Lucia Cristiani

Lucia Cristiani intervistata da Lorenzo Kamerlengo per The Hermit Purple, Luoghi remoti e arte contemporanea su Segnonline.

Parlami di un tuo maestro, o di una persona che è stata importante per la tua crescita.

Non individuo un’unica figura, riesco a visualizzare una serie di momenti, di incontri preziosi, viaggi che hanno modificato la mia percezione. Devo molto a tante persone, prime fra tutte, quelle che, ciascuna a suo modo, sono state e sono la mia rete di sicurezza. L’inclusività e la cooperazione per me rappresentano allo stesso il tempo il punto di partenza e l’approdo finale della costruzione di un lavoro. A volte è un processo complesso
ma credo sia l’approccio più aderente a me e alla mia ricerca. Forse per questo non riesco a individuare nella mia formazione la figura di un maestro, non perché non riconosca a altri maggiori competenze, saperi e consapevolezze ma perché ho sempre prediletto nell’approccio all’Altro una dinamica orizzontale.

Quali sono secondo te il tuo lavoro/mostra migliore ed il tuo lavoro/mostra peggiore? E perché?

Ogni volta che ripercorro a ritroso i passaggi della mia ricerca mi convinco sempre più che il mio lavoro sia uno che muta, si dirama, si evolve. Sbagliare, inciampare, riuscire a mettere a fuoco un punto importante, fa tutto parte dello stesso processo. Ci sono molti lavori che non ho mai mostrato perché inguardabili ma senza di loro altre cose non sarebbero mai
venute alla luce. Io sono una fan del fallimento perché mi smuove e mi avvicina alla realtà contingente. Il rischio maggiore che cerco di contrastare è di lasciare spazio alla versione più affievolita di me. Non credo che dalla mia confort zone possa nascere qualcosa di interessante. La sfida è uscire da essa il più possibile, allargando i suoi confini e facendo ogni volta un passo più in là. Per tentare questo movimento è necessario simpatizzare con il fallimento e portarselo a cena di tanto in tanto. Una volta qualcuno mi ha detto che un’opera altro non è che l’inciampo dell’utopia. Un inciampo fisico di un pensiero astratto.

Se ti ritrovassi su un’isola deserta, proseguiresti la tua ricerca artistica? Se sì, in che modo?

Essere su un’isola deserta metaforicamente coincide a volte con il mio più grande desiderio e più spesso con il mio peggiore incubo. Sento il bisogno della solitudine ma la trovo priva di senso se non è alternata al suo opposto. Ad ogni modo, per rispondere alla tua domanda, credo che le limitazioni fisiche all’agire non siano un limite all’atto immaginativo.
In ogni condizione è possibile porsi delle domande, avere la chance di osservare più da vicino il reale, aumentare l’angolo del nostro spettro visivo per prendere in considerazione nuove possibilità. Credo anche sia altrettanto lecito scegliere di non farlo, aprire un cocco al sole e prendersi il tempo di essere pronti.

In che modo sta influendo l’isolamento di questo periodo su di te?

Questa domanda mi è stata posta più volte in questi giorni, a me come a moltissimi giovani artisti. Penso che sia giusto interrogarsi sugli effetti di ciò che sta accadendo per i singoli e ancor di più nella collettività. Credo che la cosa più importante, ancor prima di porre questa domanda e di dare ad essa una risposta, sia essere autenticamente disposti a raccogliere le conseguenze che questi interrogativi implicano. Non si tratta di visibilità o di una tentata iperattività in un momento di isolamento, ma si tratta di riflettere e di domandarsi quale sia la direzione da prendere. Significa prepararsi ad accettare un nuovo livello di complessità.
Domandarsi “Dove andare?” credo sia sempre stato essenziale, tuttavia oggi abbiamo la possibilità di percepire un senso d’urgenza e di scomodità che può spingerci al movimento, metterci nella condizione di compiere delle scelte. La mattina faccio fatica a svegliarmi, mettere una sveglia lontana dal letto mi costringe ad alzarmi per spegnerla. Poi, una volta in piedi, la giornata inizia. Ecco, tipo cosi.