Alcuni artisti mentre realizzano gli altorilievi delle facciate di uno spazio espositivo al Zoma Museum di Addis Abeba, in Etiopia. © Samuel Schlaefli

L’opera d’arte nel tempo della sua esponibilità tecnica (I parte)

Dalle mostre sulle civiltà del passato alla maestria curatoriale contemporanea, dalle esposizioni-contenitore alle macchine di legittimazione delle emergenze del prestigio: l’intermediario, in modo più o meno credibile, mette in rapporto due modi differenti e cerca di colmare la distanza nella sintesi della rivelazione espositiva (si fa per dire), che non sempre, tuttavia, va a buon fine. Il suo insuccesso di “mediatore” mette in moto cortocircuiti senza linguaggio, produce alterazioni del senso, interrompe o rende digressivo e erratico il processo di trasmissione dell’Opera e della distanza dalla sfera pubblica!

La mostra, come i lettori di questo ciclo di saggi scopriranno, è un segno interessantissimo, singolare, che provoca il pensiero. Scriverne si è provata essere, a volte, un’esperienza strana e un po’ irreale. Tanto per cominciare, la mostra è intimamente connessa all’idea di nulla, di ambiente, di spazio. Esporre, installare, apparire, comparire, farsi vedere, presentarsi, affacciarsi, far capolino o crederci, affermare di non dare niente per scontato, come faceva Walter Benjamin, e spostarsi oltre l’ovvia possibilità di essere coinvolti nella realtà ultima del significare, è sempre una nuova sfida.

Ma lasciando da parte il pericolo dell’esposizione e le sue sottigliezze, che sorta di fenomeno storico è la mostra? Al di fuori dell’aritmetica elementare e del binarismo del computer, lo spazio ostensivo trae con sé qualche carico intellettuale o culturale dei giorni nostri? Se i titoli degli artefatti, per intenzionali e proclamatori che siano, sono qualcosa su cui basarsi, la risposta sembra essere affermativa. 

A un certo punto, durante la scrittura di questa riflessione, mi sono sentito inondato di curatele: un amico mi dà l’invito di una mostra; poi la pubblicità di un giornale annuncia l’invenzione di un festival o di una rassegna e la vendita di opere all’asta, si fa avanti un’opera tratta da un happening chiamato “esposizione zero”; viene pubblicato un romanzo dal titolo “mostra zero”; il video shop mi offre una “rassegna zero”: che cosa succede? C’è un fenomeno tautologico in atto? C’è qualche effettiva preoccupazione per uno stato estremo o terminale, o per la condizione di essere il contenitore dei contenitori che si manifesta in questi titoli? O mi sono semplicemente sensibilizzato a qualsiasi menzione della mostra zerogiocando sull’esposizione e ponendo ossessivamente in primo piano la ragione della vetrina? Ciò significa che discuto, come fa d’altronde Walter Benjamin nell’Opera … (1936), modelli di similitudine, di identità, di parallelismo dell’esposizione simili tra vari sistemi, codici e significati differenti, come l’enunciazione documentale, la mostra del cinema, la mostra delle arti visive. Ma le divisioni e le fasi complessive dello spazio semiotico non si mappano in nessun modo concretamente produttivo negli epistemi, in cui Walter Benjamin ritaglia il campo dei dati storico-espositivi: «nella fotografia il valore espositivo comincia a far arretrare il valore cultuale su tutta la linea».

L’arte è un oggetto espositivo recente ed è con le poetiche di consumo delle Fiere – e, in ambito italiano, di salotti, raduni, feste popolari, per citarne solo alcuni – che questo tema diviene oggetto specifico di osservazione semiologica. In tale prospettiva, i processi di memorizzazione espositiva e del declino di una forma spettacolo non appaiono più come azioni veramente soggettive, ma come costrutti sociali. Si tratta, in altri termini, di percorsi di esposizione, che avvengono entro quadri istituzionali ben definiti, entro pratiche sociali ben delineate. Se è vero, quindi, che è il singolo mecenate a mettere in moto il percorso espositivo, è altrettanto vero che le modalità espositive (le opere fra cui operare la selezione, il modo in cui fissare la strategia di attenzione poetica) con cui ciò avviene sono fattori politici eminentemente strategico-finanziari.

