Una mostra che si divide in tre atti composta da sette installazioni, nel quale Gaia De Megni presenta elementi e linguaggi che ha già utilizzato nella sua ricerca come l’archivio cinematografico e il costume come abito di scena, usandolo come dispositivo per la decostruzione di fatti e stereotipi sociali, e il film making autoriale tramite medium che la rendono originale, autoriale e biografica nella sua visione (tramite libri, proiezioni e dispositivi personalizzati).
In Fondazione La Rocca, con la direzione artistica e cura di Francesca Guerisoli, Gaia De Megni presenta la sua prima mostra personale, dal nome Leitmotiv. Lo fa riproducendo un paesaggio autobiografico, il suo paesaggio nativo, che si scaglia tra Santa Margherita Ligure e il paese originario dei genitori, Portofino.
Le peculiarità di questi paesi sono il dato numerico di persone residenti che è sui 150 circa durante l’anno e la trasformazione che si ha nei periodi di alta stagione, modificando questi luoghi da borghi isolati e meta turistica di grande interesse, diventando uno dei luoghi di eccellenza del summer dream nel quale l’estate diventa il viaggio del successo e della ricerca della visibilità per chi sogna quel mondo tra yacht, ville e paesaggi da cartolina. Quello che rimane, nel periodo di bassa stagione l’artista ha cercato di raccontarlo con il suo linguaggio, con tutta la sua autenticità e le sue difficoltà dove un click trasforma l’estate turisticizzata a una normale vita di un borgo, stupendo, svuotato e vissuto dai residenti.
Nel primo atto della mostra Leitmotiv, Gaia De Megni servendosi dell’archivio cinematografico si aiuta nel racconto di questi luoghi con il regista Michelangelo Antonioni, tramite il film del 1985 “Al di là delle nuvole”: Produce dei frame ispirandosi a immagini del film, immagazzinando su tela di seta, che consente quella trasparenza e eleganza; e racconta la visione del faro di Portofino come una delle mete più suggestive e romantiche che il territorio in questione permette di osservare . Una metà cara alle persone del luogo e anche a Gaia, che percorre durante l’anno come abitudine senza mai perdere il legame con il paesaggio.
L’opera Leitmotiv riflette sul cinema italiano, nel quale lei esplora l’immagine come ponte di memoria personale e collettiva. Il film è girato, in parte, lungo il sentiero che conduce al faro di Portofino e Gaia De Megni ne fa reminiscenza, facendo diventare soggettivo un’immagine già esistente. Ridisegna queste immagini, crea una stampa digitale e la impone su tela di seta lavorandola in seguito, la allestisce non come quadri ma come punti di passaggio, perpendicolari al muro, permettendo di entrare e sentire “leggendo” la audiodescrizione che l’artista scrive sul tessuto: una visione soggettiva dei suoni che sente guardando il film di Antonioni, frutto di tracce del vissuto personale.
Altro elemento sono le architetture naturali, Rune, composte da semi di eucalipto e carrube tipici della vegetazione ligure presente nel tragitto dal paese che porta al faro raccontato nella prima installazione. L’artista rende questi semi naturali in qualcosa di artificiale, immortalando come un’immagine e trasformando la sua parte produttiva in semi di bronzo rosso, dandogli un valore come le medaglie al valore costituiscono la figura di un soldato.
Il secondo atto è il teatro di scena, gli abiti, la sua scenografia e il componimento di ciò che prima era il cinema, prima che ci fosse tutto quello che vediamo ora. Gaia De Megni produce il suo teatro delle ombre, il primo sistema di effetti speciali che sia stato inventato: il teatro degli aironi è un’installazione composta da tre marionette, della forma di aironi che con la loro semplicità e manualità permettono tramite il movimento e un gioco di luce di far immaginare il volo, di nascondersi e di creare quella sensazione di meraviglia che il teatro di scena aveva la capacità di produrre.
La scelta degli aironi è autobiografica per l’artista, poiché è l’animale tipico del territorio ligure e soprattutto un altro abitante di Santa Margherita Ligure e Portofino, che fanno da scenario durante l’anno in questo territorio. La De Megni crea tre movimenti, tre immagini,di questi aironi omaggiando da una parte la pioniera del cinema di animazione Lotte Reiniger che nel 1926 produsse il primo lungometraggio utilizzando la tecnica delle ombre cinesi e da questo riferimento ne fa sua la visione riportando tre attimi come la fotografia sequenziale veniva utilizzata nel precinema. Gli abiti invece riprendono la ricerca sul tema militare dell’artista, già affrontata in altre sue esposizioni, legando un soggetto nazionale al teatro e al cinema. L’artista decostruisce la figura autoritaria in un gregario teatrale, trasformando il materiale militare di valore in carta, come simbolo di effimero e fragile e attribuendo un impermanenza al valore storico del simbolo di questi elementi. La carta si spezza, si degrada e così facendo rievoca una realtà non totalmente riproducibile. Marmur e Medagliere sono costumi di scena di carta offrendo, nella sua ricerca che prende le sue molte sfaccettature, la criticità delle dinamiche sociali contemporanee imposte da codici, regole e identità predefinite.
