità dei nuovi classici della letteratura moderna, e ogni tipo di accettabilità del nome ambiguo o falso! La polemica in atto non contempla (nel suo pessimismo di fondo e di sfondo, nello sterrare nuove malinconie e rifiuti del “racconto solido”, del cosiddetto romanzo), quanto essa possa essere una festa dell’intelletto, per dirla con Paul Valery, e quanto una società narrativa abbia bisogno di ristrutturare le avversioni dell’anonimo e lo stesso concetto di vero, e altro.

Non è possibile alcuna predisposta archetipia nel presupporre che la parola del narrare sia o diventi narratologia ad ogni costo, e la paranomasia epidittica nasce appunto dalla discontinuità che la parola ha con la particolare preventivabilità critica e visiva.

A codesta logica di orientamento (e di esperienza letteraria) si affida Nomi Veri Falsi di Marco Palladini (Empiria, Roma, 2019) in cui, partendo con insistenza e resistenza, dal principio metatestuale della quasi teatralità e performance del racconto, riesce a travolgere ecce simulazione una serie quasi infinita di fantasmi di profili, la responsabilità inquieta (ma anche estremamente straniante e topologica) della sua psiche che spinge la verità di se stessa, le suggestioni dell’incastro montativo, le minute follie, in una macchina espressiva che riflette – tra l’altro – gli usi non soltanto effettuali che fa della vita, le frecce, i diari, le situazioni, la reperibilità, i capricci, i modelli magici, l’animalitudine, il rumore bianco, l’azzeramento dell’io, l’immagine del bisogno, il sovraccarico, il così lontano così vicino, l’evocazione, audiences sempre parziali, per un infinito che non ultima la sua identità alla fine del montaggio e tantomeno del presente libro, o attraverso una viziosa querelle mediatica, ma formando effetti variabili, senza linearità linguistiche, eppure ruotando la propria fantasia intorno ad essi, non senza farsi sorprendere dalla riflessione in forma di allegoria visiva. 

Marco Palladini, in Performance

Nomi Veri Falsi bilancia le ripercussioni del racconto sulla materia “obliquide”; se si preferisce: sulla psicologia collettiva dello slittamento delle identità. Palladini, in questo caso prende, in considerazione il raccontare al di fuori e al di là del suo eventuale valore letterario. Donde la parte riservata tanto al racconto doppio, quanto alla narratività polifonica. Donde del pari, la preoccupazione di dimostrare che il racconto, se riflette la società, ne presenta un’immagine attiva che intacca, come si dice di un acido.

Il narratore interno all’ideologia «obliquide» ne assume i toni di strazio e di sgomento, attestando la valenza tragico-realistica come principale dell’opera e degli eventi, laddove si narra il compimento di un destino politico non proprio, imprevisto ed odioso. In ciò tonalità quali la lamentazione del pane quotidiano,la litania, l’elegia, l’invettiva (dell’Europa fallita) risultano organiche alla modalità enunciativa del testo. Il campo semantico in cui la sperimentazione linguistica si esercita con maggiore efficace è proprio quello dello «sconvolgimento di una realtà promessa»: mutamento traumatico che è espresso come «invocazione del pane» – ovvero cieca e spaventata fuga dai luoghi del “principio speranza” e dallo squassamento mediatico stesso. Questo mondo in un qualche modo è rappresentato nei racconti di Palladini; non è tematizzato, come direbbe giustamente Merleau-Ponty, ma lasciato «dinanzi a noi al modo stesso delle cose». E gli uomini di Palladini sono quelli che abitano questo visibile mediale, e non c’è da stupirsi dei loro paradossi, poiché tutte le nostre interazioni hanno parecchi sensi, in particolare quello che offrono ai testimoni esterni, e noi li assumiamo tutti agendo, poiché gli altri sono le coordinate permanenti della nostra vita. A partire dal momento in cui sentiamo la loro esistenza, ci impegniamo ad essere fra l’altro quel che essi pensano di noi, poiché riconosciamo loro il potere esorbitante di vederci, di specchiarsi in maniera «obliquide». 

Non sappiamo se il mondo della vita sia stato veramente del tutto perso di vista dalla letteratura, né se quest’ultima sia ridotta ormai al solo denunciare le passate mancanze senza delineare nulla di definitivo; lasciando così ai legami (discussi e contrastanti) con l’arte il compito di immaginare per lei i futuri ambiti di competenza. Dal racconto la filosofia e la letteratura stessa possono certamente comprendere come ancora ci sia molto da lavorare per far ridiscendere al livello della Lebenswelt quella sensatezza dell’esistenza che lo scrittore, volendola rappresentare a tutti i costi davanti a sé, ha finito col plasmarla in un “mash up ubiquide”.  