Un modo particolarmente efficace di guardare all’intersezione tra esigenze mercantili, incidenza di un mercato o di una finanza su una poetica, l’interesse speculativo di un target sociale, la scoperta di un’autorialità e predefinizione sociale nella rappresentazione di una tendenza o di una sovranità estetica, concerne la legittimazione della dimensione istituzionale. Vi sono, infatti, istituzioni per produrre e istituzioni per riprodurre. In tal quadro l’arte contemporanea, soprattutto quella sistemica e priva di stimoli di ricerca, diviene un ambito importante per l’auto-mitizzazione liberale, perché le società per azioni dell’industria culturale hanno scelto di lavorare l’esposizione del loro passato, presente e futuro attraverso la mediazione delle istituzioni artistiche e culturali. Ciò è vero da molteplici punti di vista: vi sono istituzioni in cui le caratteristiche di una nazione sono iscritte o mostrate nella strategia espositiva, ma vi sono anche oggetti eretti per il culto del monumentale-proprietario che seleziona per noi la versione ufficiale di una trasmissione di genere fra quelle molteplici cui la lettura del presente si presta. E ancora vi sono appuntamenti espositivi che non si riescono ad organizzare senza mobilitare la “sperequazione attiva di una tendenza”. Le grandi tensioni sociali – e talora persino fotografiche internazionali – che hanno accompagnato l’organizzazione di alcune mostre cosiddette miste (cioè relative all’affermazione di una poetica, ma anche alla giustificazione di una politica internazionale), documentano come la strategia mediale contemporanea entri sempre nelle agende politiche di un qualche movimento. I musei, le strategie espositive, ma anche le protesi mediali di accompagnamento rappresentano mezzi autorevoli di comunicazione e costruzione della realtà espositiva. Da questo punto di vista, l’arte cessa di interessare la sola sfera politica, in quanto forma di intrattenimento, luogo di consumo culturale, ma diventa arena negoziale in cui si rivendicano lauti investimenti, in cui si compete per la definizione dell’identità di classe. L’élite politica, il genere e la classe sociale divengono, monete di scambio particolarmente efficaci per la legittimazione dei fenomeni di status. In tal senso, l’arte e le sue forme espositive non sono più soltanto specchio dell’artecrazia, ma divengono piuttosto fabbrica del potere diffuso, spazio e luogo fra gli altri in cui l’imprenditoria elitaria e la finanza attuale continuano a costruire e a riprodurre se stesse. L’esposizione è la vita, la storia del costume artistico, la ricostruzione sempre problematica e incompleta di ciò che deve divenire sicuro per una classe. L’esposizione colloca il senso dell’Opera nello spazio sacro-profano, la storia lo sloggia. L’esposizione è sempre sospetta alla sua storia, la cui vera missione è catalogarla. L’esposizione è legittimazione del passato di un’opera vissuta. Analizzare l’arte espositiva, la funzione artecratica del curatore, come tecnologia presentativa, significa guardare agli artefatti a cui essa contribuisce per costruire l’economia collettiva di un’opera. Significa guardare al modo in cui l’arte espositiva interviene, come risorsa o come vincolo, in quei delicati processi che trasformano l’autore e la sua opera d’arte (o l’opera d’arte del suo entourage) in blocco storico. Storie e memoria dell’Opera, infatti, come sottolinea l’operazione di certe macchine espositive, lungi dall’essere dispositivi intercambiabili, sono talvolta in aperto conflitto: si potrebbe dire che in un certo senso l’esposizione glissa la gravità dell’evento storico da cui scaturisce e l’evento storico avvolge la finalità strategica dell’esposizione. Vi è una sorta di confine impreciso, di spazio ambiguo, una soglia insomma oltre la quale l’economia del simbolico non è più altro che simbolo dell’economia. Banalmente si potrebbe collocare tale soglia nel passaggio fra esposizioni: in tale prospettiva, la vita del “mostrato” corrisponde alla vita del mostro (o della mostra).

Musac spagna

Mostre ed esposizioni d’arte o arte dell’esposizione: due nozioni complementari, ma non confondibili, che un corretto approccio metodologico esigono di tenersi rigorosamente distinte. Mostre ed esposizioni, realtà operative e linguistiche complesse, che sottendono una pluralità di funzioni espressive. 

