Divisa in quattro nuclei tematici (la rivista Sicilia, le insegne, gli “scarrabili”, le transenne), la mostra è stata sviluppata a partire dalla collezione personale dell’artista dei riviste Sicilia dipanando un particolare rapporto tra Favelli e l’isola che lo hanno portato, a più riprese, a frequentare le contraddizioni di una cultura “alta” e bassa”. Il titolo della mostra riprende il titolo dell’installazione composta dalle 89 copertine incorniciate della rivista Sicilia su cui l’artista è intervenuto con assemblaggi e collages di pubblicità degli anni Settanta e Ottanta. Sicilia e altre figure non si esaurisce con il percorso espositivo delle opere di Favelli, ma prende avvio anche la collaborazione tra il Museo Regionale e la direzione del Carcere con un workshop sostenuto dall’artista tra persone detenute, operatori socio-sanitari e studenti.
Ne ho parlato con Flavio Favelli in un’intervista che accende tante riflessioni e stimoli, proprio sul terreno fertile dei contrasti dell’isola che si rivelano linfa vitale per il lavoro dell’artista. La sua visione coinvolge il ruolo dell’arte e dell’artista all’interno di progetti sociali e culturali sconfinando con la comunicazione, le usanze, i costumi, la cucina, in un affastellamento di umanesimo cinto di dubbi e sempre nuove domande.
Miriam Di Francesco: La sua ultima personale è interamente dedicata a Palermo e alla Sicilia. Qual è il suo rapporto con l’isola?
Flavio Favelli: È un rapporto ambiguo. Si va in Sicilia per scoprire altri mondi, magari opposti. E anche i propri lati oscuri. Si va in Sicilia per vedere il buco nero dell’umanità che parla italiano. Certo si può andare anche in Siria, in Yemen a Cuba o in Sudan, ma in questi paesi non si parla italiano. In Sicilia si è estranei e partecipi allo stesso tempo. La Sicilia è una grande scatola, uno scarrabile pieno di dolciumi e correlativi oggettivi. Ogni metro in quella terra evoca qualcosa di alto e basso, sublime e ripugnate, delizioso e orrorifico. In Sicilia danzano, in un ballo appassionato, due innamorati: violenza ed estrema premura.
M.D.F.: La direttrice del Museo Riso, Evelina De Castro, si è detta particolarmente interessata al suo progetto come “operazione culturale di valore storico critico oltre che artistico”. Qual è l’esigenza di lavorare a partire dalla storica rivista?
F.F.: Ho composto delle opere, tutte inedite. Sono partito da materiali e oggetti esistenti che si tirano dietro parecchia roba. Esporre due cassoni scarrabili dipinti in un museo a Palermo non è stato semplice. L’esigenza è sempre quella che appartiene all’arte: esteriorizzare un modo di vedere il mondo, cercare di vedere, con la stessa temperatura, il recto e il verso della cosa. Si cerca di rappresentare quello che si vede e si sente in forma di nuove immagini, per rifare quelle vecchie.
Volta rivolta e torna a rivoltare, noi siam gli scariolanti lerì lerà che vanno a lavorar…
Diceva così una vecchia canzone popolare. Non è questo che fa l’artista?
M.D.F.: In mostra c’è una combinazione tra cultura “alta” e “bassa”. Cosa la incuriosisce di questo legame?
F.F.: Beh, i biglietti d’ingresso di musei o luoghi d’arte del passato e del presente sintetizzano questo. È il documento, fatto per poi essere buttato, che diventa opera ed evoca la meraviglia. Oppure i collage con semplici ritagli di pubblicità sulla rivista Sicilia, una parafrasi della cultura di questa terra. La veduta della Valle dei Templi con sfondo i palazzi in cemento e sabbia, cos’è? Non è un sublime intreccio fra alto e basso?
M.D.F.: Che cosa si intende per altre figure, come suggerisce il titolo della mostra “La Sicilia e altre figure”?
F.F.: I titoli sono come gli slogan. Non vogliono dire nulla, ma fanno. Donald Trump con uno slogan ha vinto le elezioni e forse le rivincerà. Però, alla fine, qualche figura c’è. Forse i piloni del ponte sullo Stretto? O le statuine Pupaccena? O il Palazzo di Giustizia di Palermo, che fu iniziato nel periodo fascista ma finito alla fine degli anni Cinquanta, si notino in ogni lastra di rivestimento in marmo le viti che a migliaia le fissano, particolare non trascurabile in un’architettura del genere. Oppure le mille figure della rivista Sicilia o quelle losche -i turchi- della Porta Nuova. Ma sono anche le transenne che vengono dall’Ucciardone.
M.D.F.: Come nasce e si sviluppa la mostra intorno ai quattro nuclei tematici?
F.F.: Va, come tutte le mostre, a tentoni. Si mette insieme quello che si ha in mente e quello che si è fatto. La rivista Sicilia è incredibile, gli scarrabili sono il vero soggetto di Palermo, la vera caratteristica della città. Ma al di là di questo, al di là di quello che offre la città, è quello che mi ha colpito, la forma dura dei cassoni scassati che portano via, come carri funebri, i pezzi di una città. Sono erosioni quotidiane, macerie organizzate dalla logistica, immagini dell’industria, di una civiltà moderna che divora tutto.
Che qui è moderna e arcaica allo stesso tempo. I temi poi sono tanti, si intrecciano fra loro. I temi sono le immagini di questa terra. Si veda la foto di Giuseppe Salvatore Riina del 2011, figlio di ‘u curtu, di quando esce dal carcere. Pulloverino rosa e piumino Moncler bianco senza maniche, con camicia bianca fuori dai pantaloni. Immagine profetica.
M.D.F.: In questa personale c’è un intervento site-specific che unisce istituzioni che appartengono a mondi separati come il Museo Regionale e la Casa di reclusione Ucciardone. Cosa significa per un artista collegare ambiti tanto lontani e toccare le questioni sociali?
F.F.: L’arte tocca sempre tutto. Poi c’è chi lo fa in modo letterale e didascalico e chi no. Le veline delle arance mostrano un immaginario popolare a volte gentile, a volte ingenuo, a volte rozzo di una carta che si doveva prendere cura di un singolo frutto. Ha sempre rapito tutti, nel freddo settentrione, l’arancia incartata a mano, nelle cassette uguali dei frutti uguali della grande distribuzione. Qualche anno fa in Sicilia erano stimati trecentomila analfabeti. In realtà questi ambiti non sono così lontani, l’ambiente del Real Albergo delle Povere e l’Ucciardone, sono istituzioni legate all’aiuto dei poveri e alla reclusione, due grandi classici della nostra storia. L’artista si relaziona sempre col potere e questi due ambiti sono ambienti che governano il potere. In entrambi gli edifici c’è una grande questione estetica. Come artista non sono interessato alle questioni sociali perché non è compito dell’arte sollevarle, certo che oggi la società chiede sempre cose concrete all’arte, è un periodo populista, un periodo terra terra. Sto dipingendo due container dentro il carcere con l’aiuto dei detenuti. Si ha la sensazione che sia una grande situazione teatrale, ognuno recita un ruolo. Come ha detto un agente di polizia penitenziaria, il carcere è un videogame.
Flavio Favelli
La Sicilia e altre figure
A cura di Elisa Fulco e Antonio Leone
Real Albergo delle Povere
Corso Calatafimi, 217 – Palermo
27 giugno – 8 settembre 2024
Orari: da martedì a venerdì dalle 9.00 alle 17.30
Ingresso libero
Info: urp.museo.riso.bci@regione.sicilia.it | www.museoartecontemporanea.it