E prima di finire, voglio riprendere una considerazione già prima introdotta. Nel virtualizzare il teatro della parola, essendo in gioco forze dure e liquide, si scatenano strategie in cui puntualmente si ripete la confusione fra immaginazione ed immaginario; si confonde pure l’immaginario come sostantivo con l’immaginario come aggettivo. Allora sottolineo che l’immaginazione letteraria, la speculazione tecno-allegorica è una facoltà umana, è una pertinenza del testo scritto, testualità ibridata dallo scrittore, con cui ci si può proiettare in avanti visualizzando un possibile orizzonte distonico, inventando pure il delirio che ci attende (il sotterraneo Ctoniloquio). La scrittura di Marco Palladini e dei suoi lavori come Serial killer (Sellerio 1999), Attraversando le barricate (Robin, 2003), Nomi Veri Falsi, è tutt’altra dall’idea del mero fantasticare sull’esistente che circola in certe fabulae. L’immaginario come aggettivo rimanda all’immaginazione in atto, all’immaginare/inventare ed ai suoi vari aspetti nella parola. 

La forma e l’immagine sono legate, da sempre, da uno stretto grado di parentela. Lo stesso vale per la formazione e l’immagine della scrittura. Per trovarne conferma basta pensare all’importanza che ha assunto, ancora più dall’epoca moderna in poi nella cultura occidentale, il rapporto fra la costituzione dell’identità della funzione egoica e l’immagine (la rappresentazione) di sé. Ogni formazione scritturale, ogni processo compositivo sfrutta l’immagine del nome come un catalizzatore, come un modello che guida. Ogni identità offre al soggetto che attende la scrittura un’immagine di sé, per come si è o come si crede di essere. L’immagine spesso orienta le fasi del processo e le forze del soggetto in formazione letteraria. Volendo ora domandarci se la falsità sia sempre negativa e l’autenticità sempre positiva, dovremmo rispondere di no, e la falsità è una forma di flessibilità, mentre l’autenticità sembrerebbe esigere la coincidenza con un modello stabile, ottenibile da una variazione. Dobbiamo concludere segnalando che, per quanto sembri ovvio, l’irreversibilità di qualsiasi cambiamento è in funzione dell’autenticità e della concordanza dei linguaggi che veicolano questo cambiamento. A meno che, nella scrittura di Marco, non si prenda, autenticamente, la stessa falsità come meta del cambiamento e della trasformabilità. La novità della parola di Marco non viene tanto data dalla aleatorietà della combinazione, ma piuttosto da un progetto di attraversamento nuovo, inventato per realizzare una scrittura altra. Infatti, inventando e scoprendo l’altro della scrittura, distinguendolo da ciò che attualmente esiste, Marco mette le mani sul timone di una nuova transitività. La proceduralità obliquide richiede un salto qualitativo del “guasto del giorno” (come diceva nel testo pubblicato per Tracce nel 2015) oltre certe soglie!

Palladini allestisce in vitro scritture di personaggi veri e di fantasmi da laboratorio, cavie di esperimenti teatrali e coscienziali, che rimandano al futuro possibile e al passato da identificare: proprio questo tempo senza tempo è la dimensione in cui sono calati gli strani personaggi di queste storie, che lentamente si focalizzano, quasi emergessero dall’indistinto ctonio di un’epoca-società senza volto, sottratta a ogni legge di causa-effetto.

Il mondo ritratto da Palladini è senza presente, ma nello stesso tempo dentro a un presente estremo, provocatoriamente sospeso tra le residue suggestioni della memoria e le premonizioni inquietanti del prossimo domani, in una cornice soprattutto onirico-notturna, realistico-diurna, forzatamente-forzosa, in cui dominano colori lividi e innaturali, in cui i gesti ed i codici comportamentali paiono stoppati o rallentati alla moviola, apposta per esprimere consequenzialmente l’assurdo paradosso di un gioco allucinato, fluttuante in un universo automatizzato e deumanizzato.

Palladini si dimostra abile ispirato narratore (naturalmente in una chiave originale e trasgressiva), senza cadere nella trappola di una fredda operazione a tesi, di ovvie teorizzazioni di routine culturali che avrebbero inserito il libro nell’ambito del metaracconto o del veteroapologo di matrice vonneguttiana. La lucidità e l’ironia di Palladini non sono onnivore, c’è ancora posto per un disperato sussulto di umanità, che ritrova la vita grazie ad una bicicletta. Come nella sottile melanconia di vita lasciata dal fantasma animale, questi racconti hanno una grazia che contrasta emotivamente con un cinismo di certe invenzioni scientifiche, il che conferisce un fascino maggiore, un’inquietudine aggiuntiva a stati psichici di sospensione e impalpabilità, tra il tanto vero e il tanto falso. A volte l’autore con sottile cinismo crea personaggi e situazioni, per lasciarli immediatamente in una sorta di limbo senza metterli in gioco o facendo esplodere il sottotesto del gioco, relegandoli al loro status di creature fittizie, disincarnate dalla stessa letteratura: questo quintessenziale, questo elevare all’ennesima potenza, questo trituramento esorcistico complica subdolamente la scrittura e la lettura dei racconti, creando una strana e avvincente torbida complicità tra chi ha scritto e chi legge, misteriosamente legati da chissà quale incantesimo, da chissà quale doppio incubo: le strategie obliquide.