Ancora più che per qualsiasi altra forma di produzione artistica, l’analisi della macchina espositiva rende necessario il ricorso a diverse tappe, a diversi documenti, a determinati strumenti. Parlare di comunicazione artistica oggi significa evocare come prima associazione mentale quella con la “Mostra e la Curatela”. È la grande e piccola esposizione, infatti, il luogo in cui esplicitamente le strategie poetiche dell’arte vengono impiegate per raggiungere due obiettivi principali: quello a breve termine, di rendere più probabile il consumo di un determinato prodotto artistico, e quello a lungo termine, di creare un atteggiamento favorevole rispetto alla poetica, per rafforzare le abitudini di fruizione e di misantropia. Oltre a questi due obiettivi principali, tuttavia, l’esposizione ne consegue altri in modo più indiretto. Per esempio, rende familiari le opere d’arte e orienta gli appassionati, nel momento dell’approfondimento, abbreviando così il tempo necessario per la relazione con l’opera d’arte. Il tema dell’esposizione non può rimanere circoscritto all’ambito della comunicazione mediale, anche se, come avremo modo di vedere, tale ambito rimane quello in cui per antonomasia si concepiscono strategie con l’obiettivo di cambiare, costruire, consolidare le opinioni e i comportamenti del pubblico. 

Il mondo nel quale viviamo dipende sempre di più dall’economia e dal capitalismo; la mercificazione messa in atto da tali forze ha raggiunto e inglobato ogni aspetto della vita umana. In primo luogo, sono il lavoro e il tempo a divenire merce, tramutandosi nel principale motore del capitalismo. Il lavoratore stesso diventa merce, dovendo vendere la sua forza lavoro in cambio del maggior bisogno indotto dal regno dell’economia: il denaro. Lavorando, e quindi producendo nuovi oggetti e bisogni fasulli da consumare, egli tramuta sempre di più il suo ruolo principale da produttore a consumatore, da distributore ad espositore. Il consumatore è un lavoratore che non sa di lavorare e il processo espositivo è un’industria che non sa di legittimare la fantasmagoria e l’azione riproduttiva della merce. Consumando si svolge e si installa, in un certo senso, una forma di lavoro non retribuito in favore del capitale. In questo processo è anche compresa la figura del curatore, che passa dallo star system al morto di fame, dal funzionario del sistema (super prezzolato) a quello che alla fine del mese non riesce a pagare neanche le bollette della luce elettrica. La situazione presente, basata sulla liberalità oscillatoria di colui che ha tutto e di chi non ha niente, incentrata sul consumo e l’accumulo delle ricchezze della macro e micro povertà, porta infine allo spreco e ciò permette di continuare a produrre esposizione in modo abbondante, tralasciando tutto ciò che questo accumulo provoca. A contare del presente sono soprattutto, al posto della stabilità, dell’ancoraggio e della coerenza, la novità dello stimolo prodotto dal regime di esponibilità, la differenza e la centrifuga indotta dal mostrare. E, dunque, la mostra è caratterizzata da una continua rincorsa ai contenitori vuoti, dalla varietà e dall’eccesso di estensibilità-ostensibilità. «Il tempo che ha la sua base nella produzione delle merci, è esso stesso così come l’esposizione una merce consumabile» (direbbe Guy Debord in La società dello spettacolo, (Baldini & Castoldi, Milano, 2017, p. 177). Infatti, il tempo della produzione, acquisendo il carattere scambiabile, diventa tempo-merce, tempo svalorizzato, che ha perduto i principali valori di sviluppo e acquista il compito dell’esposizione altra: «[…] Quando l’immagine è costruita e scelta da qualcun altro, è diventata il rapporto principale dell’individuo col mondo, che egli prima guardava da sé da ogni luogo in cui poteva andare, evidentemente non si ignora che l’immagine reggerà tutto; perché all’interno di una stessa immagine si può giustapporre senza contraddizioni qualunque cosa. Il flusso delle immagini travolge tutto e, analogamente, è qualcun altro a dirigere al suo piacimento questa sintesi semplificata del mondo sensibile, a scegliere dove andrà la corrente e anche il ritmo di ciò che dovrà manifestarsi in essa, come eterna sorpresa arbitraria, senza voler lasciare tempo alla riflessione, e prescindendo completamente da ciò che lo spettatore ne può capire o pensare» (Commentari sulla società dello spettacolo, X, op.cit …).

In effetti, le persone risparmiano tempo con le loro macchine, ma una volta che l’hanno risparmiato non sanno cosa farci. Quindi, si trovano in imbarazzo e cercano di ammazzare il tempo risparmiato in un modo rispettabile ed esponibile. In larga parte, la nostra industria dell’intrattenimento, le nostre feste e attività di svago non sono altro che un tentativo di affrontare la noia di attendere in maniera rispettabile il tempo sommerso, il tempo dell’esposizione addivenire. I veri bisogni qualitativi sono stati annientati dai nuovi desideri quantitativi del possesso e dell’accumulo di merce, soddisfacibili soltanto con il bisogno indotto principale: il denaro. Il dominio dell’economia, tramite questo processo, ha messo in atto la degradazione dell’essere in avere, secondo cui l’obiettivo del singolo non è più essere se stesso, unico giudice delle proprie scelte, ma di avere, di possedere quello che gli viene proposto per pensare di poter apparire, ottenendo però l’effetto opposto e unificandosi così all’accettazione, alla passività moderna.