168 medaglie, nastri di stoffa, sagome in carta cotone; 6 aste in legno e tessuto.
Installazione site-specific, dimensioni ambientali.
Foto di Iacopo Pasqui
Courtesy l’artista e FLR Fondazione La Rocca
168 medaglie, nastri di stoffa, sagome in carta cotone; 6 aste in legno e tessuto. Installazione site-specific, dimensioni ambientali. Foto di Iacopo Pasqui. Courtesy l’artista e FLR Fondazione La Rocca
Il terzo e ultimo atto ha come metodo il film making, cioè incorpora in due installazioni il processo di visione tramite dispositivi pedagogici, come fotografia e video dell’immagine in movimento.
L’artista residente tra Santa Margherita Ligure e Portofino crea un collegamento nel percorso della mostra, tra l’atto precedente e l’ultimo, collegandoli ad un colore imposto in questi luoghi per le persiane delle case o gelosia nel gergo ligure. Il colore verde, con codice RAL 6009 fa da sfondo al Medagliere dando ancora più un senso al dettato costruito della figura militare senza mai minimizzare il ruolo del gendarme, creandone qualcosa di fantastico in tal senso. Il colore è utilizzato anche per dipingere la struttura che supporta l’opera Profeta, un’opera film del 2019 diventata una composizione di immagini fotografiche. La sequenza di immagini che può essere manipolata dal fruitore, racconta la vita quotidiana di un pescatore, in questo caso lo zio dell’artista, sulla sua barca dal nome Profeta.
Nel periodo invernale, quando la vita è lenta e vivere e sopravvivere si imbarcano tra loro, i pescatori e in questo caso lo zio di Gaia, aiutano gli aironi a mangiare poiché a causa del freddo e delle intemperie non riescono a nutrirsi come dovrebbero. Si creano dei sistemi conviviali, dove la figura del gabbiano risaputa diffidente e poco socievole, si fida dell’essere umano per continuare ad essere in un luogo e tornarci. Si creano delle immagini di forte meraviglia con la possibilità di ricostruire le azioni e le interazioni come se fossimo noi i registi di questa scena, dando nuova prospettiva di visione a chi lo guarda dopo di noi.
Completa la mostra Albedo: installazione video composta da tre canali che proiettano su lastre di marmo bianco cristallino sorrette in maniera quasi verticale da castelli di sabbia, dentro sacchi di juta. I tre video mostrano il faro di Portofino, punto di partenza della mostra e antagonista del film di Antonioni, visto da tre punti differenti ma sempre dal promontorio a indicare la via e a raccontare un momento di vita, dell’accensione fino al buio come se ormai fosse lontano. L’artista sceglie come fondo di proiezione il marmo cristallino per la sua lucentezza, per la capacità di poter eliminare anche delle imperfezioni volute ma libere dal concetto della video installazione. La luce del faro illumina il paese rendendolo ogni giorno un momento presente all’interno di questo grande film, fatto di stagioni e di persone che ne sono protagonisti costanti, temporanei e effimeri.
Questa mostra può essere un omaggio, a quello che è il precinema partendo dal teatro delle ombre arrivando agli effetti speciali che ora nel cinema contemporaneo possono avvenire e riprodurre. In qualche modo vi è una facilità di immaginare le cose, una difficoltà nel raccontarle non per incapacità ma perché non si vede tutto quello che si vuole, c’è quell’invisibile che si percepisce.
Leitmotiv è una prova dinamica di una lanterna magica, come scrive Goethe ne “il dolore del giovane Werther”: cosa è mai il nostro cuore senza l’amore? È come una lanterna magica senza luce! Ma appena tu vi introduci la lampada, le più belle immagini compaiono sulla parte bianca.
Infine, Gaia De Megni crea una camera di montaggio per creare una storia, non attivando nostalgia del passato o dei luoghi ma fa di un suo vissuto un attivatore di memoria per gli altri permettendo di far guardare a chi vuole da quella finestra, proprio quella finestra che ha un colore che è imposto dagli altri e ti permette di starci togliendoti però alla vista degli estranei. L’artista ligure apre a nuove possibilità e lo fa mettendo tutti gli elementi, permettendo nuovi scenari verosimili.