Marx sostiene che «l’uomo è colui che è molto, non colui che ha molto», ma purtroppo l’individuo, per essere considerato nella società moderna, deve rinnegare se stesso giorno dopo giorno, aderendo costantemente a deludenti prodotti, mettendo in atto una vera e propria cancellazione della personalità, incrementando così l’esistenza sottomessa alle leggi della merce.

«Poiché il capitalismo moderno, per poter sviluppare sempre più consumo, sviluppa nella medesima misura i bisogni, l’insoddisfazione degli uomini rimane la stessa. La loro vita non assume più altro significato che quello di una corsa al consumo, in nome del quale si giustifica la frustrazione sempre più radicale di ogni attività creativa, di ogni vera iniziativa umana» (Internazionale situazionista, Nautilus, Torino, 1994, n. 4, p. 3). La persona, aderendo ad una tendenza politica, seguendo una particolare moda, uno stile di vita o una determinata concezione artistica, crede di essere unica, di crearsi una propria identità. Così facendo, però, non si rende conto di selezionare un’immagine preimpostata dalla società e, distratto da queste false alternative, perde la visione dell’insieme, della realtà stessa nella quale vive. La società contemporanea filtra, quindi, il vissuto reale attraverso le esposizioni iconiche da essa prodotte per alimentarsi, creando bisogni per continuare ad esistere, mostre per continuare a vedere, perché in fondo la vera causa e unico obiettivo dell’economia è quello di autogenerarsi, di auto-esporsi: «… lo spettacolo non vuole riuscire a nient’altro che a se stesso» (La società dello spettacolo, p. 68). I suoi mezzi sono al tempo stesso il suo scopo. Guy Debord usa la parola spettacolo per definire la nostra società, ma anche per definire il parossismo ostensivo dell’esposizione, perché si accorge che in esso l’unico attore è l’economia, mentre il soggetto umano è limitato alla funzione di standista, un replicante che diviene sempre più spettatore, incapace di agire autonomamente. Questa sua non-interazione si trasforma in alienazione, l’esatto contrario del vivere: «non può esserci libertà al di fuori dell’attività, e nel quadro dello spettacolo ogni attività è negata (…). L’alienazione dello spettatore a beneficio dell’oggetto contemplato (che è il risultato della sua stessa attività incosciente) si esprime così: più egli contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la sua vera esistenza, il suo proprio desiderio» (ivi, p. 74, 75, 76).

La società è esposizione al punto giusto e più alto, con la sua comunicazione unilaterale e incontestabile, afferma che la ricchezza materiale sia la chiave per la realizzazione personale, che i ricchi sono i vincenti e che per puntare in alto non serve altro che lavorare sodo, indifferentemente dal retroterra familiare, etnico o sociale di provenienza: “Se poi non riesci l’unico da biasimare sei tu”.

MILANO PAC

L’aderire in continuazione a scelte che non ci appartengono, ci spinge a vivere un continuo stato d’ansia ed angoscia del quale nemmeno noi comprendiamo realmente le cause, l’unica soluzione apparente risulta il dover trovare un lavoro stabile e affermarsi necessariamente nella società. L’attore sociale dei giorni nostri è quindi confuso: pur rimanendo legato al vecchio conflitto tra blocchi sociali, ripudiando le classi più alte e i loro beni materiali di lusso, continua a vivere in questa società contraddicendosi, cercando di massimizzare allo stesso modo i profitti dei propri investimenti. Questo conflitto, scatenato nella psiche degli individui, non può che produrre vittime e l’aumento dei casi di sindrome bipolare, che aiuta lo scimmiottamento dell’Art Brut. Il conflitto scaturisce dal fatto che è il capitalismo stesso ad essere profondamente e irriducibilmente bipolare, ovvero esponibile e contemporaneamente incomunicabile: con i suoi cicli di espansione e crisi, periodicamente vacillante tra stati di eccitazione incontrollata e crolli depressivi, esso nutre e riproduce gli umori della popolazione, si incarna e si radica in noi, e nelle nostre esposizioni, come unica scelta possibile. Non sappiamo se sia davvero la sola opzione, ma, per continuare a vivere all’interno del mondo presente, non ne possiamo fare a meno.

La merce soddisfa apparentemente i nostri bisogni, facendoci entrare così in uno stato di appagamento alienante e di sovra-esposizione ordinaria; solo in pochi momenti di lucidità realizziamo che la felicità non deriva solamente dal capitale ed è proprio questa ambiguità che permette a quest’ultimo di continuare a regnare; infatti, senza delirio e senza fiducia in se stessi, l’arte e la spinta esposizionale, non saprebbero proprio come funzionare. A riguardo, già negli anni sessanta e settanta, teorici e politici radicali si concentrarono su condizioni mentali estreme come la schizofrenia, suggerendo, per esempio, che la pazzia fosse una categoria più politico-esposizionale che naturale e che il crescente problema dello stress e dell’angoscia nelle società capitaliste debba essere reinquadrato. Quello che dovremmo chiederci è: com’è potuto diventare tollerabile che così tante persone, e in particolare così tante persone giovani, siano malate? La piaga della malattia mentale che affligge le società capitalistiche lascia intendere che, anziché essere l’unico sistema che funziona, il capitalismo sia innatamente disfunzionale; il prezzo che paghiamo per dare l’impressione che il capitalismo fili liscio è davvero molto alto e si riversa nella condizione “esposizionale”. In una società come la nostra – dove la quantità e il lusso sono indice di felicità per l’eccessivo valore attribuito al denaro, alla ricchezza, alle apparenze, alla fama – più una persona possiede qualifiche e beni materiali, più è in grado di esporre merce, maggiori sono le possibilità di mascherare la sofferenza, lo stress o le malattie mentali. Le implicazioni sociali, dettate dalla nostra classe di appartenenza, hanno quindi un’enorme influenza sullo sviluppo della nostra persona, sulla nostra sanità mentale e sulla nostra spinta all’happening ed alla performance sociale.

Milano, Palazzo Reale. Un’immagine della sala con sullo sfondo il grande gruppo scultoreo in bronzo “Les Baigneurs” (Le Bagnanti) (1956) (cortesia photo F. Stipari)

La comunicazione tra individui, è estremamente necessaria per la libertà reale, cessa ogni giorno di più: ciascuno di noi è intrappolato nella propria realtà, concentrata sugli incessanti problemi della quotidianità per cercare di realizzare il sogno comune del lavoro stabile e della famiglia perfetta. Costretti a una fila di impieghi a breve termine, non riusciamo a pianificare un futuro, pur provando noia e disgusto per la vita che conduciamo e pur essendo costretti a celebrare l’esponibilità quotidiana. Non ci rendiamo conto di rincorrere un sogno che non è il nostro, ma di contribuire alla volontà del sistema di accrescere indisturbato il dominio dell’economia. Gli artisti si trovano pertanto a dover vivere in una condizione paradossale, nella quale non riescono più a comunicare e hanno la sensazione di essere in un istante dove passato, presente e futuro tendono progressivamente a fondersi, dove non è più possibile elaborare progetti a lungo termine ed è necessario convivere al meglio con ciò che ogni giorno si presenta. È necessario cioè accontentarsi, anche rinunciando alla ricerca della qualità ottimale e accettando quella proposta del buono-quanto-basta, che il mondo dei consumi propone sempre di più frequentemente.

Quindi competiamo per il posto più confortevole nell’alienazione generale, dimenticandoci di non essere realmente liberi, scordandoci di essere intrappolati in una realtà che non ci appartiene, obliandoci di coltivare rapporti reali, senza alcun fine lavorativo o economico. La situazione in cui versa il sistema dell’arte nel capitalismo è contraddittoria: il capitalismo ha bisogno della famiglia e del sistema dell’arte, in quanto strumenti essenziali per la riproduzione e la cura della forza lavoro, perché allevia le ferite psichiche inferte da condizioni socio-economiche fuori controllo; eppure, contemporaneamente, mina le fondamenta, impedendo ai genitori di trascorrere il tempo con i propri figli, alimentando la tensione di coppia nel momento in cui i partner diventano l’unica fonte di consolazione affettiva reciproca. Lo sviluppo tecnologico, dei trasporti e dei media fa credere all’umanità di essere unita, di poter viaggiare in breve tempo, di sapere cosa succede dall’altra parte del mondo in tempo reale. In realtà, la comunicazione tra individui è stata eliminata, l’unica che rimane è fittizia: la televisione e i social media sono mezzi che trasmettono e impongono informazioni in maniera non diretta, ma filtrata dalla società e, soprattutto, invitano all’esposizione dell’enunciazione anonima. Inoltre, il rapporto è unilaterale, perché tali indicazioni non possono essere contraddette: lo spettacolo parla, le persone ascoltano e le tragedie rimpiazzano grandi e piccole mostre.